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Giomi e Magaraggia: “Le violente? Non vero crimine, non vere donne”

“Le violente? Non vero crimine, non vere donne”

In “Relazioni brutali” edito da Il Mulino un’analisi della violenza agita da maschi e femmine

Elisa Giomi

Estetizzazione della violenza sulle donne, glamourizzazione del corpo ucciso in pubblicità e nelle serie crime, musica che solo in pochi casi riflette la violenza di genere senza retorica.

Campagne pubblicitarie efficaci come Ring the Bell che invita anche i bystander, gli uomini che assistono alla violenza contro le donne, a intervenire. Inoltre, pubblicità istituzionali che dovrebbero trattare un argomento così delicato con l’ironia, per renderlo efficace.

Poi, donna criminale come femme fatale, o come disturbata (“non vero crimine”) oppure come portatrice di una sessualità non normata, “brutta”, cattiva madre, insomma, “non vera donna”. Insomma, una steroetipizzazione della figura femminile che vede solo alcuni generi, come il fantasy, il poliziesco, e in particolare il nordic noir portatori di qualche innovazione nel campo della rappresentazione della violenza agita da donne.

Questo, in sintesi, quanto emerso da una conversazione con Elisa Giomi, docente di Sociologia e dei processi culturali e comunicativi all’Unitre di Roma e con Sveva Magaraggia, che insegna Metodi di ricerca qualitativa nell’Università di Milano – Bicocca, a proposito del loro recente Relazioni Brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, edito da Il Mulino.

Violenza agita dagli uomini, violenza agita dalle donne: qual è la loro incidenza nei media?

Sveva Magaraggia

Magaraggia. I due fenomeni hanno proporzioni completamente diverse. Ogni tre donne una subisce violenza, ogni tre giorni una

donna viene uccisa, nei media ne troviamo un’eco minima e falsata rispetto alla realtà: sono sovrarappresentati gli stranieri, i migranti, la violenza agita nelle strade, quando il profilo dell’uomo violento “tipico” è bianco, italiano, e che conosce molto bene la vittima. La violenza che agiscono le donne contro gli uomini ha dei numeri bassissimi nella realtà, ma è sovrarappresentata nelle news.

Nelle serie TV le donne possono essere violente solo per poche motivazioni, come la vendetta per uno stupro, secondo il modello rape – revenge, oppure per ragioni familiari. In caso contrario, non sono più donne, vanno a rompere il confine di genere tra maschile e femminile.

Giomi. Nei media la violenza agita dagli uomini è più presente, anche se spesso si tratta di rappresentazioni che arrivano addirittura a estetizzarla, connotate in senso erotico, come nella pubblicità che usa corpi femminili sovente sottoposti a un atto sessuale non consensuale, trasformando la situazione in spettacolo. Si rimuovono infatti i segni del dolore, della violazione, e questi corpi femminili rimangono dotati del loro appeal anche durante l’uccisione o dopo la morte stessa. È il medesimo trattamento che troviamo nelle immagini delle serie crime, in cui abbiamo corpi morti femminili spesso connotati in senso erotico. In questo senso CSI ha inaugurato un filone stabile, con quella che è stata definita carnografia, cioè un tipo di sguardo necrofilo proprio sul corpo sottoposto ad autopsia.

In alcuni media, come nella musica o nella pubblicità, ancora c’è molto da fare per rappresentare la violenza maschile contro le donne secondo un frame tematico, cioè socio – culturale. Quanti passi in avanti ci sono stati?

Magaraggia. In musica l’eccezione che cito molto volentieri è quella di un giovanissimo cantante, GionnyScandal, che ha parlato della violenza sulle donne in modo innovativo in una canzone del 2014, Vestita di lividi.  Nel testo parla al ragazzo violento dicendogli: “Ma che cosa hai fatto”?, alla ragazza vittima delle violenza del suo ex fidanzato dice: “Non farti intenerire, vai dalla polizia.” Infine, lui stesso si posiziona come maschio e dice: “Da maschio mi vergogno che ci siano altri maschi che fanno queste cose, e che invece di lasciare la fidanzata o accettare di essere lasciati arrivano a picchiarla.” Il cantante quindi mette in luce anche le debolezze di una maschilità che arriva a usare la violenza.

Cosa ci potrebbe dire sulla pubblicità?

Magaraggia. Non ho lavorato tanto sulle pubblicità innovative quanto su quelle in cui la violenza viene rappresentata in modo esplicito. Anche qui la differenza tra la violenza maschile e femminile è radicale: le donne possono essere violente solo all’interno di un frame che ci ricorda una scena sadomaso dove la violenza viene in qualche modo richiesta dalla controparte maschile e concordata da entrambi. Al contrario, come nella fiction, la violenza degli uomini contro le donne viene rappresentata in modo molto “pulito”, con tantissimi corpi di donne nude, tantissime salme avvenenti che quasi sembrano sorridere, mentre la violenza lascia dei segni molto evidenti.

Esiste qualche pubblicità “positiva” che non sia istituzionale?

Magaraggia. Ce n’è una che si chiama Ring the Bell, “Suona il campanello”, una campagna internazionale lanciata da Bell Bajo nel 2013/2014 e che ha diverse versioni (indiana, canadese, inglese, ecc.). Essa intende fermare la violenza maschile contro le donne e si rivolge direttamente ai bystander, cioè agli uomini che sentono o vedono agire una violenza e suggerisce loro dei modi per intervenire.

Quale è l’atteggiamento che dovrebbero tenere campagne istituzionali contro la violenza sulle donne, specialmente quella Ipv (intimate partner violence)?

Magaraggia. Sappiamo poco sulla ricezione delle campagne istituzionali. La ricerca principale in proposito è stata scritta da Cristina Oddone, che ha fatto un dottorato su tale argomento e ha iniziato a intervistare e a fare dei focus group con degli uomini maltrattanti. Stando ai risultati emersi da questo e da altri studi che lavorano con interviste su persone che sono coinvolte in situazioni di violenza, è che gli uomini maltrattanti non si percepiscono come dei mostri, e le donne che sono in una situazione di violenza non si percepiscono come delle vittime. La stragrande maggioranza delle campagne istituzionali sulla violenza gioca ancora su questo messaggio. Dice alla donna: “Tu che sei una vittima trova la forza, reagisci,” e all’uomo: “Tu sei un mostro, l’unica cosa che le donne possono fare è lasciarti.” Questo è il messaggio, ma rappresentarlo in questo modo non funziona. Le campagne più innovative attuali sono quelle che provano a utilizzare un frame ironico per farsi notare: ciò può sembrare molto strano, però esistono delle campagne inglesi, australiane, fatte da associazioni che proteggono le donne maltrattate e che usano questo dispositivo che “funziona”. Infatti oramai siamo assuefatti alla campagna che mostra la donna con l’occhio nero con su scritto: “Ho sbattuto contro la porta”, tanto che non la vediamo neanche più. L’altro elemento che sarebbe da introdurre è un po’ alla Ring the Bell, cioè dire agli uomini che non sono violenti come devono e possono intervenire.

Come valuta la docufiction del 2017 Le scandalose. Women in crime, (regista, Gianfranco Giagni), che ripercorre la storia di sette donne devianti che hanno ucciso per vari motivi? È una rappresentazione, per così dire, “tradizionale”?

Giomi. Non ne sono rimasta colpita positivamente. L’ho trovata molto didascalica e soprattutto non esente da tutta la serie di luoghi comuni per cui le criminali sono belle e affascinanti sul modello della femme fatale oppure appunto seduttive. Vi ho visto una concentrazione sulla dimensione sensazionalistica.

Le donne violente contro i partner nei generi factual sono generalmente con una sessualità non normata, spesso “brutte”, cattive madri: il loro è “non vero crimine” (mad) in quanto disturbate, e quindi “non vere donne” (bad). Quante eccezioni ci sono a questa rappresentazione?

Giomi. Queste strategie di attenuazione ricorrono nel discorso scientifico o parascientifico, in quello legale e in quello mediale: infatti i verdetti contro donne violente emessi in tribunale in molti casi hanno ricalcato la copertura della stampa. Sto pensando ad alcuni casi molto famosi negli Usa che poi hanno inaugurato un filone di studi sulla rappresentazione delle donne violente.

Potrebbe citare qualche nome?

Giomi. L’inglese Rose West, che con il marito Fred negli anni ’70 e ’80 stuprò, e seviziò sessualmente bambini e adolescenti e l’americana Aileen Wuornos, prostituta che uccise sette clienti tra gli anni ’80 e ’90, protagonista del film Monster. Queste donne sono delle eccezioni rispetto al loro genere in quanto le si rappresenta in forme che ne sottolineano una sessualità deviante perché o non eteronormata, omosessuale, come appunto la Wuornos, o estremamente attiva e con elementi sadici come Rose West. Un’altra strategia di rappresentazione è quella di descriverle come fortemente maschilizzate per sottolineare che non sono vere donne. Tra queste strategie di negazione della femminilità troviamo anche il riferimento alla maternità che invece rappresenta la quintessenza dell’identità femminile. Rappresentare l’agire violento di una donna come orientato a salvare i figli è una strategia di giustificazione, del portato destabilizzante di questa condotta.

Quando la maternità si presenta come aberrata e aberrante?

Giomi. La donna violenta o che deroga dalle norme di genere viene stigmatizzata ancora più spesso in quanto madre, mentre la paternità sempre di più viene valorizzata come tratto distintivo dell’identità maschile. Anche in questo caso vi sono due pesi e due misure: nella rappresentazione della criminale donna molto spesso si insiste anche su questa maternità aberrata e aberrante: si pensi a Nancy Botwin, la spacciatrice di marijuana della serie Weeds (Showtime 2005 – 2012), le cui azioni criminose producono conseguenze devastanti sui figli. Invece, a parità di profilo criminale, gli uomini sono giustificati in queste attività in nome del loro ruolo di capofamiglia: mi riferisco a Walter White, protagonista di Breaking Bad (AMC, 2008 – 2013), esempio lampante di questo (infatti diventa uno spacciatore in quanto ha un cancro e non vuole lasciare in cattive acque la famiglia).

Quante eccezioni ci sono a questa rappresentazione?

Giomi. Si trovano nel fantasy, nel cosiddetto young adult dystopia, prodotti di fantascienza che narrano di mondi apocalittici in cui abbiamo delle eroine giovani come protagoniste. Per esempio Hunger Games, e non tanto il film, più stereotipato, quanto il romanzo, in buona parte rifugge da questi cliché anche se poi, inevitabilmente, applica delle strategie di normalizzazione perché tratteggia quest’eroina combattente, attiva e non stereotipata e poi la descrive nel ruolo di madre e di sposa, con una sterzata verso un universo più tradizionale. Le novità, però, si trovano soprattutto nel cosiddetto nordic noir.

Le donne che agiscono violenza sui media mainstream sono anche poliziotte, eroine fantasy: quanto sta cambiando nella loro rappresentazione?

Giomi. I mutamenti si registrano soprattutto quando si parla delle poliziotte protagoniste delle serie Tv (The Killing, The Bridge) e in genere delle produzioni mediali che prendono il nome di nordic noir, che identifica un tipo di thriller tipico dei paesi scandinavi. Queste donne sono molto fuori dagli schemi quanto a rappresentazione del corpo e dell’estetica in generale, sono forti e indipendenti, anche se alcune di loro ne pagano il prezzo con difficoltà emotive, algidità, incapacità di stare in relazione con gli altri, ecc.. Si tratta però spesso di tormenti molto femminili, di relazioni sbagliate con il figlio, di incapacità di avere rapporti sentimentali gratificanti.

