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Elisa Mandelli: “In Treatment, un format da soap per riflettere sulla psicanalisi”

In Treatment, un format da soap per riflettere sulla psicanalisi

Un libro edito da Mimesis analizza la serie

Un’opera, In Treatment. La serialità in analisi (Mimesis, 2017), che per le sue ipotesi si avvale delle testimonianze di due protagonisti, Hagai Levi e Nicola Lusuardi, che hanno creato e adattato la serie. Un’occasione per riflettere su questa fiction targata Sky, tratta da un format israeliano, con una struttura da soap, e che ha visto oltre sedici adattamenti nazionali. Infine, un modo per mostrare la psicanalisi, vista attraverso l’intrattenimento, ma che tramite questo ha visto la sua diffusione all’esterno e all’interno della comunità scientifica degli psicoterapeuti. Tutto ciò, appunto, nel lavoro, uscito da pochi giorni in libreria, di Elisa Mandelli, assegnista di ricerca presso l’Università degli studi Link Campus University (Roma).

Come nasce la sua opera, e quanto sono state utili per la sua stesura l’intervista del 2016 con Hagai Levi, ideatore e regista della serie originale, BeTipul, e quella del 2015 con Nicola Lusuardi, sceneggiatore della serie italiana?

Il libro nasce innanzitutto dalla mia passione per la serie che avevo visto anche in versione USA (In Treatment, 2008 – 2010): essa ha poi trovato una collocazione editoriale ideale quando l’editore Mimesis stava in quel periodo iniziando una collana, “Narrazioni seriali”, che prevedeva una serie di monografie interamente dedicate a serie TV.

Le interviste poi, sono state fondamentali: parlare con chi ha ideato una serie apre una prospettiva su questioni produttive, su ciò che sta alla base della costruzione dei personaggi, ecc.. È stato anche bello perché, dal momento che avevo già in parte iniziato a lavorare al libro, con Levi e Lusuardi ho potuto mettere alla prova alcune delle mie letture e interpretazioni.

Qual è il motivo del successo internazionale di In Treatment, che ha visto circa più di sedici adattamenti nazionali?

Ha avuto un successo a livello di diffusione del format perché era semplice da adattare, economico, e quindi si inscriveva bene nelle politica di reti che volevano avere prodotti finiti a un prezzo contenuto. Per quanto riguarda invece il successo in termini di pubblico, questa è una serie piuttosto di nicchia, e credo che a volte se ne sia parlato più di quanto la si sia effettivamente vista.

Hagai Levi, alla presentazione della prima serie dell’italiano In Treatment, lo ha definito “un capolavoro, l’adattamento più importante mai fatto della mia serie.” Lei è d’accordo, e questo vale anche per le altre due stagioni?

Avendo visto la versione USA e italiana, il mio giudizio è limitato al raffronto tra questi due adattamenti. Se non un capolavoro, mi sembra che In Treatment nella versione Sky sia un prodotto molto ben riuscito, che ha da una parte la capacità di rispettare le caratteristiche del format, dall’altra quella di fare degli adattamenti spesso anche piccoli e puntuali che però l’hanno reso molto coerente con il contesto nazionale.

Quanto c’è di global nel prodotto italiano e quanto di local?

In Treatment è un prodotto che da una parte si rifà alle punte più alte a livello della serialità internazionale, dall’altra è un prodotto concepito per il mercato nazionale, a partire dalla scelta degli attori, estremamente rappresentativi del panorama cinematografico e televisivo italiano.

Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, quelli più local sono il carabiniere Dario e padre Riccardo, quest’ultimo interamente scritto dagli sceneggiatori italiani.

Dario è l’adattamento di quello che nella versione originale era un pilota dell’esercito israeliano, e in quella HBO un pilota della Marina di stanza in Iraq, entrambi colpevoli di aver ucciso in missione dei bambini come, appunto, ha fatto Dario. Nel nostro contesto si è scelto di creare questa figura di carabiniere, connotato in senso nazionale secondo due linee. Una è legata al problema delle mafie da noi molto sentito, l’altra al nostro immaginario mediatico che da La piovra in poi ha a che fare con personaggi che lottano contro la criminalità organizzata.

Padre Riccardo, mandato in analisi dal suo superiore, è espressione di quello che ancora oggi è un elemento che ci caratterizza, cioè il cattolicesimo, che mette in discussione il rapporto tra ragione e fede, tra l’analisi intesa come scienza che si basa sulla fede nella ragione e la fede come qualcosa che ha a che fare con altri valori.

Lei ha detto che in alcuni tratti In Treatment (2013 – 2017) targata Sky assomiglia a una soap. In che senso? Si può dire la stessa cosa per la versione israeliana (BeTipul, 2005 – 2008) e per quella statunitense (In Treatment)?

Assolutamente sì. Al di là della specificità dell’adattamento italiano, è la serie stessa, a partire da BeTipul, ad essere impostata come una soap. Innanzitutto per le strategie di programmazione, basata su cinque giorni la settimana, appunto, come una soap o una telenovela. Questo è successo anche per la prima stagione HBO, e così è stato fatto per tutte le tre stagioni in Italia. C’è poi, e questa è soprattutto una caratteristica di BeTipul, l’essenzialità della messa in scena: nella versione israeliana, un divano e una poltrona per l’analista e poco più, per cui risultava in primo piano il dialogo a scapito dell’azione. Altra somiglianza con le soap, sul piano narrativo l’idea di un riproporsi dei motivi di fondo che nelle soap serve allo spettatore che si è perso delle tappe perché non ha potuto seguire tutte le puntate. Il riproporsi dei motivi si sposa con i ritmi dell’analisi, ricorrenti, che ritornano sulle stesse tematiche per rileggere il tutto in nuove prospettive.

Lei afferma che lo psicoterapeuta, a sua volta in analisi, ha fatto scrivere più gli psichiatri che i mass – mediologi. Perché?

È la prima volta che l’analisi viene rappresentata in modo così realistico all’interno di una serie TV o di un film e con un tale peso in termini di spazio narrativo: In Treatment è una narrazione che si compone esclusivamente sull’analisi. La discussione su di essa da parte di esperti è avvenuta un po’ dappertutto già da quando è uscita la versione israeliana. In America ci sono state, in molte conferenze di analisti, delle sessioni dedicate ad hoc, in cui intervenivano anche sceneggiatori, produttori, spesso Hagai Levi. Ciò è avvenuto con la consapevolezza che non si trattava di un documentario sulla psicoterapia, ma di intrattenimento.

Questo è stato funzionale per gli analisti in un duplice senso: verso l’interno della comunità scientifica per l’estrema verosimiglianza che si prestava a sviluppare delle riflessioni di metodo, e ciò a partire proprio dalle imperfezioni dell’analista, che offriva lo spunto per ragionare sulla terapia, sull’utilità, sui metodi.

La serie ha però “funzionato” anche all’esterno della comunità di psicoterapeuti, e questo in Italia è stato favorito dalla stessa Sky, che ha pubblicato sul suo portale una rubrica che si intitolava “La parola all’esperto” e che ospitava i contributi degli analisti, considerati più idonei a parlare della serie rispetto a quelli che si occupavano di media. Ciò ha dato luogo a un discorso sull’analisi rivolto a chi non la conosceva dal punto di vista professionale, e ha contribuito ad orientare la sua percezione pubblica.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Angela Maiello: “Premediazione, prefigurazione di scenari possibili”

“Premediazione, prefigurazione di scenari possibili”

Uscita per la Pellegrini Editore un’antologia di Richard Grusin curata e tradotta da Angela Maiello

I media contemporanei hanno la funzione di mantenere basso il livello di ansia e di paura nella società contemporanea, rendendo meno traumatici shock come quello dell’11 settembre. È questo il significato di quella che Richard Grusin definisce premediazione, ovvero la prefigurazione di scenari possibili, in modo da “preparare” l’utente al reale. Di questo ed altro si è occupato nei suoi studi Grusin, uno dei più influenti teorici americani dei nuovi media nonché docente presso la University of Wisconsin Milwaukee, che torna al pubblico italiano con un nuovo testo. Si tratta dell’antologia Radical Mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali (Pellegrini Editore, 2017), curata e tradotta da Angela Maiello, Junior Research Fellow presso la Scuola Superiore di Studi Avanzati della Sapienza di Roma. Nella silloge vengono raccolti i più importanti saggi che Grusin ha scritto negli ultimi vent’anni.

Come mai ha deciso, dopo la sua monografia su Gomorra del 2016 (Gomorra – La serie. La famiglia, il potere, lo sguardo del male, per Edizioni Estemporanee), di passare alla traduzione e alla curatela di saggi di uno studioso dei media come Richard Grusin?

