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Laura Gemini: “Utenti Facebook, non più distinti tra online e offline”

 

“Utenti Facebook, non più distinti tra online e offline”

Laura Gemini dell’Uniurb illustra un’indagine qualitativa a più mani sullo stare connessi sul social network più famoso

Laura Gemini

Su Facebook non esiste, come comunemente si crede, un dualismo digitale tra online e offline. Quanto ai contenuti da postare, gli utenti scelgono di solito argomenti “leggeri”, non tristi, quasi sempre politicamente neutri. La friendship, poi, si articola secondo le modalità del “ingiunzione alla connessione” (dover stare connesso), dello stay tuned (stare in contatto con gli altri in qualsiasi momento), del “controllo”, del “silenzio” (svincolarsi da una relazione senza escludere gli altri dalla comunicazione). Infine, lo “stare su Facebook” non viene visto più, come affermava Goffman, come un unico frame, ma come compresenza di frame diversi. Sono queste le principali conclusioni a cui è arrivato il team di lavoro che ha pubblicato per Guerini Scientifica Fenomenologia dei social network. Presenza, relazioni e consumi mediali degli italiani online. Laura Gemini, docente in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Urbino, capofila del progetto, espone le principali linee guida di questa ricerca sullo “stare su Facebook”, ricerca che ha visto condurre 120 interviste in profondità a un campione rappresentativo della popolazione italiana.

Come si articola l’indagine: è una delle prime sul campo che non si rivolge a studenti del proprio corso di laurea o ad adolescenti, ma che analizza un campione rappresentativo di utenti di Facebook?

Giovanni Boccia Artieri

La ricerca che sostanzia le riflessioni contenute nel nostro volume è il frutto di un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale – PRIN – promosso dal Miur, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che ha coinvolto quattro università italiane – noi di Urbino come capofila (con responsabile Giovanni Boccia Artieri), l’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (responsabile Fausto Colombo), l’Università di Bergamo (responsabile Francesca Pasquali, fra gli autori del volume), l’Università della Calabria (responsabile Giovannella Greco) – garantendo un ampio lavoro sul campo. Proprio perché ci interessava indagare le biografie degli utenti abbiamo costruito un insieme di riferimento empirico di 120 interviste rappresentativo della popolazione italiana su Facebook che ha tenuto conto perciò delle variabili di genere, di età e di penetrazione territoriale. Effettivamente questo lavoro rappresenta la prima ricerca qualitativa rivolta ad un gruppo numeroso ed eterogeneo di utenti. Sottolineo la dimensione qualitativa dell’indagine che è stata realizzata attraverso la somministrazione di un’intervista semi-strutturata, dove ricercatore e utente hanno affrontato le tematiche relative alla biografia d’uso di Facebook davanti allo schermo, a partire dal profilo. Tutto questo per dire che 120 interviste molto approfondite qualitativamente possono essere considerate un numero piuttosto elevato di casi anche se non corrispondono ai valori necessariamente superiori di una survey.

Cosa si intende per coalescenza tra mondo online/offline, tra mondo vicino/mondo lontano e tra pubblico/privato?

Coalescenza è il concetto che esprime lo sfumarsi dei confini fra coppie di opposti di origine binaria. Grazie a una parola che rubiamo a Henry Bergson ci permette di osservare una condizione percettiva e conseguentemente un modo di agire delle persone che non si basa sulla netta distinzione fra due termini ma come implicazione reciproca. Lo stato di complessità che in linea generale la società contemporanea sta raggiungendo – nella teoria che fa da sfondo alla nostra ricerca possiamo parlare di società-mondo – rende sempre più difficile osservare le categorie dell’esperienza pubblica e privata, come pure le identità e le relazioni secondo distinzioni nette. Facebook, e le piattaforme di social networking, sono a nostro avviso dei luoghi di osservazione privilegiati di questo processo. Se infatti gli studi sulla cultura digitale hanno dimostrato o postulato il superamento del dualismo digitale, cioè di due ambiti distinti dell’esperienza “dentro” il mondo online e “fuori” nella vita “reale”, i nostri intervistati danno conto di questa continuità sia sul piano della comunicazione, sia nel modo di gestire i propri comportamenti. Il che non vuol dire che non postulino delle differenze, in certi casi anche di valore, fra i due ambiti, ma sta di fatto che a diversi gradi di intensità, a seconda anche dei diversi momenti della propria vita, la quotidianità si spalma e si collega fra offline e online che in questo senso sono coalescenti.