Al di là del nordic noir, il panorama sta cambiando nel senso che, mentre prima rappresentavano una quota davvero molto ridotta, oggi le donne poliziotto sono un fenomeno stabile: in particolare, dall’inizio del 2000 ad oggi abbiamo visto in tutte le serie televisive occidentali una escalation di protagoniste femminili alla guida di squadre di polizia. In Italia esiste una tradizione produttiva che porta in scena figure femminili molto forti in ruolo di comando all’interno del territorio fortemente maschile delle istituzioni di polizia, e la Taodue di Pietro Valsecchi ha rappresentato una occasione di stabilizzazione di questo modello. Sto pensando a Giulia Corsi (Claudia Pandolfi) di Distretto di polizia (Canale 5, 2000 – 2012), ma anche a Euridice Axen (Lucia Brancato) che è l’attrice protagonista di R.I.S. Roma (Canale 5, 2010 – 2012), e poi, in tempi ancora più recenti, a Claudia Mares (Simona Cavallari) di Squadra Antimafia (Canale 5, 2009 – 2016). Loro rappresentano questo modello femminile piuttosto legnoso, dalla fisicità muscolare scattante, uno stile mascolino, un temperamento introverso. Tuttavia, mentre c’è una forma di protagonismo importante, ugualmente si mettono in atto delle strategie di contenimento, perché si rappresentano queste donne come sofferte, tormentate, che rinunciano ai tratti tipicamente femminili. Da Sherlock Holmes in poi è sempre stato popolare il prototipo del detective nerd, brillante, socialmente disagiato e totalmente immerso nel proprio lavoro. Tuttavia, nell’essere detective secondo questi codici maschili, le donne hanno difficoltà nelle relazioni con i figli o con il compagno, cosa che attiene alla femminilità tradizionale. Oppure al contrario, per rappresentarle, si ricade negli stereotipi della super – maternità: nella trasposizione italiana (I misteri di Laura) della serie spagnola Los misterios de Laura (Ida y Vuelta, 2009 – 2014) dove la detective ha due gemelli, l’ispettrice Laura Moretti di figli ne ha tre.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

 

Giacomo Manzoli: “Film di stato autoreferenziali? Qualche volta sì”

“Film di stato autoreferenziali? Qualche volta sì”

Presentato alla “Sapienza” di Roma un libro a cura di Marco Cucco e Giacomo Manzoli sul finanziamento pubblico del cinema italiano

Giacomo Manzoli

Un’occasione per discutere sulla nuova legge sul cinema, proposta dal ministro del MiBACT Franceschini, che introduce numerose innovazioni nel settore. Una riforma che intende ovviare al circolo vizioso creatosi, nonostante le buone intenzioni, in seguito al cosiddetto “decreto Urbani” del 2004. Di questo si è parlato il 17 ottobre scorso alla Sapienza di Roma in occasione della presentazione del libro, curato da Marco Cucco e Giacomo Manzoli, Il cinema di Stato. Finanziamento pubblico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo, uscito recentemente per Il Mulino.

Il volume, curato da Marco Cucco, docente di Economia del cinema nell’Università della Svizzera italiana, e da Giacomo Manzoli, che insegna Storia del cinema italiano nell’Università di Bologna, è uno state of the art del finanziamento pubblico al cinema italiano dal 2000 al 2015. Tra i saggi, uno di Manzoli e Andrea Minuz, una content analysis, ovvero un’analisi statistica di un campione di cento film italiani prodotti dal 2005 al 2015/2016. Giacomo Manzoli illustra i tratti salienti di questo contributo anticipando per sommi capi anche la riforma Franceschini.

Cos’è emerso nel corso della presentazione del libro?

Essa ha avuto luogo il 17 ottobre scorso alla Sapienza di Roma con alcuni operatori del settore tra cui Nicola Borrelli, Direttore Generale per il Cinema del MiBACT (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo), con il quale abbiamo dialogato assieme anche a uno degli autori del volume, Andrea Minuz, a Federica D’Urso, responsabile del Centro Studi dello stesso MiBACT, e ad altri. Borrelli ha ricordato gli obiettivi strutturali della nuova riforma, quella dell’attuale ministro del MiBACT, Dario Franceschini, ora in attesa della stesura dei decreti attuativi.

Quali sono i tratti più significativi di tale legge del 2016?

Essi consistono nel tentativo di migliorare la situazione del cinema italiano ragionando sull’intero comparto audiovisivo, considerando il cinema parte di questo sistema. Alcuni aspetti sono molto interessanti: uno, quello della formazione, cioè dell’ormai mitico ingresso del cinema nella scuola. Poi, per la prima volta, la legge individua un budget calcolato sulla percentuale rispetto ai biglietti venduti, e questo è importante perché la creazione di un pubblico è uno degli elementi fondamentali per fare cinema. L’altro aspetto riguarda la regolamentazione del ruolo delle TV con una normativa più stringente che nelle ultime settimane è stata anche oggetto di dure polemiche. Si prevede cioè un aumento della quota di investimento nel cinema italiano che i broadcaster nazionali, cioè le televisioni, in primis la Rai, ma anche le reti private compresi Sky, Netflix, ecc., devono realizzare. Sempre i broadcaster nazionali devono garantire una programmazione continuativa dei film italiani da loro prodotti secondo percentuali del loro palinsesto. Questa è un’innovazione: anche se esistevano già le quote, tutti tendevano a evaderle, programmando tali film in tarda serata, quando la possibilità di intercettare il pubblico è limitata. Adesso invece sono previste anche delle quote in prima e seconda serata, e ciò è stato oggetto di polemiche perché soprattutto le TV private lo vedono come un’interferenza sulla loro programmazione. Un po’ è vero, ma questo si inscrive in una situazione in cui esse godono anche di finanziamenti pubblici o di agevolazioni molto forti, e quindi è un do ut des di cui non ci si può lamentare. Rispetto alla Rai mi sembra che sia una cosa positiva, in quanto essa è il primo produttore di film italiani che però tendenzialmente non mandava in onda sulle sue reti: adesso questa nuova situazione la chiama alle sue responsabilità.

In cosa si discosta il modello produttivo cinematografico statunitense da quello italiano?

Quello USA è completamente basato sul rischio d’impresa, cioè sui capitali privati dei produttori stessi, mentre quello italiano, con il finanziamento statale, lo ha quasi cancellato.

Quali sono le linee portanti del finanziamento pubblico al cinema italiano a partire dal “decreto Urbani” del 2004?

Il cosiddetto “decreto Urbani”, varato dall’allora ministro dei Beni Culturali Giuliano Urbani del secondo governo Berlusconi, era stato un’innovazione importante. Esso infatti introduceva una novità: in Italia il finanziamento pubblico esiste dagli anni venti del ‘900. Quello a fondo perduto, cioè senza il rientro dei capitali investiti, è stato introdotto da Mussolini durante il ventennio e poi è stato reiterato anche nel dopoguerra, basato sul cosiddetto “interesse culturale”, cioè sul finanziamento di film che hanno un valore culturale particolare e che rischierebbero di essere esclusi dal mercato. Col “decreto Urbani” si stabiliva che questo elemento dovesse essere contemperato con lo sviluppo industriale del settore, in vista di un sostegno a tale settore nel suo complesso. Esso cercava di attenuare uno dei paradossi dell’”interesse culturale”, cioè che un film, pur culturalmente validissimo, se non è visto da nessuno in realtà non lo è. Per un po’ il decreto Urbani ha anche funzionato, favorendo l’emergere di figure autoriali importanti come Sorrentino, Garrone e altri poi, piano piano, è andato annacquandosi, e negli ultimi anni, stando anche ai risultati del 2017, le cose davvero non stavano funzionando, per cui si è deciso di intervenire con una nuova legge, quella Franceschini appunto.

Quali sono i principali risultati della sua, per così dire, content analysis di cento film italiani prodotti grazie al finanziamento pubblico?

Questo studio, condotto con Andrea Minuz, docente di Storia del cinema alla Sapienza di Roma, consiste in un’analisi comparata stilistica e contenutistica su circa cento film finanziati dallo Stato prodotti dal 2005, dopo l’entrata in vigore della legge Urbani, al 2015, dieci per anno, circa un terzo del corpus complessivo. Abbiamo scelto questo campione fra i film più rappresentativi perché hanno incassato di più, hanno ottenuto premi ai festival, o per altri riconoscimenti. Li abbiamo analizzati in base a una serie di parametri relativi allo stile e al contenuto tracciando anche una sorta di anagrafica, cioè individuando i loro personaggi, da dove vengono, a che classe sociale appartengono, che lavori fanno, ecc.. Ne è risultata una forte uniformità, sia sul piano contenutistico che stilistico, mentre una delle ragioni dell’interesse culturale dovrebbe essere la promozione della differenza, al contrario del mercato che va verso un pubblico di massa e quindi tende a privilegiare temi di largo consumo. Per esempio di questi cento film quasi il 40% è ambientato a Roma o in zone limitrofe, mentre l’Italia è un paese di 60 milioni di abitanti, con situazioni varie e diversificate. Inoltre i film interpretati da extracomunitari sono molto pochi, e in genere i personaggi non di origine italiana o non comunque occidentale sono pochissimi, e normalmente i ruoli attribuiti a chi proviene da altre culture sono ruoli stereotipati. L’età dei personaggi è abbastanza uniforme, dai trent’anni in su, la loro professione lo è lo stesso, e alcune come quella dell’artista, dell’insegnante o dell’intellettuale predominano. Anche sotto il profilo stilistico prevale un certo tipo di ritmo, di formalismo abbastanza lento, prezioso dal punto di vista visuale, ma tutto sommato anche lì non attento alla sperimentazione.

Dall’analisi quantitativa di questi cento film emerge un destinatario modello, un produttore modello e un autore modello?

Questo è un finanziamento che ha incoraggiato un cinema medio d’autore con figure autoriali abbastanza riconoscibili anche sotto il profilo stilistico e che si rivolge a un tipo di pubblico dai trent’anni in su, che è italiano da generazioni, che ha una scolarizzazione molto marcata per un 26%, media o medio – alta per un 65%, bassa solo per un 9%. Il destinatario ideale di tali film è quello che una volta si chiamava il ceto medio riflessivo, mentre, per quanto riguarda i produttori, si è andati verso il gusto medio delle commissioni ministeriali o dei responsabili di Rai Cinema preposti alla selezione.

Per ciò che concerne il profilo autoriale, permane una forte disparità di genere, dal momento che, su cento registi, solo tredici sono donne.

Un pubblico non di massa…

No: invece, per esempio, il grande successo di Checco Zalone, che non a caso interpreta film realizzati senza finanziamenti pubblici, deriva anche dalla sua capacità di coinvolgere un pubblico composito, sia istruito che di massa.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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Jason Mittell: “Golden age o quality television? Meglio complex TV”

“Golden age o quality television? Meglio complex TV”

Dall’accademia anglosassone per minimum fax una serie di testi sull’audiovisivo, tra cui quello di Jason Mittell

Luca Barra

Una collana, SuperTele, di minimum fax, aperta agli studi di accademici anglosassoni dedicati alla televisione e ai media audiovisivi. Un autore, Jason Mittell, che ha cercato di andare oltre rispetto ai concetti di golden age e di quality television per coniare la definizione di complex TV. Inoltre, l’applicazione alle serie televisive, da parte di questo studioso, di concetti come poetica storica ed estetica funzionale. Di questo e di altro parla Luca Barra, ricercatore di Storia della radio e della televisione presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, che insieme a Fabio Guarnaccia dirige la collana.