In realtà non si tratta di un cambio di rotta. Il libro su Gomorra – La serie nasce dallo stesso interesse di ricerca che ormai coltivo dal dottorato, ovvero lo studio di quelle prassi, abilitate dalle tecnologie digitali e dai social media, che hanno un notevole impatto sulla configurazione della nostra sensibilità, sulla nostra aisthesis, come singoli e come collettività. Con Gomorra prendevo in esame la viralità della rete, esemplificata dal caso dei video dei The Jackal, che parodiavano la storia sui social network, e proponevo un’analisi della serie a partire da questa prospettiva estetica e mediologica. In questo senso Grusin risulta per me un autore di grandissima importanza, perché è una delle voci più originali e autorevoli nell’ambito della teoria dei media, intesa innanzitutto come un ambito interdisciplinare dove cinema, tecnologie digitali, estetica, e quindi filosofia, si possono incontrare in modo virtuoso.

Qual è, in sintesi, il percorso intellettuale di Grusin?

Grusin è ben noto, anche ai lettori italiani, per essere l’autore, insieme a J.D. Bolter, di uno dei testi fondamentali della teoria dei media, Remediation. In quel libro viene proposto il concetto di rimediazione, per comprendere l’allora nascente cultura digitale (il libro viene pubblicato negli Stati Uniti nel 1999). Il merito di quel volume è di aver individuato una logica mediale – la “doppia logica della rimediazione”, caratterizzata dalla complementarità tra immediatezza e ipermediazione – capace di spiegare il funzionamento dei media contemporanei e il loro rapporto con i media che li hanno preceduti (in senso ampio, dalla televisione alla pittura). Nel corso dei quasi vent’anni trascorsi dalla pubblicazione di Remediation, Grusin si è concentrato sempre più su quello che lui definisce il carattere immediato della mediazione. I media contemporanei funzionano innanzitutto a livello affettivo, ovvero determinano l’intonazione emotiva, l’affettività della collettività, sempre più connessa attraverso la rete. Nella fattispecie i media operano per mantenere basso ma costante un certo livello di ansia e paura, preconfigurando scenari ed eventi futuri. È questa la premediazione (a cui Grusin ha dedicato un libro, che non è stato tradotto in italiano – Premediation: Affect and Mediality After 9/11, Palgrave 2010 – ma che nel libro è rappresentato dal saggio intitolato, appunto, Premediation). La premediazione è l’esito più visibile dell’11 settembre: dopo quell’evento traumatico i media operano per evitare che un shock analogo colpisca lo spettatore e per fare ciò preconfigurano mediaticamente scenari possibili, in modo che quando il cosiddetto reale si verificherà esso sarà già stato premediato. In questo senso allora la mediazione è radicale: la mediazione, non è, dice Grusin, qualcosa che si pone tra entità già costituite, ma è il processo attraverso cui tali entità, soggetti e oggetti, prendono forma. Non c’è un’origine e una fine, bisogna partire dal mezzo, appunto con la mediazione.

Come si è mosso nell’ambito americano questo studioso?

Grusin, che nasce come uno studioso di letteratura americana, dialoga molto con la tradizione culturale statunitense. In particolare nei saggi antologizzati si confronta con William James e Alfred North Whitehead. Inoltre è molto attento al dibattito filosofico e mediologico lui contemporaneo: ha posizione molto diverse, ad esempio, da Lev Manovich e invece si pone nella stessa linea di pensiero di un filosofo come Massumi.

La sua traduzione viene dopo quella italiana del testo scritto a due mani da Jay D. Bolter e Richard Grusin, già citato prima (Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi), uscito nel 2002 per Guerini e Associati. Perché tutto questo tempo tra i due volumi?

Penso che il motivo sia solo da ricondurre a logiche editoriali. Non le nego che trovare un editore non è stato semplicissimo e quindi non posso che lodare la casa editrice Pellegrini e il direttore della collana, il prof. Roberto De Gaetano. Gli scritti di Grusin sono importanti per chiunque oggi, nell’ambito scientifico ma non solo, voglia comprendere questo strano, ed inedito, mondo ibrido in cui viviamo.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Alberto Marinelli: “Nuova televisione, esperienza di consumo espansa”

“Nuova televisione, esperienza di consumo espansa”

Presentata al MAXXI di Roma la ricerca annuale dell’Osservatorio Social Tv sulle pratiche di visione televisiva

 

Una televisione con un tempo e un luogo di consumo espanso, senza limiti, perché facilitato da più device. Poi, rispetto al 2015, un aumento del consumo televisivo per la moltiplicazione degli schermi (accessibilità), per la migliore qualità tecnologica dei dispositivi (qualità), per il tam tam sui social media dei contenuti (ricercabilità), per la presenza di nuovi operatori che rendono l’offerta migliore (disponibilità). Infine, una forte produzione di “contenuti generati dagli utenti”, che contribuiscono a far circolare quelli creati dai programmi televisivi. Questi, oltre alle abitudini di consumo generate dall’interazione tra social e programmi televisivi, sono i risultati emersi da TV INTORNO. Tecnologie, setting, rituali e bisogni per un’esperienza di consumo espansa, una ricerca effettuata dall’Osservatorio Social TV per il 2016. L’indagine ha visto come partner tutti i principali editori televisivi che operano nel mercato italiano (Rai, Mediaset, SKY, Effe Tv – Gruppo Feltrinelli, ecc.), ed è stata diretta da Alberto Marinelli, docente di Teoria della comunicazione e dei nuovi media e Connected & Social Tv alla Sapienza di Roma, e da Romana Andò, che insegna Teoria e Analisi delle Audience, sempre nella stessa università. Alberto Marinelli parla dei punti salienti della ricerca in margine alla presentazione del report avvenuta il 16 maggio scorso al MAXXI di Roma.

Come commenta il fatto che attualmente si assiste a una fruizione maggiore della televisione?

NELL’ ULTIMO ANNO È CAMBIATO IL TEMPO CHE DEDICHI QUOTIDIANAMENTE A GUARDARE
CONTENUTI/PROGRAMMI TV SUL TELEVISORE E SU ALTRI SCHERMI ?
COME CAMBIA IL TEMPO A DISPOSIZIONE PER LA TV

 

 

 

 

 

 

 

Vi sono sostanzialmente due ipotesi. In primo luogo, la disponibilità di molti schermi e quindi di molti punti di contatto con il contenuto aumenta la possibilità per le audience interessate di raggiungerlo senza limiti di tempo, cioè in qualsiasi momento della giornata, di luogo, (da casa, in mobilità, ecc.), di device (pc, smartphone, tablet, Tv set, ecc.). Il secondo motivo è legato al fatto che la conversazione sui programmi televisivi non è generata solo dagli uffici stampa, ma soprattutto dalle conversazioni social che espandono e rilanciano.

Nel corso del convegno Nicole Morganti, Vice President Talent and Production Discovery Italia, ha citato Cannavacciuolo, che ha una dimensione e una conoscenza da parte delle persone che va oltre il fatto che lo si sia visto in un programma.

La cross e transmedialità del medium televisivo si può paragonare al concetto coniato da Francesco Casetti per il film, ovvero la sua rilocazione su vari device?

Termini come quello usato da Casetti si inseguono nel dibattito scientifico: rilocazione è il termine da lui utilizzato, ma ci sono altre terminologie, come crossmedialità, che è il termine più in uso da parte degli esperti di marketing, rimediazione (Bolter e Grusin) e transmedialità (Jenkins), espressione preferita da me e da Romana Andò. Indipendentemente dalla questione teorica sui termini, non stiamo parlando, nel nostro caso, ed ecco perché usiamo transmedia, della semplice redistribuzione di un prodotto su piattaforme differenti, cioè del fatto che lo stesso film lo posso vedere in molteplici forme. Stiamo dicendo invece che i testi televisivi, come la maggior parte dei testi contemporanei, perché anche per il cinema potrebbe applicarsi questo schema, nascono come testi espansi ed espandibili. Quando si progetta per esempio una puntata delle Iene, si progettano anche i luoghi dove alcuni suoi pezzi di contenuto possono funzionare, ad esempio postando una foto del programma su Instagram, facendo votare i pubblici su Facebook, ecc.. Poi c’è il lavoro creativo delle audience che in parte è fuori controllo rispetto all’attività dei producer: esse possono autonomamente appropriarsi dell’immagine della conduttrice delle Iene e commentare, rilanciare, postare su Twitter e altri social, avviando una serie di potenziali conversazioni e connessioni. Questo è il vero valore della social TV, nel senso che così vengo catturato e piacevolmente ributtato all’interno dell’universo narrativo che ho perso perché magari al momento della messa in onda del programma stavo da un’altra parte. In questo modo sono rimasto non soltanto fedele, ma sono stato anche gratificato dal poter accedere ad una trasmissione perché magari mediata da altri miei amici.

Non si tratta quindi di un semplice riversamento di contenuto: se rilocazione alludeva a questo con la TV transmediale siamo un pochino avanti, ma forse Casetti pensava a qualcosa di più.