Ne consegue che questa condizione impatti sulle relazioni sociali che sono l’elemento caratterizzante il concetto stesso di social networking. La sociologia ha già ampiamente descritto i mutamenti che riguardano il soggetto moderno e i legami sociali mettendo ad esempio in evidenza come le relazioni impersonali acquistino intensità nelle diverse cerchie cui si partecipa. In questo senso abbiamo usato il concetto di Sé neoliberale per indicare le dinamiche con cui gestiamo i rapporti in rete “investendo” le nostre risorse personali ed espressive in vista di un certo risultato (relazionale e di visibilità ad esempio). Su queste basi Facebook partecipa a un cambiamento di significato del termine amicizia perché come sappiamo all’interno della categoria dei friend possiamo comprendere soggetti molto diversi, che appartengono a cerchie affettive oppure no. Proprio su questo è stato particolarmente interessante vedere come gli intervistati mettono a tema questa questione, come riflettono sul “senso” e anche sull’uso della parola amicizia, chiarendo come il contesto comunicativo della piattaforma permetta di trattare la gamma di relazioni che si hanno operando, di volta in volta, le distinzioni fra quello che si ritiene essere parte del mondo vicino e/o del mondo lontano. In certi casi infatti le relazioni che offline fanno parte del mondo vicino, ad esempio i genitori o il partner, sono meno significative, meno interessanti da alimentare, rispetto a quelle con i colleghi o con persone che si conoscono, o meglio ancora si frequentano, online sulla base di una condivisione di interessi, ad esempio, e con le quali si ha interesse a intensificare lo scambio. Coalescenza in questo caso indica come nella continuità offline/online le reti intessute nel quotidiano, vicine, si intreccino con quelle lontane – riattivate con un like, un commento, un messaggio – ridisegnando i confini dell’intimità e della relazione.

Lo stesso tipo di osservazione si applica al rapporto fra pubblico e privato a cominciare dalla spinosa questione della privacy e della consapevolezza delle proprie azioni in ambienti semi-pubblici come quelli dei Social Network. Qui ci è parso di poter affermare, grazie ai nostri intervistati, come l’essere connessi porti a gestire quotidianamente il rapporto fra vita privata e vita pubblica non (più) tanto come questione legata allo spazio, dove sono i luoghi a definire i due contesti, ma come modalità di gestione della comunicazione, come selezioni comunicative che ognuno di noi compie nei luoghi anche mediali. Ad esempio posso scegliere di postare le mie foto private su Facebook e avere un profilo pubblico per cui le vedono tutti ma posso problematizzare questa possibilità e limitare il grado di pubblicità di questa mia condivisione privata… Questo cosa comporta? In primo luogo il fatto che la condizione sociale – cioè comunicativa – in cui ci troviamo porti al contemporaneo essere pubblico e avere un pubblico: come dire, abbiamo interiorizzato il nostro essere prosumer, produttori e generatori di contenuti che vengono condivisi con e dagli altri. Lo stato di coalescenza fra pubblico e privato richiede perciò un certo grado di riflessività, cioè di applicare l’osservazione su di sé e applicare di volta in volta la distinzione pubblico/privato su ciascuno dei due lati.

Come si struttura il modo in cui gli intervistati concepiscono il produrre/fruire contenuti su Facebook?

Innanzi tutto è bene precisare che nella nostra ricerca l’analisi relativa alla performance del contenuto tiene conto sia delle questioni legate all’universo UGC, cioè della connotazione del web come luogo in cui gli utenti generano contenuti (visuali e testuali), sia della gestione dei contenuti come pratiche identitarie, di espressione del gusto, di visibilità, ecc. che si definiscono attraverso la coalescenza offline/online, mondo vicino/mondo lontano e pubblico/privato. Inoltre si tiene conto della ridefinizione del rapporto con i media per cui i social media, e Facebook in particolare, funzionano come hub in cui confluiscono contenuti istituzionali e generati dagli utenti, mainstream e non, ecc. Ma quello che emerge abbastanza chiaramente dai nostri intervistati è come gli utenti siano soprattutto consumatori di contenuti altrui coerentemente alla condizione di avere ed essere pubblico che caratterizza le piattaforme di social networking. In questo senso i contenuti sono sia gli elementi espressivi e identitari, sia una moneta di scambio relazionale importantissima che si attiva però come reciprocità di sguardi.

Quello che emerge dalla ricerca è la modalità con cui gli intervistati danno conto di una sorta di evoluzione della produzione e nel consumo di contenuti. In questo senso si afferma la centralità della biografia d’uso: chi sta da più tempo su Facebook mostra una certa attenzione rispetto alla produzione di contenuti. Se all’inizio si tende a essere molto attivi, nel tempo Facebook diventa una piattaforma di lettura più che di scrittura: la lettura dello stream e delle bacheche altrui, la condivisione di contenuti e la loro organizzazione prevale sulla produzione in proprio. Inoltre, un numero rilevante di intervistati ha descritto le pratiche e le strategie per nascondere o saltare contenuti e profili che non gli interessano. Naturalmente stare su Facebook implica una seppur minima attività: l’aggiornamento dello status, il like e la condivisione sono infatti le pratiche prevalenti. Quello che poi differenzia i nostri intervistati riguarda il tipo di tema su cui aggiornare lo status, i toni utilizzati, la frequenza dell’aggiornamento che ovviamente cambiano da utente a utente e che riguarda la percezione del proprio pubblico di riferimento e i feedback che si ricevono. Aforismi, ma anche immagini, meme e infografiche sono le tipologie di contenuto più frequenti: brevi, d’effetto e già disponibili e pertanto adatte a “girare”. Si tratta spesso di notizie curiose, di solito fornite dalle pagine online dei soggetti istituzionali (quotidiani ad esempio), che vengono fatte girare per commentare con le proprie reti. Per quanto riguarda invece i contenuti UGC la produzione varia rispetto all’età, prevalentemente, ma può essere interessante mettere in evidenza, anche per smorzare un po’ certe visioni apocalittiche e di senso comune, come molti intervistati tendano a non pubblicare contenuti troppo intimi, sentimentali… troppo privati insomma. Meglio parlare di piccoli accadimenti del quotidiano, un racconto sobrio per il pubblico di amici e contatti. La complessità del fenomeno però è dimostrata anche dal fatto che parallelamente alla tendenza selettiva di molti c’è chi rivendica la possibilità di postare contenuti personali e la rinuncia alla privacy come logica di accesso alla piattaforma.