La traduzione di Complex TV, di Jason Mittell, docente di Film and Media Culture al Middlebury College, nel New England, inaugura SuperTele, collana di minimum fax. Il testo, del 2015, è curato da lei e da Fabio Guarnaccia, ed è incentrato sulla serialità tv americana. In cosa si discosta dagli altri volumi che avete pubblicato nella stessa serie?

SuperTele è una collana di minimum fax che dirigo con Fabio Guarnaccia, e che nel 2017 si compone di quattro volumi, mentre altri quattro usciranno l’anno prossimo. Attualmente comprende il testo di Mittell e altri due già pubblicati, Post Network di Amanda D. Lotz e Cultura on demand di Chuck Tryon, mentre è previsto un quarto volume, L’era dei format, dedicato all’intrattenimento e firmato da Jean K. Chalaby, studioso francofono che insegna a Londra. L’idea alla base delle nostre scelte è stata quella di selezionare alcuni titoli che ritenevamo interessanti anche per il dibattito italiano, sia accademico che giornalistico e culturale, e per gli appassionati di televisione. Questi libri sono traduzioni di importanti lavori scientifici o più divulgativi pubblicati all’estero, spesso nel contesto americano e inglese, e sono specificamente dedicati alla TV e ai media audiovisivi, un settore non molto frequentato dall’editoria italiana.

Complex TV si incentra su alcune parole chiave come poetica storica, concetto che Mittell ha ripreso da David Bordwell, ed estetica funzionale, mutuato da Neil Harris. Ce ne può spiegare l’applicazione e l’originalità nel loro uso per le serie televisive?

Mittell, nel suo Complex TV, fa un’ampia sistematizzazione di un sapere che si è sviluppato attorno alle serie televisive nel corso di anni e di decenni. Da questo punto di vista, il testo funziona molto bene anche come manuale per capire le serie TV contemporanee. Da qui poi la riflessione di Mittell parte per diventare originale. Tra i concetti che l’autore recupera dalla riflessione accademica precedente, spesso di ambito letterario e cinematografico, ci sono quelli di poetica storica e di estetica funzionale. L’idea di poetica storica è una delle leve con cui Mittell inserisce le serie TV e la loro analisi in un sistema più ampio, che affronti non solo i testi in sé ma il loro sviluppo temporale, a volte molto lungo, seriale appunto, i contesti della produzione e della distribuzione, e i modi in cui il pubblico affronta, decodifica, si affeziona, diventa fan di una serie. L’idea di estetica funzionale va in questa direzione: si può fare un ragionamento sull’estetica delle serie televisive, sui loro aspetti formali, stilistici, artistici, ma non bisogna dimenticare che sono sempre legate a funzioni e obiettivi specifici richiesti dai contesti di produzione televisiva. L’idea di applicare uno sguardo sistemico alle serie TV non è solo di Mittell, è il risultato di un processo lungo che ha attraversato i television studies. Si è arrivati a una sorta di maturità negli studi sulle serie televisive, che fanno capire bene come queste siano un sistema dove tutto si tiene.

Nel suo libro Mittell scrive che l’estetica funzionale consiste nell’“apprezzare il risultato di un meccanismo e al contempo meravigliarsi per il modo in cui funziona”, cioè pone l’accento sul come avviene qualcosa. Non è quello che capita, come affermano i filologi classici, nella tragedia greca, quando gli spettatori andavano a vederla per sapere come veniva narrata la storia, dal momento che sapevano già come andava a finire?

Sono due livelli di lettura probabilmente presenti in tutte le forme artistiche. Da un lato si ha una fruizione più legata al contenuto, alla narrazione, e dall’altro uno sguardo più attento allo stile, al modo in cui un’opera ci racconta quello che racconta. Si tratta di una lente, di una chiave rispetto a cui potremmo analizzare la letteratura, il teatro, la poesia, il cinema. Quello che ci dice Mittell, ed è legato alla sua idea di una televisione complessa, è il fatto che nella serialità contemporanea spesso questa lettura di secondo grado diventa spesso l’aspetto più importante. Nel momento in cui si gioca con la narrazione, con i piani temporali, con l’evoluzione dei personaggi, con le modalità attraverso cui lo spettatore raccoglie i pezzetti di questa narrazione seriale e li mette assieme, la serialità diventa arte del meccanismo, qualcosa di fronte a cui essere ammirati. Tradizionalmente la tv tradizionalmente è stata considerata, credo a torto, un mezzo banale, leggero, forse perché si rivolge in modo costitutivo a un pubblico di massa. Quello che fanno le serie complesse degli ultimi 20 anni è mettere in primo piano invece la laboriosità dei meccanismi con cui le narrazioni seriali riescono a coinvolgerci.

Mittell critica le due definizioni di golden age della serie TV e di quality television. Secondo lei ha ragione?

Sì. Sono due definizioni che hanno avuto, e hanno tuttora, un ruolo importante per riconoscere l’importanza della serialità televisiva a livello di discorso pubblico, collettivo. Anche le pagine culturali dei giornali si sono interessate sempre di più a questa serialità grazie alle idee di TV di qualità e di età dell’oro della produzione seriale americana recente. Queste definizioni però presentano anche dei limiti che Jason Mittell cerca di superare coniando l’idea di una televisione complessa. Il concetto di golden age ha il problema di non tenere conto fino in fondo dell’evoluzione storica della serialità televisiva, dei fattori contestuali che cambiano nel tempo: è un’etichetta che isola momenti particolarmente felici, ma che si dimentica del fatto che a essi si è arrivati anche grazie a un insieme di elementi che affondano nel periodo precedente o che proseguono in quello successivo. Allo stesso modo, l’idea di quality television sembra quasi implicare che ci sia una televisione di qualità e una che invece la qualità non la vede neanche con il binocolo, cosa molto presente nel discorso comune, ma che è meno accettabile dal punto di vista accademico. Molto spesso la qualità è un’etichetta attribuita per giustificare i propri gusti o che le reti usano per promuovere meglio i loro contenuti. Mittell si premura di dirci che la TV complessa non vuol necessariamente dire migliore. Si tratta di spostare il piano dal giudizio di valore a uno sguardo invece attento alle modalità narrative, produttive, alle forme di fruizione e di ricezione. Ci possono essere serie TV valide ma non complesse, penso a The Big Bang Theory o NCIS, mentre alcune serie complesse di Netflix o di HBO non funzionano bene.

Dopo tanto tempo Mittell introduce il giudizio di valore nel valutare un prodotto seriale. Come giudica tutto questo? Siamo ritornati, mutatis mutandis, a Croce?

Domanda impegnativa. Non credo che Mittell introduca di nuovo un giudizio di valore, perché questo nella valutazione del prodotto seriale non se ne è mai andato. Anzi, semmai, proprio dichiarando quello che gli piace di più o di meno, Mittell prova a fare uno scarto, andando oltre i criteri della cinefilia o della telefilia, evitando di considerare il bello e il brutto come categorie attraverso cui analizzare la serialità televisiva. Mittell dice che Mad Men non gli è piaciuta, e io dissento, ma lo fa anche perché, nel capitolo dedicato proprio alla valutazione, intende distinguere tra il discorso critico e quello scientifico-accademico, e cerca di trovare nella cassetta degli attrezzi di analisi della TV complessa anche alcuni strumenti che consentano di andare oltre, di articolare un discorso più oggettivo sulle serie.

La parte più debole di Complex TV, secondo lei, è quella sul melodramma, che per Mittell prevale in molti generi della TV complessa, indipendentemente dalla sua presenza nelle soap. Quanto affermato è applicabile a un contesto italiano?

Faccio un rapido accenno a questo aspetto nella mia postfazione proprio perché credo che il ragionamento di Mittell, che distingue in modo netto tra soap opera ed elemento di “melodramma seriale”, è molto radicato nel sistema televisivo Usa, ma non si trasferisce facilmente ad altri contesti, come quello italiano. Negli Usa la separazione tra la daytime soap, articolata quotidianamente nel del palinsesto pomeridiano, e la “componente emotiva legata al melodramma seriale” presente nelle serie complesse di prima serata è netta: e quest’ultima consente alle narrazioni complesse di articolarsi lungo tanti episodi e tanti anni, di dare loro un sapore differente che, al di là dei rispettivi generi, accomuna titoli diversissimi come Lost, The Good Wife, The Wire. Nel contesto italiano questa distinzione non è così netta e radicale, soprattutto nelle serie di importazione: abbiamo abitualmente delle soap opera trasmesse in prime time, come Il segreto, spagnola, su Canale 5, e magari con più successo rispetto a quello che le serie complesse riscuotono all’interno dei nostri palinsesti. Dal nostro punto di vista, la distinzione tra soap e melodramma seriale, come ingredienti che ibridano la serialità sia drama sia comedy, è molto più sfumata.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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Luca Barra

 

Daniele Barbieri: “Fumetti? Arriva la semiotica!”

“Fumetti? Arriva la semiotica!”

Uscito per la Carocci un testo che intende sistematizzare un campo di studi

Foto: Rafael Arbex – Estadão

“Un manuale è qualcosa che fa il punto su un campo che già esiste, mentre questo è un libro che vuole crearlo.” Con queste parole dette dall’autore si potrebbe definire l’essenza di Semiotica del fumetto, testo uscito recentemente per la Carocci e scritto da Daniele Barbieri, docente di Storia del fumetto e di Fenomenologia dell’immagine presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Un libro che descrive le differenze tra i vari atti di comunicazione narrativi come il romanzo, gli audiovisivi e il fumetto, e che pone questi aspetti come propedeutici alla terza parte dell’opera, quella forse più innovativa, cioè l’estetica della fruizione come percorso emotivo che il lettore ha da un testo.

Qual è stato l’iter di studi che l’ha portato da I linguaggi del fumetto, del 1991, da poco tradotto in portoghese, al recente Semiotica del fumetto?

Non vi sono trasformazioni radicali, c’è quello che può succedere in ventisei anni, nel senso che è cresciuta la mia competenza in campo semiotico e in quello del fumetto. I linguaggi del fumetto era senz’altro un libro semiotico però non specificamente tale, e non a caso la parola semiotica non compariva nel titolo. Semiotica del fumetto è invece un libro programmatico, con maggiori consapevolezze di carattere teorico, oltre anche a una maggiore competenza sui fumetti, che tra l’altro sono cambiati. All’epoca per esempio non esisteva ancora il giornalismo grafico, di cui invece qui si parla. Il giornalismo grafico consiste nel fare giornalismo, reportage, a fumetti. È una tradizione importante, nata negli anni Novanta, a partire da un giornalista statunitense, Joe Sacco, che ha scritto opere bellissime sulla Palestina, sulla Bosnia.

Vuole dire pertanto che Semiotica del fumetto è un manuale?

Non lo direi tale: un manuale è qualcosa che fa il punto su un campo che già esiste, mentre questo è un libro che vuole crearlo. La semiotica del fumetto non è mai stata sistematizzata, per lo meno in Italia, ci sono solo alcuni lavori un po’ diversi dai miei in Francia. Esistono tanti articoli miei e di altri, però nessun lavoro di carattere sistematico.

Cosa intende illustrare, in sintesi, questo suo libro?

Esso cerca di descrivere il linguaggio del fumetto, cioè parlare delle sue caratteristiche comunicative, caratteristiche che lo avvicinano e lo distinguono da altri atti di comunicazione narrativi come il romanzo, il film, il teatro. Tutto questo è propedeutico alla terza parte del lavoro, dove si cerca di capire come si costruisce nel lettore l’emozione della lettura. Si vuole vedere cioè come una storia riesce a creare nel suo lettore dei sistemi di aspettative, dei sistemi ritmici che sono quelli che gestiscono il percorso emotivo che il lettore ha, nella direzione di un’estetica della fruizione.