In questo processo quale ruolo hanno i social media?

Ciascuno di queste piattaforme social svolge un ruolo, pubblico e funzioni, in termini di efficacia, differenti.

Twitter è più conosciuto perché più semplice da rilevare, è legato all’idea del liking, quindi funziona bene per lo sport, per i programmi di comunicazione politica, per le situazioni in cui tutti quanti commentano e si scambiano opinioni in tempo reale. Funziona molto bene per eventi come Sanremo: ci si distrae in quel momento dalla diretta si fa invece il commento un po’ creativo e cattivello, la battuta sull’abito indossato dal presentatore, ecc..

Facebook invece che è il più usato dal punto di vista dei commenti: se un 10% usa Twitter, un 90% va su questo social. È forse l’unico luogo dove tutti quelli che hanno una connessione a Internet passano almeno una volta, mentre Twitter è molto più elitario. Facebook svolge però un lavoro diverso da Twitter: le forme testuali e le altre forme specifiche che si possono usare qui consentono di seguire lo storytelling di una serie per lungo periodo e di fare commenti molto più espansi rispetto all’oggetto d’interesse. Sempre Facebook ha una componente di espressione della propria individualità che comunque rimane molto forte, nel senso che quando parlo di una serie TV sto anche parlando di me, dei miei processi identitari, ecc..

Instagram è straordinario per gestire e allevare le comunità di fan, e per essere un medium prevalentemente visuale.

Qual è invece il ruolo delle chat come Whatsapp?

Dopo Facebook l’uso più rilevante è quello delle chat. Qui succede un po’ di tutto, nel senso che le persone possono sollecitare l’attenzione su un programma, oppure creare addirittura gruppi di ascolto e di commento gestiti autonomamente. Ovviamente il punto di valore è la non trasparenza al di là del gruppo ristretto entro cui si scrive. La chat è una miniera fondamentale ma non può essere esplorata, perché i ricercatori non vi hanno accesso per motivi di privacy.

Quali contenuti ri – creano gli utenti all’interno dei social?

NB: non è stata portata al 100% la tabella perché sono state escluse le persone non interessate

Qualsiasi sia il contenuto che gli utenti creano riguarda una percentuale molto ridotta dei consumatori. Uno posta, nove mettono un like, novanta leggono. Allora, i contenuti sono creati da quell’1%, magari da quel 3, 5, 7%, a seconda delle statistiche, è una specie di gioco che non si è in grado di stimare con precisione. A seconda delle circostanze specifiche è possibile che la percentuale delle persone che posta sia più elevata, però in una situazione normale il livello di coinvolgimento che richiede la formulazione di un post, di un’attività, di una foto scattata dallo schermo, di un filmato, ecc., riguarda un numero ristretto. Tutti gli altri attivano la digital life del contenuto, offrendo ad esso una chance di vita ulteriore. È una scelta gestita direttamente dalle audience, quindi talvolta anche contrastante con gli intenti dei producer.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

In margine a due fatti di cronaca. Parla Peppino Ortoleva

“I nostri media? Generici alle presidenziali francesi

I vaccini? Per tutti una mitologia difficile da sradicare”

Un coverage generico, superficiale, dettato anche dalla scarsa conoscenza della lingua, quello dei media italiani alle recenti presidenziali francesi. Una oggettiva difficoltà, da parte dei mezzi di comunicazione, di trasmettere atteggiamenti pro – vaccino in meccanismi di pensiero che assumono una specie di pensiero mitico, quasi parareligioso, difficile da sradicare. Infine, il tentativo di Report, che seguiva la strategia retorica di sentire più voci sulla questione, sostanzialmente fallito perché, dove ci sono dei miti in ballo, le cose sono molto più complicate. Queste le opinioni di Peppino Ortoleva, ordinario di Storia e teoria dei media all’università di Torino, intervistato a proposito di due eventi della cronaca recente. Si tratta dell’elezione di Macron a presidente della repubblica francese e della vaccinazione obbligatoria per tutti i bambini che vanno alle elementari, proposta recentemente dalla ministra della Salute Lorenzin al Consiglio dei Ministri.

Come hanno reagito i media italiani all’elezione di Macron a presidente della Repubblica francese?

Considerando la maratona di Mentana che è stata, come spesso succede, la cosa più mirata, la sensazione più impressionante che ho avuto è che le presidenziali francesi sono state pochissimo approfondite dal dibattito giornalistico italiano. Ci si è concentrati su quello che faceva notizia, la mancata vittoria di Marine Le Pen, poi un pochino, poiché già superata, sulla sconfitta dei partiti classici. Inoltre sugli scenari futuri relativi a Macron si sono dette cose di una genericità sconcertante, sui motivi della sconfitta di Marine Le Pen anche.

Invece il giorno dopo sulle pagine del New York Times ho visto due mappe comparate, dove emergeva che le aree in cui la crisi stava colpendo più duro tendevano a votare per la Le Pen: non c’era la contrapposizione centro – periferia, e neanche quella tra operai e borghesi, che sono stati i criteri generalmente più utilizzati per spiegare le scelte di voto, spesso con una genericità spaventosa. Ecco, di analisi come quella citata sopra, non ho trovato traccia sui giornali italiani.

A cosa è dovuta questa approssimazione?

La mia sensazione è che i nostri giornalisti conoscono poco e male il francese, come è emerso anche nei dibattiti da Mentana. In un mondo sempre più globalizzato avere degli specialisti che sanno le lingue dovrebbe essere una condizione imprescindibile, e questo vale anche per le lingue più difficili come l’arabo o come le lingue slave, parlate da paesi che confinano con noi. Invece, nei confronti delle vicende internazionali, si rileva un’attenzione troppo mediata o dai media o dalle agenzie di stampa di lingua inglese. Ovviamente ci sono delle eccezioni, come la rivista Internazionale e quotidiani come Il Manifesto, che continuano a tenere d’occhio la politica estera.

Anche la rete risente di questo?

Tenendo conto che è la persona più colta quella che va in rete, a parte il caso di Internazionale, che è anche online, anche qui si verifica lo stesso fenomeno.

Recentemente la ministra della Salute Beatrice Lorenzin ha proposto la vaccinazione obbligatoria per i bambini delle scuole elementari. Questa, mi sembra, è una reazione alla campagna anti – vaccini che ha imperversato soprattutto sulla rete. Come valuta la diffusione di fake nems come queste?

Più che di fake news parlerei di un fenomeno leggermente diverso. Bisogna distinguere tra voce, fake news, leggende urbane, miti di tipo alimentare o di tipo per esempio sanitario.

Cosa sono le fake news?

Sono notizie false spacciate per vere, e si presentano come informazioni di tipo paragiornalistico, come per esempio “Un bambino è morto di meningite perché è stato vaccinato per il morbillo”, e in proposito ci sono dei finti organi di stampa con nomi simili a quelli veri perché uno ci clicca per sbaglio e ci va a finire. Le fake news non sono una novità: c’è addirittura un pezzo di Balzac sulle notizie false nella Parigi degli anni Trenta – Quaranta dell’Ottocento.

In cosa consistono le voci?

Sono simili alle prime, ma circolano in una forma diversa, nel senso che la persona che te le racconta non pretende che tu le creda come alle fake news, ma magari vuole che tu ti diverta a sentirle.

Cosa sono le leggende urbane?

Si tratta di favole raccontate come se fossero vere, come la storia di una signora che ha infettato il partner con l’AIDS e poi è sparita lasciando scritto sullo specchio con il rossetto “Benvenuto nel mondo dell’AIDS”.

Qual è l’ultimo fenomeno, i miti?

Si tratta di racconti a cui viene attribuito un significato molto rilevante, quasi simbolico per la vita delle persone, e che molto spesso contengono elementi come l’avvelenamento, la penetrazione nel corpo di creature mostruose che portano le infezioni, ecc..

A cosa fanno fede le persone che non credono nei vaccini?

La gente che pensa che i vaccini facciano male ha un grado di fanatismo che la persona che crede a una fake news non ha. Questi miti riguardano anche l’alimentazione: per esempio, un vegano tratterà come un Satana uno che mangia una bistecca, perché in queste credenze c’è un elemento non dico parareligioso ma, appunto, mitico. Le storie contro i vaccini si sono diffuse sotto tutte le forme, per esempio attraverso le fake news: con la rete esse hanno una potenza straordinaria, perché è più facile fabbricare notizie false, più facile metterle e poi rimetterle in circolazione. Però l’antivaccinismo non è una semplice notizia falsa, è una serie di notizie false che sostengono qualcosa di più profondo, del tipo: “Per colpa dello Stato, perché esso è malvagio, il mio bambino viene penetrato da sostanze infettive e io lo devo tutelare.” Contro questa gente non si può ragionare in quanto il meccanismo mentale di questi discorsi è di tipo paranoico.

Ma in che modo i mass media hanno contribuito a creare questo meccanismo mentale, che adesso sembra molto diffuso?