Quali sono le principali differenze tra romanzo e audiovisivi?

Quello che cambia tra romanzo, cinema, poesia, musica da un lato e fumetto dall’altro sono i modi specifici di costruire gli effetti. Tra le varie forme comunicative narrative c’è una somiglianza con il cinema e una comune differenza rispetto al romanzo, da un punto di vista che in semiotica si chiama enunciazionale. Un romanzo cioè deve avere un enunciante, una voce narrante. L’autore in esso rimane nascosto un passo più indietro, mentre il narratore, in un romanzo, non può non esserci, perché la parola è sempre pronunciata da qualcuno. Esso, invece, non è indispensabile al raccontare per immagini. Per esempio nel cinema qualche volta la voce narrante non c’è e il più delle volte non esiste affatto. Lo stesso vale nel fumetto, dove la voce narrante può esserci, ma non è necessaria, perché le immagini si presentano con una loro specifica autoevidenza, non hanno bisogno che vi sia qualcuno che le enunci. Questo fa delle differenze non piccole, perché nel racconto e nel romanzo si manifesta una soggettività che è quella del narratore, che può essere anche diversa da quella dell’autore, soggettività del narratore che nel cinema e nel fumetto può mancare.

Questo permette delle libertà diverse nei vari generi…

Certamente. Per esempio, nell’audiovisivo e nel fumetto è permessa una maggiore sottigliezza nell’attribuire il punto di vista a figure interne al racconto, cioè il gioco sulla soggettiva, mentre è molto difficile farlo nel romanzo.

Così, qualcosa che nel cinema e fumetto appare molto naturale, nel romanzo richiede procedure abbastanza artificiose. Questo vale anche al contrario: ci sono cose che nella struttura del romanzo sono molto semplici da fare e sono molto difficili da attuare nei due altri generi.

È sempre una questione di rapporti con l’enunciante, cioè la figura del narratore. Cinema e fumetto non possono gestire il sistema complesso dei tempi verbali come il linguaggio articolato, il discorso del flashback o del flashforward nel cinema e nella narrazione per immagini è invece molto più complesso, un po’ legnoso rispetto alla disinvoltura con cui si può fare nel romanzo, dove il sistema di tempi verbali crea una temporalità di relazioni.

Quali sono le differenze tra fumetto e audiovisivi?

L’audiovisivo è un universo in cui domina la riproduzione fotografica, nel fumetto domina quella disegnata. Un’altra differenza è da un lato la presenza del movimento, dall’altro la possibilità di evocarlo solo attraverso espedienti grafici. Inoltre il fumetto ha una continuità temporale come il cinema, mentre, diversamente, in esso ogni vignetta conta un breve lasso di tempo e lo spazio bianco tra una vignetta e l’altra ne scandisce l’andamento con un ritmo che nel cinema non c’è. Io posso fare come Hitchcock un intero film, come Nodo alla gola, con un unico piano – sequenza, ma ciò è impossibile con il fumetto, che è scandito in vignette.

Un altro aspetto che dipende sempre dalla potenziale assenza del narratore è il fatto che nel cinema e nel fumetto si racconta sempre al presente. Invece, le cose narrate nel romanzo sono sempre cose accadute, il tempo normale con cui si racconta è il passato.

Accade questo anche per prodotti televisivi come soap operas e telenovelas…

Certi tipi di serialità televisiva come soap operas o telenovelas sono molto adatte a una narrazione in cui non c’è un narratore, perché accadono sempre al presente, tutti i giorni succede qualcosa. Se io le inserisco in un racconto al passato le sto raccontando dal punto di vista di uno che sa già come è andata a finire, quindi non si possono costruire i medesimi effetti. Non dico che con la scrittura non si possa fare una cosa tipo soap operas, ci sono i romanzi epistolari con caratteristiche simili, però, mentre nel romanzo sono espedienti che richiedono costrutti un po’ artificiosi, anche se poi magari funzionano benissimo, nella storia per immagini sono assolutamente naturali. Poi, forse, il fatto che abbiano avuto ancora più successo nell’audiovisivo e in particolare nella televisione, piuttosto che nel fumetto, è che questa permette anche la scansione quotidiana, e che una soap ricompare tutti i giorni, alla stessa ora, e che si evolve un po’ come si evolvono le nostre stesse vite.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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Daniele Barbieri

 

Donatella Della Ratta: “Illuminare (tanwir) le masse, presunzione delle élite siriane”

“Illuminare (tanwir) le masse, presunzione delle élite siriane”

Uno state of the art della fiction siriana prima e dopo la guerra civile

Una fiction, quella siriana, che ha visto negli anni Novanta i suoi anni d’oro. Un’illusione e una presunzione, quella delle élite politiche e culturali siriane, di “illuminare” le masse prima di dare loro la libertà politica. Una produzione di musalsalat (letteralmente, soap operas), con intenti pedagogici per far superare alla società la sua arretratezza. Infine, una doppia velocità dopo La Primavera Siriana del 2011. Da un lato, ancora le musalsalat tradizionali girate da persone rimaste per lo più nel paese e comunque vicine al regime, dall’altro, un contenuto generato dal basso di web series, con registi giovani, che parlano di quotidianità ai tempi della guerra civile, ma anche di amore e di politica. Sono questi gli argomenti trattati da Donatella Della Ratta, esperta di fiction siriana, nonché docente di Media Studies all’Università Americana di Roma.

Qual era il panorama della fiction araba prima delle sue Primavere?

La fiction araba, in arabo musalsalat, è molto legata al mese di Ramadan, in quanto viene trasmessa quasi solo in quel periodo, o comunque prodotta ad hoc per questo (c’è quasi sempre una puntata per ogni giorno di Ramadan). Storicamente il maggior produttore di questa fiction è stato l’Egitto, un paese che già negli anni Sessanta produceva tantissime musalsalat e che faceva tesoro di un’industria culturale molto pregiata in tutta la regione araba, per cui gli egiziani sono stati i primi a fare il successo di tale genere nei palinsesti arabi. Subito dopo è venuta la Siria, che ha puntato soprattutto sulla qualità, in quanto paese più piccolo dell’Egitto e con una produzione industriale di cinema quantitativamente non paragonabile. I siriani, soprattutto dagli anni Novanta, si sono focalizzati su un genere diciamo neorealista, per cui trattavano soprattutto problemi legati alla realtà, come questioni di genere, abusi di potere, corruzione.

Anche se la fiction siriana ha cominciato a fare i suoi primi passi subito dopo quella egiziana, i suoi anni d’oro cominciano successivamente. Dagli anni Novanta fino al Duemila c’è un boom anche perché si registra un boom delle TV satellitari, con l’apertura di molti canali, quasi tutti spesati dal Golfo, perciò con abbastanza soldi per poter commissionare e comprare fiction. La produzione siriana viene fatta anche con il Golfo come acquirente, e dura fino ad oggi, nonostante i problemi di sicurezza che ci sono in Siria attualmente.

Nel suo saggio del 2013 La fiction siriana. Mercato e politica nell’era degli Asad, lei sosteneva che fino al 2011, epoca in cui comincia l’intifada, Bashar al – Asad, insieme all’élite di produttori, registi e attori di musalsalat, si presentava alle masse come l’unica guida che le poteva “illuminare” (tanwir) dall’arretratezza. Potrebbe spiegare questa sua affermazione?

Esiste un’affinità elettiva tra gli operatori dell’industria culturale siriana, specialmente di musalsalat, e la politica superficialmente o apparentemente riformista della casa di Asad, soprattutto da quando Bashar al – Asad è salito al potere nel 2000 succedendo al padre. È venuto al potere con una serie di istanze riformiste a livello economico e anche politico. Questa classe di produttori di cultura gli ha creduto, tant’è vero che nel 2001 si è verificata la cosiddetta Primavera di Damasco, e cioè una serie di istanze riformiste fatte avanti dalla società civile ma soprattutto da questa classe di intellettuali che chiedevano al presidente di riformare il paese. Tale movimento guidato dalle élite è andato male, però la promessa di riforme si è spostata dal settore politico ai media. C’è stata l’idea che la società siriana non era ancora pronta per essere riformata politicamente perché arretrata socialmente, con problemi come l’estremismo religioso, il trattamento della donna, ecc.. I siriani andavano pertanto educati in tal senso, anche attraverso le musalsalat, prima di passare a dare aperture politiche. Questa era la credenza largamente diffusa tra le élite siriane e anche fra il circolo politico di Bashar al – Asad, tant’è vero che, quando nel 2011 è cominciata la primavera siriana, nessuno ha capito e tutti hanno detto: “La società non è pronta, non è possibile che questa sia un’istanza naturale della società siriana, sarà sicuramente un complotto straniero”. Quest’ideologia tanwir (in arabo, “illuminare”) è una credenza profondamente elitista, cioè affida a queste élite politiche e culturali la capacità di guidare la massa verso le riforme senza guardare cosa veramente c’è nella società.

Tutto questo si sposa con il fatto che la casata di Asad sia una minoranza, una élite che funge da guida?

Certamente sì. Essa appartiene a una minoranza religiosa, quella alawita, sciita, che da sempre nella sua retorica di governo ha usato il tema delle minoranze come ricatto dicendo “Se rimuovete la casata Asad anche le altre minoranze, come i cristiani, i drusi, ecc., saranno cancellate in un paese che è fondamentalmente a maggioranza sunnita”. Questo è uno degli aspetti che per alcuni studiosi è l’eccezione siriana: una minoranza esigua come quella degli alawiti e della casata di Asad governa. Analogamente per la produzione culturale, delle minoranze illuminate devono decidere per la maggioranza, e ciò è una cosa molto antidemocratica in quanto la democrazia è la volontà della maggioranza.

Com’è rapidamente degenerata la crisi dopo il 2011, soprattutto nella produzione delle musalsalat?

Esisteva una istanza genuina dentro la società civile che è stata brutalmente repressa dal regime e che ha anche avuto interventi di potenze straniere dall’una e dall’altra parte. Quello che ho visto nel 2011 sono stati dei moti di piazza di persone molto giovani, con le mani alzate, i fiori in mano, le bottiglie d’acqua, insomma un movimento pacifista anche un po’ ingenuo, nel senso che non sapeva bene che avrebbe dovuto confrontarsi con un potere così assoluto e repressivo.

Per quanto riguarda i media, la produzione di musalsalat è sopravvissuta, si è spostata un po’ in paesi limitrofi come il Libano, ancora però fatta da siriani, ma anche dentro la Siria ci sono tuttora operatori che producono fiction. Naturalmente quelli rimasti sono i più vicini al regime, quindi fanno musalsalat neorealiste, perché le fiction siriane sono sempre state molto legate all’attualità, però riportando il punto di vista governativo sugli avvenimenti.

Com’è invece la produzione indipendente su internet?

Qui si è sviluppata una produzione più user generated, dal basso: si tratta di web series, sketch, forme creative e linguaggi nuovi che sono emersi sul web dopo il 2011 e soprattutto portati avanti dall’opposizione, ma non politica, bensì creativa. Dopo il 2011 è emersa un’élite di persone per lo più giovani che hanno trovato in internet la loro forma espressiva di riferimento.

Qual è la differenza tra questo contenuto generato dagli utenti (alludo soprattutto alle web series) e alle musalsalat tradizionali post – 2011?