Non l’hanno creato loro, il meccanismo paranoico è sempre presente in settori della società. Infatti la persona che ti dice: “Non siamo mai stati sulla Luna”, alle foto che lo dimostrano risponde che sono un fotomontaggio della CIA. Tale atteggiamento è sempre presente in alcuni elementi della società, che sono spesso frange politiche o parapolitiche.

Perché è favorito adesso?

Una delle cose che alimenta la paranoia è la crisi. In una situazione di grave crisi economica, in cui è difficilissimo capire i meccanismi che l’hanno scatenata, la ricerca del colpevole è quasi automatica, e si crede a qualsiasi cosa. In modo simile presto fede ad un’affermazione del tipo: “Mi stanno avvelenando”, che non è direttamente in relazione con la crisi, ma con un mondo minaccioso. Così, nel momento in cui penso che lo Stato è contro di me e vedo che stanno inoculando delle “cose” nei bambini, sono contro i vaccini.

Qual è il ruolo dei media per contrastare questa tendenza, e come le è sembrato il servizio sui vaccini andato in onda su Report il 17 aprile scorso?

È molto difficile. Dire “Tutti quelli che credono a questa cosa credono a delle panzane” non è la cosa migliore, perché può suscitare atteggiamenti difensivi. Non trattare la gente come cretina e scrivere lunghi articoli per spiegare serve a poco, perché moltissimi non li leggono. La strada che ha scelto Report è stata quella di presentare la questione come un argomento serio su cui sentire più voci. La cosa non ha funzionato come strategia, ma c’era una logica di tipo retorico dietro (“Forse siamo più convincenti se sentiamo tutte le campane”). Il problema è che tale strategia può andar bene per molti argomenti, ma non per questo, perché qui ci sono i miti in ballo, cioè un livello di credenza molto più forte che in altri campi e che dura per decenni.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Gianpietro Mazzoleni: “Anche Obama è ricorso alla politica pop”

 

“Anche Obama è ricorso alla politica pop”

Dal 2009 poco è cambiato nel modo leggero di comunicare la politica. Unica eccezione: le recenti elezioni francesi.

Media che conducono il gioco, che oggi, più che mai, segue la logica dell’intrattenimento. Conoscenza dei maggiori leader politici sempre attraverso una politica pop, accattivante, da parte del comune cittadino, che magari non segue i telegiornali, ma segue gli show. Lo ha capito bene Obama, quando a Buzzfeed, sito web d’informazione, si atteggiò da attore comico, al tempo stesso spiegando la sua riforma sanitaria. Poi, una politica sul web che mira ad una “audience” di simpatizzanti, mentre quella tradizionale arriva ad un pubblico più ampio, magari di non sostenitori. Infine, alle ultime presidenziali francesi, una campagna “seria”, tesa per l’esito, senza che quasi mai ci fosse politica pop. Forse, l’unico aspetto “leggero” nella fase finale della campagna ha riguardato Brigitte, la moglie di Macron. Queste, in breve, le tesi di Gianpietro Mazzoleni, docente di Sociologia della Comunicazione e di Comunicazione Politica alla Statale di Milano.

Il suo libro Politica pop, scritto nel 2009 insieme a Anna Sfardini (casa editrice, Il Mulino), parla di un nuovo modo di presentare la politica avvenuto già dagli ultimi decenni del secolo passato. Cos’è cambiato dal 2009 ad oggi?

Sono cambiati gli “attori” ma non le dinamiche che spiegano come e perché la politica ha spesso bisogno di indossare gli abiti pop per poter essere compresa e attirare almeno l’attenzione dei cittadini.  A molti leader (non a tutti) viene piuttosto facile comunicare in modo popolare (alcuni anche in modo popolaresco), ad altri meno.  Ma sono i media che conducono il gioco.  Che ha successo se i leader si adattano alla logica dei media, che oggi più di ieri è una logica di spettacolo e intrattenimento.

Sempre nel 2009 lei diceva che il modo “leggero”, anche da gossip, di far parlare la politica di se stessa, non è sinonimo di una coscienza civica indebolita ma, casomai, fonte di una nuova risorsa civica. In che modo valuta tutto questo?

Premesso e ammesso che molta politica pop a cui assistiamo è spregevole, lo sforzo di molti attori politici di comunicare anche argomenti difficili con modalità che incuriosiscono e, perché no?, divertono quelli che vedono, ascoltano o leggono, è una cosa positiva perché si può arrivare a fasce di elettorato che altrimenti sarebbero tagliate fuori dall’informazione politica (perché non seguono i telegiornali, ma magari gli show sì).  Un buon esempio quando Obama presidente affidò a Buzzfeed una gag in cui si prendeva in giro atteggiandosi da attore comico, ma al tempo stesso spiegava perché la riforma dell’assistenza sanitaria era importante per il Paese. Quindi chi sa usare con intelligenza le risorse mediatiche dell’intrattenimento per “parlare di cose serie senza annoiare la gente”, ha senz’altro “punti in più” nella sua capacità di coinvolgere i cittadini.

Come vede la commistione tra politica sul web, diventata la modalità privilegiata di Beppe Grillo, e politica sui media tradizionali (stampa, radio, televisione)?

Era prevedibile che web e media tradizionali si trovassero, volenti o nolenti, alleati nella comunicazione politica.  Oggi è impensabile comunicare solo via mass media.  Ma è anche impensabile (a almeno è un errore grave) comunicare solo via web. Le due “audience” non si sovrappongono perfettamente, quindi i politici di oggi, aiutati da consulenti e esperti (molti di questi giovani nerd) fanno un media planning mirato: mass media (interviste, dibattiti TV, comparsate varie) per arrivare al pubblico più ampio, magari di non sostenitori, e web per mobilitare i propri simpatizzanti.  L’uso che ne fa Grillo è del tutto singolare (è a senso unico, il che è una contraddizione in termini per un mezzo interattivo) e meriterebbe un discorso a parte.

In che modo è stata fatta la campagna per le presidenziali francesi, e quali programmi TV e media privilegiati ha usato? È stata utilizzata la strategia della politica pop?

I francesi sono maestri della satira politica (Charlie Hebdo e Le Canard Enchainé, e Les Guignols de l’Info su Canal+ ne sono buoni esempi).  Ma in questa campagna c’è stato poco su cui ridere o essere divertenti.  Il rischio che Marine Le Pen potesse diventare presidente ha mobilitato tutti i media a coprire i fatti politici e la campagna elettorale in modo piuttosto “serio”.  Si pensi al processo mediatico a Fillon, che gli è costata, dicono gli esperti, la presidenza.  Ciò non toglie che la copertura informativa abbia avuto dimensioni “pop”, come del resto è inevitabile quando si tratta (specialmente nel ballottaggio) di una horse race, con tanto di tifo da entrambe le parti (si pensi al dibattito televisivo). Forse l’unico argomento pop della fase finale della campagna è stata Brigitte, la moglie di Macron. Questo penso sarà un tema con cui i mass media “andranno a nozze” durante la presidenza.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Ruggero Eugeni e Mariagrazia Fanchi: “Ottanta lettere a Francesco Casetti”

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Ottanta lettere a Francesco Casetti

È uscita da pochi giorni la miscellanea in onore del Maestro che compie settant’anni

Francesco Casetti

Un’occasione, la miscellanea per i settant’anni di Francesco Casetti, a lungo docente di Filmologia alla Cattolica di Milano, per rievocare il suo percorso di studi. Un’occasione per sentire dalla voce dei curatori del libro, Ruggero Eugeni e Mariagrazia Fanchi, il perché di questo volume. E poi, lettere, più di ottanta, e non solo di studiosi, che cominciano con Caro Francesco, Cher Francesco, Dear Francesco, per rievocare momenti trascorsi con il Maestro, anche in polemica, anche in momenti non ufficiali.

Questi i tratti salienti della conversazione a due voci avuta con Eugeni e Fanchi, rispettivamente ordinario di Semiotica dei Media e professore associato di Media Studies and Cultural History sempre alla Cattolica, su questo testo. Si tratta di La galassia Casetti. Lettere di amicizia, stima, provocazione, edito da Vita e Pensiero ed uscito in libreria pochi giorni fa.

Com’è strutturato La galassia Casetti, dedicato ai settant’anni del professore, che dal 2013 insegna a Yale?

Eugeni e Fanchi. Il libro ha adottato una formula anomala rispetto ai volumi in onore di qualcuno. Siamo partiti da un antecedente celebre di Barthes, la lettera ad Antonioni che il semiologo aveva pubblicato nei Cahiers nel maggio del 1980. Abbiamo quindi pensato di proporre alle persone che nel corso degli anni avevano avuto contatti con Casetti (ci sono anche attori, registi) di scrivergli delle lettere, che potevano essere di stima, di affetto, ma anche di provocazione, intorno ai temi da lui studiati, il film e in genere i media audiovisivi. Ci sono anche lettere che partono da chiacchierate informali, intorno ad un tavolo, su un treno, prima di un convegno, per un totale di oltre ottanta contributi.

In un contributo al libro Gianni Canova ha scritto che Casetti ha saputo infilare le mani anche “nella merda”, cioè anche essere un organizzatore di cultura, oltre che un accademico. È d’accordo con quanto da lui affermato?

Eugeni. Assolutamente sì. Francesco ha saputo sempre contemperare tre ordini di ragioni, e ritrovarle tutte in una sola persona è molto difficile. Si è infatti cimentato nella ricerca accademica, nella politica accademica e anche nella politica culturale, quella, appunto, con cui “ci si sporca”.

Qual è stato il suo percorso accademico?

Eugeni. Francesco ancora oggi è un ricercatore che esplora sempre nuovi territori. È partito da un interesse per la semiotica del cinema, poi lo ha allargato anche alla sociologia dei consumi cinematografici e televisivi. Inoltre si è occupato in chiave di storia culturale di storia del cinema, e recentemente di quella dispersione del cinema all’interno di tanti luoghi dei media contemporanei, che lui, nel suo libro La galassia Lumière, del 2015, a cui il titolo della nostra miscellanea si rifà, ha chiamato rilocazione.

Sempre Francesco ha fatto anche politica accademica nel senso più alto, cioè ha plasmato con altri colleghi la comunità di studiosi italiani di cinema, facendo dialogare le due anime della comunità, quella dei teorici, e poi quella degli storici e dei critici. In questo modo ha implementato in Italia una ricerca sul cinema che è una delle più rilevanti d’Europa e forse del mondo.

Infine, è stato anche, terzo punto, organizzatore culturale, quindi un animatore di dibattiti e di rassegne.

Fanchi. Gli anni (1970/74) in cui, come allievo di Bettetini, frequenta la scuola di specializzazione, suo futuro ingresso alla Cattolica, sono quelli dove c’è la TV dei professori. Bettetini è un regista Rai, quindi Casetti da subito intreccia la sua attività di studioso di teorie del cinema e poi della filmologia con delle domande molto operative, cioè se quello che si sta apprendendo sul funzionamento del linguaggio filmico possa essere usato per progettare dei programmi televisivi che comunichino messaggi di valore.

Io mi occupo di audience e per questo mi sono incontrata con Francesco, che alla fine degli anni ‘80 cominciò a studiare anche questo tema.

La prima opera significativa di Casetti è Teorie del cinema dal dopoguerra ad oggi, pubblicato nel 1978 da L’Espresso Strumenti e poi varie volte rimaneggiato…

Eugeni. Il testo nasce come libro per L’Espresso, e poi diventa il manuale di riferimento direi mondiale sull’analisi del film perché è il primo libro che cerca di sistematizzare la teoria del cinema a livello internazionale, in particolare dal secondo dopoguerra ad oggi. Esce poi ampliato nel 1993 per Bompiani con il titolo Teorie del cinema, 1945 – 1966, e vede traduzioni in francese e in inglese: quest’ultima edizione contiene ulteriori rimaneggiamenti rispetto alla versione italiana.

Che ruolo hanno lavori come Analisi del film e Analisi della televisione, scritti a due mani nel 1990 e nel 1997 con Federico di Chio che poi si è mosso fuori dall’Accademia per lavorare a Mediaset?

Fanchi. Analisi del film, così come Analisi della televisione, vengono chiamati manuali, ma in realtà non lo sono. Analisi del film è soprattutto uno stato dell’arte, in quanto non insegna a analizzare un testo filmico, ma mette a disposizione tutte le categorie possibili dalle quali si può indagare un aspetto o più aspetti di esso. Perché Federico di Chio? Perché quest’ultimo si laurea con Casetti ma quasi subito poi lascia l’accademia, fa il Master di Publitalia ’80 ed entra a lavorare a Mediaset alla fine degli anni Ottanta, quando questa stava aprendo il suo ufficio ricerche allora diretto da Gianni Pilo. Analisi del film è un successo editoriale strepitoso, continua a vendere, è l’unico testo che raccolga in modo sistematico tutti i modelli possibili di analisi del testo audiovisivo, partendo da quelli più semplici via via a salire fino a modelli di lettura del testo filmico più sofisticati.

Visto il grande successo di Analisi del film, sempre con di Chio, a distanza di qualche anno Francesco ha deciso di scrivere Analisi della televisione. È un altro grande successo, in quanto sono gli anni in cui il marketing televisivo si consolida in Italia soprattutto grazie al lavoro fatto da Mediaset perché a sperimentare nuove forme di analisi dei prodotti televisivi sono soprattutto, e spesso capita fuori dall’Italia, le aziende private. Oltretutto alla prima metà degli anni ‘90 c’è una proliferazione enorme di libri e strumenti, che adesso sembrano archeologia. Analisi della televisione è un altro enorme successo perché funziona esattamente come il primo: fa una disamina di tutti gli strumenti usati per analizzare i prodotti televisivi, da quelli più tradizionali come la content analysis a quelli più sofisticati come le psicografie, le etnografie, le interviste, tutti strumenti iperqualitativi.

Negli ultimi libri, come La galassia Lumière, Casetti ha sostenuto che, al di là dei dispositivi su cui è trasmesso, il cinema rimane cinema, anche frantumandosi, appunto, in una galassia…

Eugeni. Francesco è convinto che l’assemblaggio cinema sia così potente da resistere a molte rilocazioni, cioè a molte riattivazioni in situazioni assai diverse dalla sala cinematografica. Per esempio da un lato il cinema è presente nel macro, come nei megaschermi delle stazioni, dall’altra parte resiste nel micro, nei telefonini, nei tablet, ecc.. Questa è la sua idea, naturalmente provocatoria e non accettata da tutti. In proposito c’è stato un grosso dibattito in Francia negli anni scorsi: per esempio Raymond Bellour, nel suo contributo a La galassia Casetti, ha sottolineato come Francesco sbagli, nel senso che il film quando viene rilocato diventa altro, perde le sua cinematograficità.

Sempre negli ultimi libri, come La galassia Lumière, Casetti afferma il valore culturale del film in aperta polemica con McLuhan secondo il quale la valenza tecnologica del mezzo condiziona anche il messaggio…

Eugeni. Francesco tiene conto dell’evoluzione degli studi mediologici dopo McLuhan che hanno sottolineato come questo, ma soprattutto i suoi continuatori, siano incorsi in un errore noto come determinismo tecnologico (si pensa cioè che la tecnologia decida delle sorti di un medium). In realtà ciò che emerge con chiarezza dagli studi successivi è che l’infrastruttura tecnologica entra in negoziazione con altri fattori come le pratiche sociali, e quindi costituisce, secondo Casetti, degli assemblaggi, cioè delle aggregazioni di elementi eterogenei che sono sì tecnologici ma anche sociali, culturali e immaginari.

Fanchi. In realtà non c’è contrasto tra quello che pensa Casetti e quello che pensa McLuhan, il punto è cosa essi intendono per medium. McLuhan scrive molti anni fa, quindi l’idea che il medium fosse il dispositivo, cioè la tecnologia, era un’idea diffusa, adesso quella più corretta è il concetto di medium ambientale, di medium come interfaccia. Si pensa cioè che questo non sia solo tecnologia, ma anche l’insieme delle relazioni che la tecnologia sviluppa con un contesto. Si deve appunto verificare dove essa è allocata, la relazione che sviluppa con altre tecnologie vicine, come per esempio il cinema costruisce la propria identità confrontandosi con la televisione, i media digitali, la rete, ecc. e, contemporaneamente, la rete di relazioni tra quella tecnologia, l’ambiente in cui è presente e coloro che lo abitano, che sono soggetti umani o addirittura non umani. Questa idea di medium è una posizione molto vicina al dibattito interno alla videoarte e più in generale all’estetica.

Casetti si è mai interessato di cinematografie non occidentali come per esempio quella indiana?

Eugeni. Il cinema di riferimento di Francesco è quello americano classico e il cinema moderno americano dei Cassavetes, dei Coppola, eccetera e, ovviamente, la cinematografia della Nouvelle Vague: questo spiega il fatto che le altre le conosce ma gli piacciono meno.