C’è una differenza abissale, prima di tutto dal punto di vista finanziario. Le musalsalat propriamente dette hanno bisogno di un finanziatore, e non a caso esse sono prodotte dai capitali del Golfo perché, essendo serie che vanno avanti per almeno 30 episodi, sono produzioni industriali che necessitano di un modello di business. Invece le forme sul web sono quasi sempre forme dal basso, autofinanziate, e a bassissimo budget. Dal punto di vista dei contenuti, le musalsalat sono quelle che perpetrano ancora un po’ questa visione elitistica della società, mentre quelle dal basso sono molto più aperte, sono fatte dalla società civile stessa. Molti sono contenuti generati dagli utenti, provengono dai media center che sono nelle varie città, come Aleppo, quindi sono più di opposizione al regime.

Tutto da un punto di vista sociale più che politico…

No, il contenuto politico c’è, essendo tutte cose nate dopo il 2011, cioè a fronte di una rivoluzione politica.

Di cosa parlano queste web series? Narrano, per esempio, storie d’amore, oppure cambiano i contenuti?

I contenuti non cambiano, le storie d’amore ci sono sempre, sono di appeal universale, e poi molte si concentrano su come si vive la vita quotidiana in tempo di guerra, per esempio in territori occupati che soffrono di mancanza di luce, di acqua, ecc..

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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Media Oriente

 

Paolo Fabbri: “Intervista, spartito musicale che ognuno esegue a modo suo”

“Intervista, spartito musicale che ognuno esegue a modo suo”

Pubblicate da Mimesis una raccolta di interviste fatte al semiologo dal 1998 al 2016

Un’occasione per parlare dell’intervista come teatralizzazione della conversazione, dove nel dialogo tra due si interpone lo spettatore che non è un semplice astante, ma uno che partecipa, stando fuori e guardando. Un libro di interviste, secondo l’autore, con il difetto di non riflettere sullo statuto di queste, ma di farlo al di fuori dell’opera stessa, con un’altra intervista appunto. Inoltre, una buona intervista che per un intervistatore è un po’ come uno spartito musicale che ciascuno esegue a modo proprio. E, infine, il segreto come parte dell’interazione verbale ma anche dell’intervista, in cui spesso emergono cose che si vorrebbero tenere segrete, per cui una smentita è segno che essa è valida. Queste le riflessioni di Paolo Fabbri, docente di Semiotica dell’Arte presso il Master of Arts alla LUISS di Roma, in margine a un suo libro recente, a cura di Gianfranco Marrone, L’efficacia semiotica. Risposte e repliche (Mimesis), che raccoglie varie interviste fattegli dal 1998 al 2016.

Come nasce il suo libro, e quali sue interviste sono state scelte per meglio delineare la sua figura intellettuale?

Non ho una grande passione per la scrittura di trattati, come per esempio Umberto Eco e moltissime altri studiosi. Ciò è dovuto a due ragioni: una, forse è personale, cioè mi interessa più la ricerca che non la divulgazione, mentre quando si costruisce una trattazione ci si deve in qualche misura mettere in un’ottica divulgativa. Se poi mi si chiede qualcosa in proposito, allora sì racconto volentieri, come appunto nelle interviste raccolte qui, dove ho esposto le ricerche che stavo facendo. Si tratta ovviamente di ricerche diverse, perché ci sono interviste molto vecchie, altre recentissime. I tipi di intervista dipendono anche dai periodi e dagli intervistatori: ci sono dei momenti in cui per esempio la semiotica era in auge, e allora le interviste avevano un certo tono, e altre in cui lo era meno, e quindi erano focalizzate su altri punti. Ci sono pertanto interviste un po’ generiche su cos’è la semiotica oggi, qual è la sua attualità o la sua inattualità.

Inoltre, tra le molte interviste che ho dato, le scelte non sono state fatte da me, ma da Gianfranco Marrone, che è l’editore, ed è lui che le ha selezionate in funzione di quello che lui ritiene utile per la ricerca in semiotica oggi, per cui ci sono cose molto diverse.

Un’intervista per parlare di un libro di interviste. Lo ritiene un felice connubio?

Certamente. È chiaro che un semiologo e un linguista non possono praticare l’intervista senza avere un’idea di che cosa sia. Ora, negli anni scorsi si è molto riflettuto sul fatto che il linguaggio è un atto di improvvisazione. Quando noi parliamo, abbiamo dietro di noi una grammatica, un lessico, ecc., ma sempre quando parliamo improvvisiamo. Questo è tanto più improvvisato in quanto la maggior parte dell’uso del linguaggio è conversazionale, nel senso cioè noi nella comunicazione parliamo con qualcuno. Quindi i linguisti hanno cominciato a interessarsi sempre più al fatto che esiste una grammatica della conversazione. Per esempio c’è l’inizio e la chiusa, come quando si parla al telefono e si vorrebbe chiudere si dice “Ciao”, e l’altro dice “Ciao”, altrimenti la conversazione va avanti.

Tuttavia, al di là di questa grammatica della conversazione, resta il fatto fondamentale che le conversazioni sono improvvisate. Nell’improvvisazione vengono fuori cose che magari in quel momento non avevi pensato e che non rispondono esattamente a quello che avevi magari pianificato di dire. Io non credo che ciò sia un difetto, ma una qualità. Certo, alla fine di una conversazione, come capita spesso, c’è quello che i francesi chiamano l’esprit d’escalier, cioè che ti viene in mente dopo la cosa che avresti dovuto dire in quel momento e non hai detto, e questo è vero per tutte le interviste, però è anche vero che quello che non c’è, quello che è venuto fuori e che non doveva venire fuori, molto spesso invece è proprio la cosa interessante. Quindi occorre fare un elogio dell’intervista e dire che, se dovessimo fare un commento a L’efficacia semiotica, direi che quello che manca al libro è il fatto di non aver riflettuto, in esso, raccolta di interviste, abbastanza sull’intervista.

È d’accordo con l’assunto per cui l’intervistatore si rivela capace quando “fa parlare” al meglio l’intervistato e tira fuori da lui delle novità rispetto a quanto si aspettava dicesse?

Senza dubbio sì, ed è per questo che dimentichiamo però che le interviste rispetto alla conversazione che è, diciamo, aperta, sono in parte pianificate, in parte sui contenuti, ma in parte anche nel senso che un buon intervistatore è un programmatore, in qualche modo da Opera aperta, in quanto sa benissimo che forse quello che sarà più interessante non è la risposta che l’intervistato fa alla domanda, ma sarà quella che lui non si aspettava. Questa è la ragione per cui esistono tante smentite, che però, come sappiamo tutti, non sono ascoltate da nessuno. Tutto sommato è un bene, perché prima di tutto una smentita è la negazione di quello che ti ha intervistato, che non è certamente una cosa carina, e soprattutto perché “Voce dal sen fuggita più ritornar non può”.

Quindi credo che c’è una programmazione, ma aperta, come d’altra parte il linguaggio. Una buona intervista per un buon intervistatore è un po’ come uno spartito musicale che ciascuno esegue a modo proprio.

Esistono, poi, delle interviste “chiuse”, quantitative, dove si tratta di rispondere con un sì o con un no…

Ci sono delle interviste come per esempio quelle dei sondaggi di opinione che chiedono di rispondere con un sì o un no, e non sono interviste, ma sondaggi d’opinione. È vero che questi hanno delle forme più praticate, e sono esattamente il contrario delle interviste di cui abbiamo parlato, che sono qualitative.

In ogni caso, nelle interviste la gente racconta bugie. Ciò non è importante in un’intervista aperta, perché l’intervistatore può sempre tornare su e correggere e richiedere, e l’altro può tornare indietro dicendo “Non volevo dire questo”. Tuttavia, nel caso dei sondaggi d’opinione, specie su delle cose che riguardano temi delicati come la sessualità, si raccontano balle in funzione di quello che uno vuole far pensare di sé. In questo frangente oggi gli istituti demoscopici stanno confidando sempre di più in Google, cioè dalle preferenze che uno ha e di cui Google porta delle tracce, come per esempio la visione dei siti porno su Internet. Saltano quindi l’intervista demoscopica e vanno a guardare invece i dati, i Big Data, che la gente ormai lascia come traccia.

Questa è la ragione per cui le interviste quantitative sono il luogo molto spesso delle bugie. Non sono bugie, la gente semplicemente racconta quello che vuole che si pensi di lei.

Esiste la bugia nelle interviste qualitative?

Lì la bugia non c’è, perché ci sono le domande di controllo, cioè un buon intervistatore prima fa una domanda, poi l’altro risponde, poi più tardi fa la stessa domanda per vedere se uno risponde la stessa cosa. L’intervista è un luogo strategico, non è solo uno scambio di parole e di informazioni.

Nei suoi studi emergono temi che direttamente o indirettamente hanno a che fare con l’intervista?

Si tratta delle riflessioni sul segreto, che mi sono sembrate molto interessanti, e un’altra sul camouflage, sul travestimento. Perché mi interessano? Perché noi abbiamo l’abitudine di pensare, e ciò ha a che fare con quanto detto, che il linguaggio trasmetta la verità, cioè io dico una cosa e tu ne dici un’altra, cioè c’è tutta una problematica sul fake, sulle menzogne, ecc.. Il linguaggio non è fatto per quello, è fatto per tantissime altre cose, e una di queste non è dire, ma nascondere. Nel linguaggio noi usiamo molte allusioni, ci sono molti segreti a cui facciamo allusione. Il linguaggio serve anche per conservare dei segreti, basti pensare alle rimozioni. L’altro aspetto è il camouflage, che è un esempio del travestimento. I segni servono anche per travestirsi, non solo per vestirsi: se io posso vestirmi da uomo posso anche camuffarmi da animale o da donna. Quindi ho l’impressione che la semiotica serve anche a studiare forme di segni non diretti, letterali, referenziali, ma cose come i segreti, i travestimenti, i camouflage, di qui la problematica della moda, e così via.

Molto spesso negli interrogatori la gente racconta anche delle bugie, si nasconde, e quindi esiste il problema del segreto. Anche l’intervista è un luogo in cui a volte emergono cose che uno vorrebbe conservare segrete. Per esempio Trump, tutte le volte che gli fanno un’intervista, dice certe cose e poi il giorno dopo fa la smentita, segno che l’intervista era buona.

Si può dire che l’intervista è un particolare tipo di interazione comunicativa? Quali caratteristiche ha rispetto ad altri confronti face – to – face?

È la questione della conversazione, dato che noi tutti conversiamo. Per esempio un tema su cui gli studiosi hanno lavorato molto e che oggi è diventato alla moda è quello degli insulti e della gente che li proferisce. Io ho scritto un articolo su questo, ma ho visto che anche Tullio De Mauro, in un libro che uscirà postumo, dal titolo Parole per ferire, ha scritto sulle parole che fanno del male. Ora, gli insulti sono spesso faccia a faccia, nel senso che certo, si può anche scrivere degli insulti, e oggi su Internet la gente si insulta, ecc., però insomma, diciamo, essi sono una forma estrema di conversazione. Tra l’altro bisognerebbe che parlassimo anche del pettegolezzo, che è fondamentale secondo me, dei rumour, ecc..