Fanchi. Forse ha scritto qualcosa, ma non se ne è mai occupato anche perché nei dipartimenti un po’ per cortesia accademica, un po’ per economia di scala, se c’è un collega che si occupa di un certo oggetto, l’altro cerca di non fare altrettanto proprio per sviluppare più competenze.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

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Mihaela Gavrila: “Le scandalose, storia di criminali italiane”

 

“Le scandalose, storia di criminali italiane”

Presentato a Roma, al CORIS, un docufilm di Silvana Mazzocchi e Paola Pistagnesi che rievoca dagli archivi sette casi di cronaca nera al femminile

“La donna trasforma il minimo contrasto nella lotta per la vita in odio, e l’odio in delitto”. Con queste parole di Cesare Lombroso si apre il docufilm Le scandalose/Women in Crime, una produzione dell’Istituto Luce che rovescia l’idea del crimine come appannaggio solo maschile, e che ripercorre, attraverso sette storie, le vicende di sette donne criminali, che hanno agito dal 1939 al 1975. E qui, come sottolinea Mihaela Gavrila, non si parla di donne di potere della fiction transnazionale, che entrano nell’immaginario televisivo pur essendo women behaving badly, come quelle illustrate nel libro Television Antiheroines curato da Milly Buonanno. In questo caso si tratta di fatti veri, che una produzione autoriale ha saputo tirar fuori dalla memoria collettiva, ma spesso dimenticata, degli archivi. Di questo ed altro ha parlato Mihaela Gavrila, docente di Cultura e Industria della Televisione in margine a un seminario organizzato a Roma il 3 maggio dal CORIS (Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale). Nella giornata è stato proiettato Le scandalose/Women in Crime, un docufilm del 2016, già presentato a ottobre alla Festa del Cinema di Roma, e scritto a due mani da Silvana Mazzocchi e Paola Pistagnesi (regista, Gianfranco Giagni).

Quali sono i tratti portanti del film?

Questo docufilm, prodotto e distribuito dall’Istituto Luce, verrà distribuito prevalentemente nei festival, per ora senza passare per le sale. È un mediometraggio o poco meno (dura circa un’ora), e affronta la questione delle donne criminali, la cronaca nera, che si presenta al contrario di quella attuale che vede le donne vittime. Qui, anzi, la premessa è quasi una premessa di empowerment femminile: le donne si comportano come gli uomini anche dal punto di vista della criminalità. La frase iniziale da cui parte il docufilm è una frase di Lombroso, del 1927, contenuta nel suo libro La donna delinquente, che dice “La donna trasforma il minimo contrasto nella lotta per la vita in odio e l’odio in delitto”. Si suppone quindi che la donna può essere delinquente e il movente della delinquenza è l’odio, nel momento in cui non riscontra una soddisfazione adeguata.

Eppure Milly Buonanno nel suo libro da lei curato di recente, Television Antiheroines, diceva che le women behaving badly si sono affermate da poco nell’immaginario collettivo delle serie televisive…

Qui c’è un percorso diverso, perché la Buonanno parla delle donne antieroine che stimolano l’ammirazione del pubblico anche perché sono personaggi di finzione. In questo caso vi sono donne realmente criminali, che uccidono per molti motivi, quelli trattati nel libro di cui sopra sono donne con un certo potere contrattuale, che diventano boss, personaggi anche rilevanti in un mondo di uomini.

Milly Buonanno afferma inoltre che la figura dell’antieroina comincia a formarsi da poco, mentre la criminale esiste da sempre, secondo Lombroso, e questo sembrerebbe andare contro la mainstream che sostiene che la donna criminale si è affermata solo negli ultimi anni…

Il documentario si basa molto sulla ricostruzione dell’Italia che esce dalla guerra, dal fascismo, dove la cronaca nera era censurata, perché l’idea che si voleva restituire dell’Italia era quella di un’Italia sicura, e ancor meno passava la cronaca nera della criminalità al femminile. L’uscita da questo periodo sembra che scateni anche una serie di casi di criminalità femminile che viene confusa anche con un percorso emancipatorio della donna.

Come hanno proceduto nella costruzione del docufilm le autrici?

Silvana Mazzocchi, giornalista e scrittrice, e Paola Pistagnesi, soprattutto critica cinematografica e sceneggiatrice di fiction, oltre che giornalista, si concentrano su sette casi, che vanno dal 1939 al 1975. Sono eventi che un po’ si narrano da soli, un po’ vengono ricostruiti con passaggi della stampa dell’epoca, con immagini dell’Istituto Luce, in parte anche con riprese fatte al Museo del Crimine di Roma, al Palazzo della Cassazione a Roma, e con sequenze girate al manicomio criminale di Aversa, chiuso da pochi mesi. Non mancano brani di registi come Luigi Comencini.

Quindi attraversano la contestazione e ne rimangono indenni?

Attraverso queste storie di donne criminali si racconta anche la storia dell’Italia, però la criminalità femminile, la tendenza, oppure la tentazione ad uccidere, si manifestano anche in questa evoluzione sociale e culturale: cambia certamente il tipo di crimine, come cambiano le condanne. Si parte da Leonarda Cianciulli, la saponificatrice, che si presenta più come maga, come quella che doveva risolvere un problema personale come la perdita di quattordici figli (altri ne sono sopravvissuti), e che, per esorcizzare questo suo destino decide di uccidere altre donne, delle sue amiche, come vittime sacrificali.

Ci sono poi delitti come quello delle sorelle Lidia e Franca Cataldi che ammazzano la propria amica e suo figlio per una volpe argentata, omicidi passionali come quello di Rina Fort, che uccide la moglie e i tre figli dell’amante, e della contessa Pia Bellentani, che parte con l’intenzione di suicidarsi dichiarando all’amante la sua delusione d’amore, ma poi lo uccide e vuole ammazzarsi senza riuscirci perché la pistola si inceppa. Tra questi casi c’è anche il delitto d’onore come quello di Pupetta Maresca che uccide per vendicare la morte del marito. Gli anni Settanta vengono scanditi dal caso di Doretta Graneris che porta quasi ai nostri giorni e ai cosiddetti crimini per il nulla, perché lei uccide i familiari solo per il desiderio di risolvere questioni economiche, anche se poi è quella che prova più rimorsi.

Una volontà di filtro della realtà, quindi, attraverso storie criminali a metà tra il testo giornalistico e la fiction, perché casi come questi si prestano a una versione romanzata…

Il crimine era un pretesto per parlare anche di altro, di emancipazione, di evoluzione culturale, anche della condizione dell’infanzia, e tutto ciò è stato ricostruito man mano che si facevano le ricerche negli archivi del Luce, in cui sono stati scoperti materiali straordinari, in particolare dal punto di vista della qualità dell’immagine. Inoltre, i casi raccontati, se presi separatamente e documentati attraverso gli articoli di giornale o le immagini dell’epoca, restano delle schegge di storia della cronaca nera. Invece, messi in quest’insieme, diventano una narrazione attraverso un punto di vista suggerito dalle scelte autoriali. Un prodotto come Le scandalose è un’opera aperta, con moltissime chiavi interpretative: interessante è anche riflettere sul ruolo degli archivi nella fissazione della memoria collettiva, dato che in essi moltissime cose restano sepolte. La responsabilità degli autori, dei media e di quelli che diventano i costruttori della memoria nazionale e collettiva è quella di essere consapevoli del fatto che le loro narrazioni possono oscurare o fare emergere qualcosa: i media possono sequestrare o dissequestrare momenti della storia di un paese.

MARIA GRAZIA FALÀ

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Massimo Scaglioni: “Occorre un appeal internazionale per la fiction italiana”

 

“Occorre un appeal internazionale per la fiction italiana”

“Gomorra? Il miglior caso di prodotto scripted degli ultimi anni. Netflix? Attore ancora troppo globale e poco italiano.”

 

Esigenza di un appeal internazionale per le produzioni italiane di fiction, non solo SKY, come valore economico e culturale. Necessità di uscire da prodotti “nazionali”, o meglio, “strapaesani”, che caratterizzano le serie TV delle reti generaliste e che abbassano il livello generale del mezzo. Una futura missione del servizio pubblico ancora tutta da scrivere, che va ridisegnata al di là del settore della fiction. Infine, Netflix come attore globale che mira a produrre una parte dei suoi contenuti nei territori in cui è presente, ma che non è ancora determinante, come Rai, Mediaset e, per ultima, SKY, nella produzione di fiction nostrana. Last, but not least, serie TV come In treatment dove alla qualità del girato si aggiunge anche l’attualità del tema trattato.

Sono queste, in sintesi, le tesi sostenute da Massimo Scaglioni, docente di Storia dei media alla Cattolica di Milano, in uno state of the art delle produzioni italiane di serie TV.

SKY ha riscosso molti successi internazionali producendo Gomorra, 1992, The Young Pope (regista, il Premio Oscar Paolo Sorrentino). Come valuta tutto questo?

Si tratta di un buon segnale per l’Italia. Nell’ambito dell’intrattenimento importiamo moltissimi format. In quello della fiction, fino a poco tempo fa, pensavamo esclusivamente alla produzione “domestica”, destinata al mercato interno. Ma la fiction può rappresentare un valore – economico e insieme culturale – per l’Italia. E’ un bene il fatto che si pensino progetti più ampi, anche attraverso delle co – produzioni (come molte di quelle che cita, l’ultima, The Young Pope, con Canal+ e HBO). In realtà si tratta anche di un “cambio di modello”: la fiction prodotta per la pay TV deve avere un appeal più internazionale, per necessità. Noto che, per influenza della produzione pay, anche le reti generaliste si sono mosse. Il caso de I Medici è un altro buon esempio, e qui il progetto è sviluppato dalla RAI.

Come mai le reti generaliste Rai e Mediaset, tranne rare eccezioni come Montalbano, non riescono a raggiungere un pubblico internazionale?

Perché fino ad ora non hanno avuto alcun interesse a farlo. Il mercato delle reti generaliste è quello nazionale. Il problema è che, limitandosi a prodotti nazionali – o meglio, talvolta, “locali” o “strapaesani” – si abbassa il livello generale del mezzo. Mentre se si inizia a guardare agli standard internazionali si migliora senza dubbio. Una serie come Gomorra – che è strutturata su standard internazionali – e infatti ha avuto una buona distribuzione all’estero – costituisce forse il miglior caso di prodotto scripted degli ultimi anni. Anche il servizio pubblico potrebbe iniziare a ragionare di più su progetti di co – produzione, magari guardando a altri public service broadcasters come partner.

Come lei sosteneva in un libro del 2016 (Il servizio pubblico televisivo. Morte o rinascita della RAI?), la RAI vedrebbe messo in discussione il suo ruolo di TV pubblica. Questo può contribuire alla crisi della sua produzione di fiction?

Direi che la crisi del servizio pubblico va al di là della semplice produzione di un genere come la fiction. E’ una crisi di identità e di missione. La missione del servizio pubblico per il prossimo futuro è tutta da scrivere. Ho provato, in quel libro che cita, a buttare giù qualche abbozzo di idea per il servizio pubblico di domani.

Perché Michele Placido, presentando Suburra alla stampa, ha magnificato la libertà creativa concessagli da Netflix, produttrice, insieme a Rai Cinema, della serie?

Perché le novità sono sempre molto attrattive. Il fatto che ci siano nuovi soggetti che commissionano produzioni originali, come ha fatto Netflix per Suburra, è un dato positivo. Ma non bisogna esagerare. Netflix non ha una sua sede in Italia, ha finora prodotto una sola serie nel Paese, mentre broadcaster come Rai, in primis, Mediaset e da ultimo Sky realizzano decine di ore di scripted made in Italy. Insomma, evviva Netflix, ma cerchiamo di conservare lucidità sulle differenze e i pesi. Netflix è un attore globale che mira a produrre una parte dei suoi contenuti nei territori in cui è presente. Ma per ora il catalogo di Netflix è fatto molto da prodotti internazionali. Speriamo in un futuro maggiore coinvolgimento in Italia, magari con una crescita delle sottoscrizioni, che per ora sono ancora poche qui da noi.

La terza e ultima serie di In treatment, ultima nata in casa SKY, è anche oggetto di conferenze accademiche. Il 20 marzo scorso infatti, presso la facoltà di Psicologia della Sapienza di Roma, Sergio Castellitto, protagonista e psicoterapeuta nella serie, ha incontrato gli studenti: tra gli ospiti, anche Luca Mazzucchelli, vicepresidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, che ha discusso sul ruolo della divulgazione verso il grande pubblico del lavoro dello psicoterapeuta. Realtà e finzione si incontrano?

In treatment è un prodotto molto bello, ed è giusto che sia oggetto di discussione. E’ molto bello il format su cui la serie si basa, che è nato in Israele e ha avuto diversi adattamenti nazionali (dagli USA all’Italia). In generale, in televisione oggi non mancano certo prodotti estremamente complessi e intelligenti. La TV non è più “deficiente”, come diceva Franca Ciampi. La TV sa essere più ricca e interessante di altri media: il segreto è saper cercare e selezionare.

MARIA GRAZIA FALÀ

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Ibridazione di saperi e nuove professionalità – Ruggero Eugeni

 

Ibridazione di saperi e nuove professionalità

Un Libro Bianco a cura di Ruggero Eugeni spiega le competenze per i comunicatori del presente

 

Prof. Ruggero Eugeni

Ibridazione delle proprie competenze, giornalismo come attività che fornisce contenuti di qualità su più piattaforme e acquisizione di nuove professionalità come quella del social media manager. Sono questi i requisiti (e i consigli) per chi vuole affrontare le nuove occupazioni della comunicazione (desueta, quella del giornalista classico e del pubblicitario). Ce ne ha parlato Ruggero Eugeni, professore ordinario di Semiotica dei media alla Cattolica di Milano, a margine della presentazione, avvenuta ieri, sempre in Cattolica, di un libro da lui curato insieme a Nicoletta Vittadini che uscirà ad aprile.

Qual è, in sintesi, il contenuto del suo Le professioni della comunicazione 2017. Il Libro Bianco. Una guida per studenti, professori e formatori, edito da Franco Angeli?

Il testo è anche rivolto agli alunni delle superiori che vogliono formarsi per lavorare nella comunicazione. La giornata di ieri in cui l’abbiamo presentato era invece dedicata a studenti delle lauree triennali e magistrali.

Io dirigo l’ALMED (Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo) dell’Università Cattolica, e da alcuni anni con dei collaboratori faccio delle indagini sul mercato del lavoro della comunicazione per cercare di capire come mutano queste professioni. In questo modo, possiamo cambiare anche i programmi didattici dei nostri master, che sono di primo livello, per avere dei profili di uscita sempre aggiornati.

Quanto al nostro libro, quest’anno abbiamo deciso, avendo fatto delle ricerche particolarmente complesse, di fare un piccolo sforzo in più e di costruire una vera e propria mappa delle nuove professioni della comunicazione, ma non del futuro, bensì del presente. Questo perché ci siamo accorti che noi possiamo fare tanti lavori di esplorazione su come funziona il mercato delle professioni della comunicazione. Tuttavia, se non lo sanno gli studenti, questo è inutile, perché essi sono potenziali clienti in quanto a loro offriamo i nostri master. Essi ancora hanno idee vecchie, stantie sul mondo della comunicazione, vogliono fare i giornalisti, i pubblicitari, tutte professioni che stanno scomparendo. Quindi ci interessava dare uno strumento di orientamento aggiornato, che cioè facesse capire ai nostri potenziali studenti o a chi si appresta a entrare in questo mondo, gli effettivi lavori per cui oggi si trova occupazione. Da qui è nata l’idea del Libro Bianco.

Attualmente trovare lavoro come giornalista è molto difficile…

Il lavoro del giornalista è passato su altri fronti, per esempio c’è il settore del branded content, cioè dei contenuti brandizzati, del social media manager, ecc., tutte professioni nuove perché il mondo della comunicazione è forse uno dei mondi che sta cambiando più rapidamente di altri.

Cosa significa branded content?

Sono quei contenuti prodotti da aziende che vogliono presentare i loro prodotti in modo legato ai contenuti di qualità. Per es. la BTicino ha prodotto una serie per il web molto raffinata, molto premiata: così, un’azienda che fa materiale elettrico ha prodotto una serie video di qualità cinematografica, senza fare sponsorizzazione diretta dei suoi prodotti.

In cosa consiste la figura del social media manager?

Il social media manager è colui che gestisce i social media per un’impresa, un’istituzione, ecc.. Questo lavoro sta sostituendo le media relation, nel senso che l’immagine di un’azienda passa sempre meno attraverso la comunicazione istituzionale con la stampa e sempre più attraverso la comunicazione diretta con i clienti finali.

Come si profilano le cosiddette nuove professioni come quelle collegate ai social media? Alcuni docenti universitari sostengono per esempio che la comunicazione politica passa sì, sui social media, ma arriva al grande pubblico solo tramite quelli vecchi come TV, radio e giornali. Non tutto, quindi, passerebbe solo attraverso la rete…

I media sono una realtà molto frammentata. È vero che una parte della comunicazione passa attraverso stampa e TV, ma ne passa una parte sempre meno importante anche nel caso della comunicazione politica. Se andiamo a vedere come i politici comunicano notiamo che stampa, radio e TV fanno la loro parte, soprattutto per raggiungere certi target, però è sempre più importante comunicare anche attraverso i social media (Twitter, Facebook, ecc.). Tutta la comunicazione, insomma, si sta riorganizzando. La TV, così come la radio e la stampa, non vengono meno, però si aggiungono nuovi media, che creano nuovi tipi di professionalità. Queste sono legate sia alla gestione di profili, di pagine, ecc., sia anche alla ottimizzazione dei siti per i motori di ricerca e infine anche alla capacità di leggere le cosiddette analytics, cioè i dati che ci dicono chi va a vedere un certo sito, una certa pagina, ecc.. Sono tutte competenze che vanno affinate e costruite in tutti i campi, compreso quello dell’entertainment perché ormai sempre di più uno spettacolo viene già pensato per essere declinato anche sui social media.