In realtà l’intervista non è face – to – face, questo volevo precisare, in quanto sempre mediata dal lettore o dallo spettatore che ne fruisce…

Certo, però è un testo che viene comunicato ad uno spettatore che però non è un semplice astante, ma qualcuno che invece partecipa, non alla conversazione, ma un po’ come a teatro, stando fuori e guardando. Però si potrebbe ricordare che a teatro c’è l’a parte, il momento in cui, mentre i personaggi stanno discutendo, all’improvviso uno dei due si volta e, come se non continuasse a parlare, si rivolge verso il pubblico. In qualche modo l’intervista è una teatralizzazione della conversazione, perché c’è un astante, cioè uno spettatore verso cui certe volte si fanno anche degli a parte. Curiosamente le interviste stanno proliferando. Ci sono delle ragioni a tutto ciò: oggi la gente vuole meno informazioni obiettive, più coinvolgimento soggettivo. Le persone raccontano storie proprie, la loro autobiografia: un numero recente della rivista Il Verri di cui faccio parte è sull’autofiction, cioè sul fatto che la gente si racconta, ha molta voglia di farlo. Evidentemente di questa autofiction fa parte l’idea che la gente non va a leggere per esempio un libro, ma va a sentire colui che l’ha scritto e che racconta come. Di fatto sono così i festival di letteratura: tutti vanno a vedere l’autore che racconta come ha fatto il libro, ma nessuno lo legge.

MARIA GRAZIA FALÀ

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Paolo Fabbri

 

Massimo Locatelli: “Noir e thriller, gioco di ansie ed emozioni”

“Noir e thriller, gioco di ansie ed emozioni”

Per Vita e Pensiero un libro dedicato a questo genere ormai intermediale

Il noir e il thriller come gioco di ansie ed emozioni. Un genere che nasce alla fine dell’Ottocento già prima del cinema, dove si afferma nella forma canonica negli anni Quaranta. Poi, il procedural come parente prossimo, che lavora sul gioco poliziesco, sulla squadra, mentre il noir si esprime più su elementi psicologici. Il thriller come ciò che fa trattenere il fiato, come la ragazza legata ai binari del treno mentre il villain sta a guardare, ma senza l’approfondimento psicologico o la dimensione passionale che si identifica con il noir. Inoltre, una quality television che permette allo spettatore una migliore definizione dei colori e quindi l’uso del low – key lighting, l’intenso chiaroscuro, applicato anche al colore, come nel caso di True Detective. Infine, una intermedialità, con il noir e il thriller che passano anche al di fuori della fiction da cinema e televisione, come le docufiction, i generi realistici, e altri media come i fumetti e i videogiochi.

Sono queste le parole con cui Massimo Locatelli, docente di Cinema, fotografia, televisione alla Cattolica di Milano, presenta il suo recente Psicologia di un’emozione. Thriller e noir nell’età dell’ansia, uscito per Vita e Pensiero.

Se dovesse dire, in sintesi, l’assunto del suo libro, con quali parole si esprimerebbe?

Nei media contemporanei abbiamo nuove forme culturali che si appoggiano ai generi classici, ma che lavorano con molta più forza sull’intensità dell’emozione. Può essere il cute, il carino, o l’autenticità del reality intesi come sensazioni fortemente emotive. Il noir e il thriller oggi sono quella grande forma culturale che ci permette di giocare con ansie ed emozioni, anche molto intensamente.

Il noir nasce già con i film muti. Qual è la sua affermazione nel cinema?

Il noir è precedente al cinema: alla fine dell’Ottocento c’è una elaborazione di uno stile visivo nella fotografia che è appunto il chiaroscuro e quello già porta con sé l’idea della sua dimensione psicologica. Quando nasce il cinema, in particolare con il muto che ha bisogno di forte espressività, il chiaroscuro diventa un forte riferimento da un punto di vista fotografico e viene integrato nelle grandi narrazioni thrilling, criminali, che iniziano ad attirare il pubblico soprattutto negli anni Dieci. La seconda tappa sono gli anni Venti, quando vengono definiti tecnologicamente i mezzi tecnici, cioè la fotografia canonica del noir. Si pensi, ad esempio, ad alcuni film di Rodolfo Valentino, che diventa la maschera dell’uomo misterioso, del tough guy, dell’esotico, della passione. Si arriva così agli anni Quaranta quando si ha l’epoca del noir vero e proprio, con i classici come Humphrey Bogart (vedi il suo Il mistero del falco), che canonizzano questa forma visiva che diventerà riconoscibile per sempre.

In cosa si discosta il noir dal procedural?

Dopo gli anni ’40 vi è una serie di rilanci: nascono altri percorsi e sottogeneri. Il procedural è proprio un modo che hanno gli anni Cinquanta per rinnovare il canone noir e thriller. Esso è quel luogo in cui, invece che l’eroicità, pure tenebrosa del tough guy, cioè dell’eroe noir, si inizia a essere interessati ai meccanismi di conoscenza anche delle procedure poliziesche e alla squadra, al team, al distretto di polizia, cioè a una sorta di piccola comunità che lavora a stretto contatto con il crimine. Da allora noir e procedural vanno a braccetto, rimangono cugini, che continuano a scambiarsi idee e forme, ma che non sono sempre la stessa cosa.

Thriller e noir sono due fenomeni diversi?

Il noir è un’elaborazione all’interno dell’universo del thriller, che nasce prima. Esso si sviluppa già nel teatro leggero degli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, e indica quella cosa che fa tenere il fiato, come la scena classicissima della ragazza o del protagonista legati sui binari mentre arriva il treno e il cattivo è lì che guarda insieme a noi spettatori. Quando nel corso del Novecento il cinema avrà anche uno stile visivo cupo, appunto nero, con la ricerca di narrazioni psicologicamente dense, si ha il psychological thriller.

Quindi, ecco personaggi frantumati nella loro interiorità, come Humphrey Bogart che è il detective che non sta né col bene né col male, e proprio in quel momento nasce anche il noir all’interno della cornice thriller. Naturalmente esisterà sempre un thriller pulito, non noir, magari con immagini chiare, con un eroe, un detective o poliziotto, che semplicemente risolve casi di forte tensione senza l’approfondimento psicologico oppure la dimensione passionale che si identifica con il noir.

Quale differenza c’è tra quality television e televisione precedente?

La TV ha un ruolo importante nell’evoluzione dei generi thrilling e in quelli con lo stile visivo e narrativo nero. Naturalmente ogni percorso, televisione, cinema, radiofonia, anche fumetti e videogiochi, ha delle necessità tecnologiche di produzione. Agli esordi la TV americana aveva una definizione molto bassa, anche inferiore a quella europea. È però vero che è passata prima al colore ma questo ha fatto fare un passo indietro in termini di definizione: l’immagine a colori infatti fino agli anni Ottanta o fine Settanta in TV è piuttosto debole. Noi in Europa alziamo poi il livello qualitativo almeno dagli anni Sessanta – Settanta, ma rimaniamo però al bianco e nero che, da un altro punto di vista, è un limite.

Fino alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta tutti questi paletti spingono la televisione a rimanere, per i generi indicati, a mantenersi soprattutto entro il procedural. Questo vale in particolare per la TV americana, ma in parte anche per quella italiana e tedesca che, sin dalla fine degli anni Settanta, inizia a vendere i suoi investigatori, come fa tuttora. Il procedural, infatti, permette di realizzare storie complesse ma con un’intensità visiva molto meno forte, non competitiva con il cinema. Con gli anni Ottanta le cose cambieranno: infatti da questo periodo, a partire dagli USA e poi nel nostro paese, si diffondono televisori con una definizione dell’immagine più alta. Nasce quindi la quality television, un prodotto visivamente migliore, definito, con una maggiore gamma di contrasti, di cromatismi, e a quel punto ci sono anche un’ampia possibilità e volontà di lavorare sulla scrittura.

Il mid – key linghting, ovvero toni di luminosità più sfumati, era il cromatismo tipico dei telefilm tedeschi…

Questo era il cromatismo tipico dei vari commissari Koester, Derrick, ecc.. Il mid – key lighting era una via di mezzo, la TV non fa neanche tanto high – key lighting, cioè un’illuminazione diretta che sottolinea più o meno frontalmente visi e corpi degli attori, la utilizza per i grandi spettacoli, per Canzonissima, diciamo. Usa invece molto un’illuminazione standardizzata, classica, con pochi toni, proprio perché ha poca possibilità di rielaborare i suoi contrasti. Come già detto, agli esordi la qualità dell’immagine televisiva a colori è molto povera. Se pensiamo alla serie Starsky & Hutch, degli anni Settanta, che è abbastanza innovativa e che arriva a fare da ponte, essa ha comunque una qualità visiva molto più bassa di quello a cui saremo abituati dopo. I tedeschi usano già il colore negli anni Settanta, perché vi arrivano almeno una decina d’anni prima di noi, però la loro immagine la pensiamo quasi grigia lo stesso, proprio perché scelgono il mid – key lighting, girato nelle città tedesche, con cieli grigi già naturalmente.

Cosa avviene con Twin Peaks e con X – Files?

Twin Peaks insieme a X – Files segna il passaggio alla quality television. Siamo ormai negli anni Novanta e c’è una nuova generazione di spettatori che si aspetta dalla TV una qualità della visione molto più alta. Non per niente si inizia a parlare di home cinema anche nel marketing.

Già con Rodolfo Valentino il low – key lighting, cioè il forte chiaroscuro, si afferma, più nei manifesti dell’attore che nei suoi film, ancora a bassa definizione. Come definirebbe questa modalità di illuminazione del set in periodi successivi ma, soprattutto, nella serie cult americana True Detective?

Il low – key lighting è proprio quella marca caratteristica del visual design nero, noir, che viene codificata nell’epoca classica, come detto prima. È di difficile utilizzo per la TV molto a lungo: per esempio Hitchcock nella sua serie Alfred Hitchcock presenta poteva utilizzare solo in pochi momenti il low – key lighting cinematografico. Quando, prima al cinema negli anni Settanta con la New Hollywood, e dopo con la televisione di qualità degli anni Novanta è possibile ricreare questi grandi effetti low – key, subito i grandi autori prima e le grandi produzioni poi se ne approfittano. Per la TV, non tanto da Twin Peaks, ma soprattutto da X – Files, le prime grandi serie a cavallo del Duemila, si torna a usare con forza anche effetti low – key, quindi con grandi contrasti, con sfumature di grigio, con volti di cui riconosciamo la tensione e le paure proprio dalle ombreggiature.

E questo nonostante il colore…

Con la New Hollywood degli anni Settanta, quindi con i film di Coppola (come Apocalypse Now), di Scorsese, ecc., finalmente c’è la possibilità di fare cinema a colori, ma con tutta la cupezza di quello classico in bianco e nero.

In TV, a partire dal Duemila, tutte le serie, quelle fatte con un po’ di soldi, possono iniziare a osare veramente la ricchezza dei contrasti low – key. Mi riferisco ai Soprano, una delle grandi serie di qualità HBO.

Addirittura, nelle serie contemporanee questa noirizzazione diffusa anche oltre alla scena clou, viene usata pure in ambiti completamente diversi, come in ER, serie della fine degli anni Novanta, dove George Clooney usa il low – key lighting per rendere più tensivo e più appassionato il genere ospedaliero.

Anche True Detective fa dei giochi stilistici significativi. Negli ultimi dieci anni si è aggiunta infatti una nota ulteriore, a cui ormai nessuno rinuncia, cioè la colour correction, avvenuta con la trasformazione di tutta la produzione in digitale verificatasi grosso modo una quindicina di anni fa. Da questo momento si ha la possibilità di operare appunto in colour correction in postproduzione, creando un lavoro sulla gamma dei cromatismi e sulle ombre. In questo senso True Detective è un bellissimo caso di studio. Esso gioca sia con i momenti più cupi, low – key lighting classici, sia con momenti allucinati, di forte sovraesposizione, negli esterni, con un campionario delle possibilità espressive della fotografia contemporanea.