Allora il giornalista classico, quello della carta stampata per intenderci, come si dovrebbe riprogettare?

Il giornalista in senso tradizionale esisterà sempre meno. Esisterà il giornalista multimediale, cioè in grado di declinare la notizia su tutte le possibili piattaforme, e la sua sorte è legata alla capacità di diventare un fornitore di contenuti di alta qualità. Rispetto alla massa di contenuti che circolano sul web e che sono più o meno improvvisati e soprattutto poco controllati in termini di fonti, il giornalismo resiste, in questa maniera multimediale e intermediale, ibridata, come il fornitore di contenuti accertati, magari scomodi. Ecco che allora il giornalismo d’inchiesta, il giornalismo documentato, non solo può esistere all’interno della rete, ma diventa una merce interessante all’interno di questa.

Cos’è emerso, oltre alla presentazione del libro e agli interventi degli ospiti, nella giornata di ieri?

La giornata per presentare il libro è stata una giornata di orientamento rivolta agli studenti, e i consigli forniti sono stati abbastanza simili in tutte le aree, e cioè che oggi, per lavorare in questi settori, si deve avere una solida formazione di base, una grande passione e la conoscenza delle cose di cui ci si occupa. Infine, last but not least, è importante sempre di più imparare a lavorare in gruppo e ibridare le proprie competenze: anche gli umanisti devono saper leggere bilanci,  costruire dei budget, avere conoscenze informatiche.

MARIA GRAZIA FALÀ

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“La violenza è sempre gendered” – intervista a Elisa Giomi

 

Elisa Giomi, docente di Sociologia e di processi culturali e comunicativi all’Unitre di Roma, anticipa i temi del suo prossimo libro

“La violenza è sempre gendered

 

La violenza di genere come filo rosso che collega i suoi studi, compreso l’ultimo libro, in cui si sostiene che la violenza è gendered, nel senso che è sempre agita da un sesso, maschile o femminile. Ma, quando a fare violenza sono le donne, la rappresentazione è effettuata sempre in chiave erotica, come rapporto tra due adulti consenzienti. Invece, la violenza maschile, anche quando clownesca come nei cartoon, agisce sempre e comunque. Poi, la rappresentazione della violenza su stampa, fiction e TG, che sta cambiando, ma ancora in modo schizofrenico. Inoltre, concorrenti sessualmente trasgressivi rappresentati, nei talent show, come tali, spesso secondo pure logiche di marketing. Infine, l’excusatio, come espediente per giustificare la violenza femminile perché il soggetto è stato vittima di stupri, di violenze, ecc., che vale quasi per tutti i testi mediali. Sono questi i tratti salienti di quanto emerge parlando con Elisa Giomi, docente di Sociologia e di processi culturali e comunicativi all’Università di Roma Tre.

Qual è il filo rosso che collega i suoi studi?

Ho avuto sempre uno sguardo attento alle problematiche di genere. Accanto a questo mi sono occupata della contaminazione tra i linguaggi del factual e del fictional nell’ambito mediale, cioè i programmi che si riferiscono all’informazione e alla produzione documentaristica che si ibridano, nei loro linguaggi, con i programmi di fiction basati sull’invenzione. Mi occupo anche della rappresentazione degli attori, dei processi, dei valori della sfera pubblica all’interno dei testi mediali, con particolare riferimento a quelli televisivi. Poi ho questa linea d’indagine sui modelli di genere proposti dalla cultura mediale e, all’interno di questa area, da quasi dieci anni mi focalizzo in modo particolare sulla rappresentazione mediale della violenza di genere.

Lei ha effettuato vari monitoraggi sulla rappresentazione della violenza di genere nella stampa e nella televisione. Ha trovato, nel corso del tempo, dei cambiamenti?

Sì, e sono molto recenti, dal 2013 in poi. Il cambiamento più macroscopico si è verificato con l’inserimento, nel discorso mediale, del termine femminicidio. Quando ho iniziato a occuparmi di questo tema era una parola tabù: nel 2013 l’Accademia della Crusca lo ha riconosciuto come termine a tutti gli effetti e parallelamente il 13 agosto 2013 è stato promulgato il decreto legge noto come “legge anti – femminicidio”. Il termine da desueto è penetrato nel discorso mediale e si è iniziato per la prima volta a rappresentare i moventi dei femminicidi o della violenza grave nei confronti delle donne come questione di un’identità maschile incapace di accettare il rifiuto. Questo è il dato positivo che ho riscontrato nelle cronache giornalistiche e anche nelle rappresentazioni della fiction degli ultimissimi anni. Tuttavia, accanto a queste, ne sussiste una assolutamente fuorviante che continua a usare il frame del delitto passionale e della tendenza mai sopita a colpevolizzare direttamente o indirettamente la vittima, con costruzioni discorsive ormai incancrenite del tipo: “il raptus, la rabbia, uccidere al culmine di un litigio, durante un litigio”. Queste sono forme di distribuzione della responsabilità in cui anche la donna è parte in causa della sua aggressione, perché si litiga sempre in due.

La rappresentazione “fuorviante” della violenza sulle donne è più accentuata sulle reti Rai o Mediaset?

Vi sono state fiction recenti che prendono posizione contro la tendenza a colpevolizzare la vittima, come con le protagoniste di Non uccidere e di L’allieva (entrambe prodotte dalla Rai), che vedono la violenza sulle donne più come prodotto sociale e culturale che come frutto di semplice gelosia. Nei TG ci sono invece ancora delle sacche di resistenza. Non saprei tuttavia fornire una valutazione sulle performance comparative di Rai e Mediaset, anche se, forse, nelle serie TV Rai registro di più la tendenza a stigmatizzare la violenza sulle donne.

Qual è il ruolo della rappresentazione del mondo GLBTQ nei talent show italiani?

Il mio studio, effettuato con Marta Perrotta (The Voice of Queer Italy. The Politics of the Representation of GLBTQ Characters in Italian Talent Shows), contenuto in un’antologia inglese (K. Aveyard et al. (eds), New Patterns in Global Television Formats, Intellect, 2016) verte sul ruolo che un’identità di genere o un orientamento sessuale non normativo hanno nella figura dei concorrenti dei talent show. Questo tratto non normativo addirittura diviene (e questo è il caso più comune) un elemento di marketing della costruzione del personaggio. Tale elemento diventa perciò parte integrante del concorrente inteso come prodotto, e ciò vale per i due talent da noi esaminati, The Voice of Italy e X Factor.

Nel suo contributo a Television Antiheroines, antologia a cura di Milly Buonanno, lei descrive la storia di Nancy Botwin, l’antieroina di Weeds (“Spinelli”, Showtime, 2005 – 2012). Qui l’espediente retorico dell’excusatio, non sembra funzionare. È così anche per altri casi della cultura popolare?

Un’eroina o un’antieroina che vesta i panni di una donna violenta, vuoi perché combattente di mondi fantasy, vuoi perché addirittura criminale, vuoi perché poliziotta, è in forte contraddizione con tutti i valori di cui il femminile sarebbe il nume tutelare. L’excusatio si riferisce a quelle strategie testuali che mitigano la portata destabilizzante della violenza femminile, presentandola come frutto di traumi, violenze, ecc. Nel caso di Nancy Baldwin, spacciatrice di marijuana, essa non funziona, anche se vi sono altre strategie di normalizzazione del personaggio: tuttavia, nella maggior parte dei testi mediali da me analizzati, quando il femminile è violento l’excusatio c’è quasi sempre come forma di compensazione.

Il suo prossimo libro, scritto insieme a Sveva Magaraggia (Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, edito da Il Mulino), dice che ogni forma di violenza ha una natura gendered. Ci potrebbe dire qualcosa in merito?

Il libro nasce dalla constatazione che la violenza dei e nei media è stata studiata moltissimo, ma raramente in relazione al gender. Invece, ogni forma di violenza è gendered, cioè è agita da un soggetto sessuato al maschile, al femminile o in altro modo, ed è diretta contro soggetti sessuati. Persino nei prodotti per l’infanzia come i cartoon (Titti e Silvestro, Tom e Jerry, ecc.), e in una forma di violenza burlesca, gli attori sono animali maschi, con un’implicita legittimazione all’uso della violenza per il maschile. Per quanto concerne altri generi mediali come la pubblicità, essa fa purtroppo abbondantemente ricorso all’immaginario spesso esplicitamente violento, in cui i corpi femminili sono vittime di una violenza erotizzata e spettacolarizzata, addirittura glamour, trasformata in oggetto di contemplazione. La dinamica inversa si trova sempre e solo quando c’è un gioco erotico di natura consensuale. Tutto questo per dire che le rappresentazioni di violenza contengono sempre prescrizione e proscrizioni: prescrivono cioè un certo dover essere che per il maschile include anche l’esercizio di violenza, e proscrivono invece l’uso della violenza per il femminile solo sotto specifiche limitazioni.

MARIA GRAZIA FALÀ