Va infine tenuta presente l’intermedialità del noir attuale…

Per quanto riguarda appunto la cosiddetta intermedialità dei generi contemporanei, il noir e i thriller passano non solo nel cinema classico o nella TV, ma sono usati anche negli altri generi. Penso alla docufiction, ai generi realistici, ecc.. Poi il noir passa pure attraverso altri media, come i fumetti e i videogiochi, oggi tutte forme di consumo molto importanti soprattutto per le giovani generazioni che magari si formano lì il loro immaginario thriller e noir.

MARIA GRAZIA FALÀ

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Massimo Locatelli

Vita e Pensiero

Martina Federico: “Trailer, strategia di seduzione”

“Trailer, strategia di seduzione”

Esce per Mimesis un testo sul rapporto trailer – film

Una formazione semiotica classica, che spazia da Saussure a Greimas ad Eco, passando per testi più recenti come il Casetti – di Chio e il lavoro a cura di Isabella Pezzini. Uno studio, quello sul rapporto tra trailer e film, che esamina il trailer come forma di seduzione dello spettatore spingendolo ad andare a vedere il film ma che nello stesso tempo mette in evidenza, sempre del film, i suoi punti di forza. Infine, la tripartizione dei trailer in narrativi, antinarrativi e “intermedi”.

Questi, in sintesi, i tratti di Trailer e film. Strategie di seduzione cinematografica nel dialogo tra i due testi, edito da Mimesis di recente e scritto da Martina Federico, Dottore di ricerca in Scienze del Linguaggio e della Comunicazione all’Università di Torino.

Quali assunti intende dimostrare il suo libro?

Con il mio lavoro ho cercato di sostenere l’idea secondo cui un trailer ben fatto può incidere in maniera favorevole sul film. A mio parere esso deve cercare di essere accattivante rispetto al potenziale spettatore in modo da catturare e, successivamente, da far sì che dal confronto trailer – film venga fuori un dialogo positivo.

Quali sono stati i testi fondativi da cui ha tratto ispirazione?

Il mio libro si basa principalmente su una pratica che ho inaugurato sulla base dei miei interessi sul paragone tra trailer e film. Poi ho cercato, per scrivere di quest’argomento, di prendere spunto da alcuni testi su cui mi sono formata durante il corso di laurea a Bologna e poi di dottorato a Torino. Tra questi ci sono diversi manuali di semiotica del cinema come il Casetti – di Chio Analisi del film e alcuni classici del montaggio, c’è qualche testo di Greimas e di linguistica, di semiotica più teorica, non applicativa, poi c’è il lavoro di Umberto Eco, per me fondamentale, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, che ho usato anche per la tesi di laurea. Infine posso citare un lavoro molto importante, che è stato la mia bibbia, sempre per la mia tesi, che è Trailer, spot clip, siti, banner. Le forme brevi della comunicazione audiovisiva, a cura di Isabella Pezzini. All’interno di questo libro c’è un articolo di Nicola Dusi che si chiama Le forme del trailer come manipolazione intrasemiotica. Comunque il mio libro si situa a metà tra il giornalistico e l’accademico.

Lei si è ispirata a qualche fonte giornalistica?

No, anche se le mie sono forme di critica cinematografica, perché questo è l’obiettivo della mia analisi, creare una nuova forma di critica cinematografica che parta dai trailer.

Com’è venuta la sua passione per questi ultimi?

È nata dai miei studi all’Università, e infatti, su questo tema, già all’epoca feci una tesi per la mia laurea magistrale in discipline semiotiche. In generale sono affascinata dal fatto che si possano rimescolare degli elementi creando storie diverse.

Com’è nato il suo libro? Le schede che esso contiene sono state pubblicate anche in altre occasioni?

Sono state pubblicate per la rubrica “Segnofilmtrailer” di “Segnocinema”, dove ho iniziato a collaborare cinque anni fa, proponendo questo format dell’analisi del trailer, poi un anno e mezzo fa ho cominciato a collaborare anche con l’”Huffington Post Italia”, sono state pubblicate lì e poi ripubblicate e raccolte all’interno di questo libro.

Lei ha parlato di trailer narrativi, antinarrativi e trailer che sono una via di mezzo, ovvero narrativi con qualche lacuna… La bipartizione iniziale da me analizzata durante la tesi di laurea era tra trailer narrativi e antinarrativi. Successivamente, lavorando ancora sul tema nel corso di questi anni, mi sono accorta che forse era un po’ troppo generica e ampia, e quindi che c’era una terza tipologia intermedia.

Ci potrebbe spiegare in breve questa tripartizione?

Il trailer narrativo è quello dove riusciamo a ricostruire bene o male una storia, indipendentemente dal fatto che essa può essere più o meno verosimile nei confronti del film.

Il trailer antinarrativo si ha invece quando non riusciamo a ricostruire una storia: è il caso di Arancia meccanica che metto all’inizio del mio libro come esempio paradigmatico.

La terza tipologia è quella in cui riusciamo più o meno a ricostruire storie o fatti di una storia all’interno della quale ci sono elementi di dubbio. Noi sappiamo per esempio che il protagonista fa una cosa e poi vediamo la scena successiva in cui l’ha già fatta e ci manca sapere come l’ha fatta o l’ha fatta fare.

Il trailer come seduzione. Quando si verifica tutto ciò?

Il trailer come seduzione si verifica sempre, nel senso che quando esso è riuscito ha creato un’azione seduttiva nei confronti dello spettatore. Tuttavia, sempre il trailer come seduzione fa parte di quello che ho chiamato il suo primo aspetto, quello in cui appunto fa un’opera di seduzione spingendo lo spettatore ad andare al cinema, poi c’è il secondo in cui si verifica la qualità della creazione messa in atto dal trailer. In base a questa possiamo vedere se esso è riuscito a mettere in evidenza i punti di forza del film anche non inserendoli nel trailer, cioè lasciandoli direttamente al film.

Secondo lei il trailer dovrebbe essere costruito in modo “giusto” per il film. Cosa intende con questa affermazione?

Ritengo che ognuno di essi dovrebbe essere fatto secondo un’attenta, preventiva analisi del film, cercando di capire in base al processo di selezione ed esclusione delle scene come questo potrà incidere una volta che lo spettatore va al cinema e dopo aver visto il film. Il trailer deve essere costruito su misura, ma non è vera una regola generale per operare tutto ciò.

Il trailer di solito da chi viene ideato? Dal regista?

Sinceramente non glielo so dire, nel senso che non ci sono molte regole per la sua realizzazione, e questo è anche il motivo per cui non si riesce a fare un’analisi scientifica esaustiva, omogenea. Molte figure infatti possono concorrere alla creazione dei trailer, a volte il regista, a volte il montatore, a volte l’agenzia esterna pubblicitaria, a volte la direzione marketing della casa di distribuzione, che detta le linee guida.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Fabio Bordignon: “Renzi, in forse una leadership postmoderna?”

“Renzi, in forse una leadership postmoderna?”

Limiti di un modello senza una politica dal basso

Un voto contro il PD in quanto voto antisistema. Poi una leadership postmoderna, che rompe con gli schemi del passato, gioca molto sui meccanismi di tipo antipolitico e sulla dimensione mediatica della figura politica stessa. Durerà, dopo la sconfitta renziana? Inoltre, una comunicazione politica, quella del segretario del PD, vincente nel saper dominare i media ma che ha, punto debole, la sovraesposizione a questi. Poi, un crowfunding che viene sentito come “proprio” solo se viene attuata anche una politica dal basso, che coinvolga la base del partito. Infine, consiglio per superare l’impasse di queste amministrative, una leadership verticistica ma anche con una dimensione orizzontale e partecipativa, come il modello grillino e come quella di Renzi prima maniera. Sono queste le riflessioni di Fabio Bordignon, docente di Scienza politica all’Università di Urbino Carlo Bo e ricercatore di Demos & Pi.

Silvio Buzzanca, giornalista parlamentare de La Repubblica, ha detto che questo è stato un voto contro il PD al ballottaggio. Lei è d’accordo?

In generale ormai ogni voto, e soprattutto quello locale, si è trasformato in un voto contro il sistema e chi in quel momento lo rappresenta, come appunto il PD. Questo è un aspetto del tutto nuovo, nel senso che in passato l’essere uscenti e poter presentare un candidato che già sedeva sulla poltrona di sindaco era considerato un vantaggio. Oggi invece sembra capovolgersi lo schema ed essere incumbent, come si dice nella terminologia anglosassone, diventa un fattore che gioca contro. Quindi c’è un effetto legato alle difficoltà attuali del PD, ma esiste anche un meccanismo del voto contro, che ha ulteriormente alimentato il vento contro il Partito Democratico.

Insieme a Luigino Ceccarini sta per uscire per Springer un suo contributo su Matteo Renzi (Matteo Renzi: The Post-Modern Prince. Leadership and Communication in the Frame of the New Italian Transition). Inoltre, anche in altri casi lei si è occupato di questa figura politica. In ulteriori sue ricerche, cosa aggiungerebbe a ciò che ha scritto, visti gli ultimi risultati elettorali?

Aggiungerei che si trova in un momento difficile per quanto riguarda la tenuta della sua leadership, probabilmente la fase di maggiore difficoltà che non sembra arrestarsi dopo l’esito del referendum costituzionale sul quale aveva investito moltissimo. Quindi le domande che si ponevano negli studi che lei ha citato rimangono più attuali che mai. Non si tratta solo di scommettere sulla sopravvivenza del fenomeno Renzi, ma anche di verificare questioni teoriche molto rilevanti sulla solidità di quella che io chiamo leadership post – moderna, cioè una leadership che rompe con gli schemi del passato, gioca molto sui meccanismi di tipo antipolitico e sulla dimensione mediatica della figura politica stessa. Già con Berlusconi ci siamo chiesti se quella leadership costruita nell’arco di poco tempo, supportata da Forza Italia, descritta come un “partito di plastica”, avesse la capacità di durare nel tempo. Nel 1994, in particolare dopo la caduta del primo governo Berlusconi, molti immaginavano che l’esperienza potesse esaurirsi con la stessa velocità con la quale si era affermata. Oggi le stesse domande le troviamo quasi inalterate nel caso di Renzi. Qui però siamo in un’epoca diversa: dopo circa vent’anni soprattutto sul fronte dei media si sono affermati nuovi canali, Internet e i social network, attraverso i quali la politica si sviluppa. Essi sono in continuità con fenomeni quali la spettacolarizzazione, la personalizzazione e la drammatizzazione della politica, però se all’epoca della TV i processi politici erano accelerati, ora con i nuovi media vengono addirittura esasperati. Si tratterà di capire se tale accelerazione genererà un ulteriore accorciamento dei cicli politici e il caso Renzi, proprio perché ha messo la velocità quale cifra del suo agire, rappresenta un caso esemplare, e monitorarlo nei prossimi anni ci darà delle risposte agli interrogativi teorici menzionati.

Qual è stata la comunicazione politica di Renzi e in cosa ha fallito?

Ha fallito sia per aspetti legati alla comunicazione ma, forse in misura ancora maggiore, a quelli di strategia politica. Per quanto riguarda la comunicazione, Renzi ha saputo impostare un discorso politico in linea con la stagione populista e antipolitica che l’Italia sta attraversando. In questo senso è stato bravo a cogliere alcuni elementi vincenti sia di Berlusconi, quello della discesa in campo di venti anni fa, sia del discorso grillino più recente. Per esempio, è molto “grillino” e antisistema il concetto della rottamazione. Arrivato a Palazzo Chigi, e anche nei confronti del suo partito, ha riversato questo nucleo antagonista, e allora ha parlato di palude, di gufi che tifano contro, ecc.. Oltre a questo pregio, hanno pagato le doti mediatiche del leader ma, sempre sotto il profilo comunicativo, credo che non abbia funzionato l’eccessiva esposizione ai media come la sua onnipresenza in TV e sui social. Invece Berlusconi, pur essendo un leader con attributi fortemente mediatici, era solito intervallare periodi di grande presenza a momenti nei quali si eclissava, e tendenzialmente essi erano quando era al governo, e quindi doveva preservare la propria immagine dalla difficoltà di governare e dalle potenziali ripercussioni in termini di consenso.

Sotto questo profilo la scelta di rompere con Berlusconi al momento dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica all’inizio del 2015 rappresenta lo spartiacque. Quella scelta, che ha pure consentito a Renzi di cogliere quello che sul momento sembrava un successo, poi si è rivelata fondamentale nel determinare appunto l’esito negativo del referendum dello scorso dicembre.

Perché il punto di svolta si è avuto con la scelta di Mattarella a capo dello Stato?

È avvenuto perché Renzi è un leader pragmatico, che ragiona obiettivo per obiettivo, e forse è sempre portato a sopravvalutare le proprie capacità di gestire ogni situazione. Se noi portiamo indietro le lancette dell’orologio all’inizio del 2015 al momento delle elezioni di Mattarella e guardiamo i giornali dell’epoca, tutti descrivevano il grande successo di Renzi, la strategia, addirittura il risultato di aver “fregato” Berlusconi. Si pensava cioè che avesse battuto quello che invece era il grande giocatore d’azzardo della politica italiana almeno fino a quel momento, con il risultato di ricompattare la sinistra e il PD. Però già in quella fase, se si guardava in prospettiva, si poteva intravedere la fine della grande coalizione attorno alle riforme e quindi un’incognita aggiuntiva molto seria sull’esito del processo di riforma complessiva proposta da Renzi.

Gianluca Giansante, nel suo La comunicazione politica online, edito da Carocci, ha parlato di Obama e della sua politica di crowfunding, che ha portato a risultati positivi, come pure la personalizzazione delle email da inviare a potenziali sostenitori. Il PD ha adottato una politica analoga in Italia. Pensa che abbia pagato?

Per quanto riguarda la scelta di reperire i fondi per il sostentamento del partito anche e attraverso la rete o nuovi canali, si tratta pure qui di una scelta inevitabile. Infatti, venuti meno gli introiti derivanti dal tesseramento, diventato il finanziamento pubblico un canale per molti versi non percorribile perché sgradito a larga parte dell’opinione pubblica, ecco che queste nuove forme di reperimento fondi diventano inevitabili. Del resto il PD è un precursore da questo punto di vista, avendo inventato quel formidabile strumento di crowfunding che sono le primarie e le microdonazioni che derivavano dai due euro che si lasciano ai gazebo al momento del voto. Ma queste iniziative, per non apparire sgradevoli agli occhi dei cittadini, devono essere agganciati a meccanismi di coinvolgimento della propria base.

Quali azioni politiche di Renzi ritiene più fallimentari? Quelle verso i giovani delusi? Quelle di non aver saputo dotare il partito di una struttura radicata sul territorio?

Forse di non essersi occupato del proprio partito e di non averlo saputo rinnovare, come ha più volte promesso. Tuttavia, credo che sia fuorviante parlare di partito radicato sul territorio se intendiamo un modello organizzativo che si rifaccia agli antenati del PD, e cioè la DC e il PCI, perché essi sono non soltanto superati, ma anche improponibili rispetto alle trasformazioni che la società ha attraversato.

In questo senso il modello delle primarie ha rappresentato la più grande innovazione proposta dal PD che ha mostrato di funzionare, e Renzi stesso deve moltissimo a tale modello, visto che è il canale attraverso cui si è affermata la sua leadership a livello nazionale. Questo ci dice che, se il segretario del PD deve rilanciare il partito, deve farlo non rinunciando alla sua leadership, ma anche proponendo nuovi canali di partecipazione dal basso nella formulazione delle scelte del partito. Gli ingredienti vincenti del successo grillino, cioè la leadership verticistica, rappresentata dal duo Grillo – Casaleggio, e la dimensione orizzontale e partecipativa erano presenti anche nel Renzi prima maniera, cioè quello dell’epoca in cui era il sindaco di Firenze e della prima scalata al PD e poi al governo. Forse da questo punto egli dovrebbe ripartire nel ripensare sia la sua proposta politica, sia il modo in cui rivedere la struttura organizzativa del proprio partito.

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MARIA GRAZIA FALÀ

 

Silvio Buzzanca: “Doppio turno, un voto “contro” il PD”

“Doppio turno, un voto “contro” il PD”

Il giornalista de La Repubblica spiega la sconfitta elettorale del Partito Democratico

Un allargamento della coalizione a sinistra come ipotesi di Orlando per ovviare alla débacle del PD alle comunali. Un voto “contro” il PD, con un travaso dei voti ai ballottaggi verso le forze di centrodestra, come a L’Aquila. Poi, le forze vincenti già litigiose, su questioni locali, come quelle di Padova, che lasciano pensare a un futuro incerto anche a destra. Inoltre, il modello vincente di Toti che non sembra esportabile a livello nazionale per l’opposizione del Cavaliere. Infine, un Movimento 5 Stelle perdente che forse vota per il centrodestra o si rifugia nell’astensionismo come molti elettori ex PD. Questi gli scenari, incerti, delineati da Silvio Buzzanca, giornalista parlamentare di La Repubblica, che ha seguito da vicino le ultime elezioni.

Secondo lei la dura sconfitta del centrosinistra è da imputarsi alla leadership renziana?

Questo è uno dei temi di discussione di oggi e lo sarà dei prossimi giorni, perché Matteo Renzi tende a minimizzare la portata della sconfitta: ha commentato “Poteva andare meglio”, praticamente non si è impegnato nella campagna elettorale e questo gli verrà rimproverato dalla minoranza interna. Già qualcuno parla di una riapertura del congresso del PD che si è appena concluso a maggio con la vittoria alle primarie di Renzi, che ha stravinto con l’80% dei voti contro Michele Emiliano e Andrea Orlando. Quest’ultimo adesso rilancia l’ipotesi di riallargare la coalizione, creando un centrosinistra molto più vasto senza l’idea dell’autosufficienza del PD. Comunque queste sono elezioni amministrative, contano molto i fattori locali e si vota con un sistema, il doppio turno, che negli ultimi anni ha sempre penalizzato il PD. Infatti, se questo non vince al primo turno, al secondo tutti gli avversari si coalizzano contro di lui e finisce per perdere quasi tutti i ballottaggi, come è successo l’anno scorso a Roma e a Torino.

Quale strategia ha reso vincenti i leader di centrodestra? Il fatto di trovarsi uniti? Il fatto di cavalcare idee “popolari” come la lotta ai migranti, al diritto allo ius soli, le battaglie per l’ordine pubblico?

La vittoria del centrodestra è a trazione leghista su questi temi (anche Fratelli d’Italia cavalca questa tigre). Tuttavia il partito di Berlusconi sembra essere in ripresa, perché i sondaggi presentati da Mentana ieri davano i leghisti e Forza Italia appaiati intorno al 14%, più quasi un 5% di Fratelli d’Italia che, sommati fanno, il 32%, la prima forza politica del paese. Invece il PD si aggira intorno al 26 – 27% e i grillini sono retrocessi attorno al 25%. Su questi numeri si costruiscono strategie, ma è evidente che Berlusconi non vorrà mollare per niente la leadership del centrodestra a Salvini. Continuerà quindi sul suo binario di ribadire sempre l’appartenenza al Partito Popolare Europeo e dunque con una posizione molto più cauta rispetto ai leghisti sull’euro, sui migranti, ecc.. Per esempio ieri sera, su alcune trasmissioni televisive, nonostante stessero vincendo, i leader del centrodestra già litigavano tra loro. Certo, si riferivano a fatti locali, che però segnalano un disagio. Per esempio a Padova Forza Italia con altri partiti aveva sfiduciato il sindaco leghista Massimo Bitonci che poi è caduto: si è andati a nuove elezioni dove Bitonci ha perso, e i leader del centrodestra si sono accusati a vicenda della sconfitta. Tale atteggiamento di rivalsa a livello locale nel centrodestra non depone molto bene per le alleanze nazionali. Nonostante infatti Berlusconi dica che c’è un accordo sui programmi al 95%, è quel 5% che contiene i temi più importanti, come l’atteggiamento verso l’Europa, le politiche europee e l’euro, e su questi i leghisti non sono d’accordo.

E su ciò concordano con i grillini…

Sicuramente le ultime decisione del governo danno una mano a questa campagna: il varo del decreto sulle banche venete non contribuirà ad affievolire le critiche populiste contro la finanza, le banche, la casta, i poteri nascosti e i complotti mondiali contro il popolo. Di tutto questo se ne avvantaggeranno leghisti e grillini.

Il Movimento 5 Stelle potrebbe aver travasato il proprio bacino elettorale sul centrodestra?

Sicuramente sì, ora bisognerà vedere con attenzione i flussi che gli analisti degli istituti di ricerca mostreranno. Tuttavia, a occhio e croce sembra evidente che, dove i grillini, cioè quasi dappertutto, sono rimasti fuori dal ballottaggio, hanno fatto confluire i loro voti sui candidati del centrodestra facendoli vincere.

Comunque bisogna tener anche conto che c’è stato un altissimo livello di astensione. Nei 111 comuni chiamati a votare ieri, ha votato solo il 46% degli aventi diritto contro il 58% del primo turno, con un calo dell’affluenza del 12%, il che rende ancora più complicato capire dove siano finiti i voti.

Molti voti grillini, anziché al centrodestra, potrebbero essere finiti nell’astensione, così come moltissimi voti, chiamiamoli di sinistra, si sono rifugiati nell’astensione abbandonando il PD e le sue alleanze.

Come valuta la vicenda de L’Aquila, che sembrava vinta dalle sinistre quasi al primo turno con un vantaggio di Americo Di Benedetto del 12% su Pierluigi Biondi, appoggiato da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia?

Alla fine è successo il meccanismo secondo cui tutti quanti hanno votato contro il PD. Inoltre molti non sono andati a votare perché il secondo turno viene disertato da parecchi elettori, e non si capisce il perché, in quanto è quello decisivo.

Genova, con Marco Bucci, ha un nuovo sindaco di centrodestra. Tutto merito della giunta Toti?

Toti rivendica queste alleanze che privilegiano un rapporto strettissimo con la Lega e con Fratelli d’Italia, ha ottenuto un successo alle regionali e lo ha esportato a comuni come Genova e La Spezia, che è poi la patria del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Sempre Toti pensa di fare lo stesso a livello nazionale, ma così entra in conflitto con Berlusconi, che di quel modello non ne vuole sapere perché metterebbe in discussione la sua leadership. Anche questo è uno degli sviluppi possibili su cui si lavorerà nei prossimi giorni.

Sesto San Giovanni, la cosiddetta Stalingrado del Nord, storica roccaforte comunista, ha perso questa sua vocazione…

Sesto San Giovanni, che era una delle roccaforti del Partito Comunista in Lombardia, è passato di mano ed è andato sotto la guida dei leghisti. Tuttavia questo non è l’unico insuccesso del PD in questa regione: esso ha perso i ballottaggi in tutti e tre i capoluoghi di provincia, Lodi, Monza e Como, in cui si votava, brutto segnale per Renzi, perché l’anno prossimo ci saranno le elezioni del governatore della Lombardia e sembra molto difficile strappare lo scettro a Maroni e alla Lega.

 

MARIA GRAZIA FALÀ