Così come una certa refrattarietà riguarda i contenuti ritenuti troppo tristi che non si adattano all’uso più ludico e rilassato di Facebook. Chi tende a produrre più contenuti è inoltre attento all’estetica, alla qualità di quello che posta. Alcuni, ad esempio, utilizzano i software per il photo-editing per ottenere una resa semi-professionale, creativa, artistica. Tutto questo per dire che la gestione dei contenuti si basa su una serie di strategie di (auto)controllo che dipende dalla consapevolezza della coveillance, ovvero della “sorveglianza” reciproca. I nostri intervistati, in definitiva, non solo leggono e producono ma riflettono sui contenuti e agiscono di conseguenza. Mi sembra che questo dato depotenzi almeno in parte certe considerazioni di senso comune sul comportamento online delle persone.

La friendship: in quante maniere si articola?

A partire dal mutamento della semantica dell’amicizia e dalla coalescenza fra mondo vicino e mondo lontano, le interviste ci hanno permesso di identificare quattro performance della relazione, ovvero quattro pratiche di gestione dei rapporti sociali che ovviamente non distinguono altrettante categorie di utenti ma i comportamenti che gli utenti attivano e descrivono. Prima di tutto le pratiche di gestione della rete di amici rimandano alla “selezione” ovvero i criteri con cui si includono o meno gli altri, come si gestisce nel tempo la propria rete. Se ad esempio all’inizio domina il processo che abbiamo chiamato d’ingiunzione alla connessione, per cui si tende ad allargare la rete di amici, poi con il tempo si accettano meno richieste, o si eleminano o si negozia, ad esempio con i parenti, la “coazione morale all’accettazione” di un contatto. La seconda performance è quella che definiamo “stay tuned” ovvero l’altro lato della medaglia della selezione. Questa pratica riguarda il “semplice” stare in contatto con gli altri, la possibilità di attivarlo in qualsiasi momento. Una potenzialità che rinforza, paradossalmente, un legame debole. Facebook insomma lavora sul bridging, cioè fa da ponte fra noi e gli altri. Gli intervistati però mettono anche in evidenza come su Facebook siano all’opera anche pratiche di “controllo” (terza performance della relazione). L’intensità delle relazioni e il grado di comunicabilità interna fa sì che la dimensione semi-pubblica dell’ambiente comporti la visibilità di quello che si fa o si dice. Per alcuni il controllo dei famigliari, soprattutto per i più giovani, è uno degli aspetti che caratterizzano la piattaforma che può essere più o meno tollerato. E non va nemmeno trascurato il fatto che gli utenti definiscano se stessi controllori di altri (dei figli, del partner, ecc.). Poi c’è la performance del “silenzio”. Non si tratta solo dei meccanismi di lurking o social searching evidenziati dalla letteratura e che indicano le modalità con cui un utente segue i contenuti degli altri piuttosto che esporsi in prima persona, ma di una pratica che senza escludere gli altri dalla comunicazione si svincola dalla relazione. Questo tipo di pratica riguarda principalmente la gestione online delle relazioni intime offline, nella tendenza a non interagire senza per questo cancellare o non accettare il contatto.

Lo stare su Facebook non viene visto più, come diceva Goffman, come un unico frame, ma come compresenza di frame diversi. In questa situazione mutata si può parlare di cosmesi positiva, di cosmesi negativa, di cosmesi promozionale e di anticosmesi…

In linea con quanto detto fino ad ora la cosmesi riguarda la gestione del proprio profilo. Un’ulteriore dimostrazione della riflessività degli utenti, di una dimensione processuale e dinamica dello stare su Facebook che comporta azioni selettive e significati.

Abbiamo individuato quattro tipi di cosmesi. La “cosmesi positiva”, che è la più diffusa, è una strategia di rappresentazione del Sé che serve a coinvolgere in maniera mirata il proprio pubblico, costruendo una presenza di sé che coincide con l’aspettativa che si nutre nei confronti degli altri e che si lega al carattere relazionale di Facebook. Le pratiche di cosmesi positiva sono dirette ai friend ritenuti più significativi, sia i friend offline (mondo vicino) che si ritrovano online, sia con i diversi sottoinsiemi della propria rete sociale costruita in parte online e in parte offline. Contenuti più privati – ad esempio foto – vengono condivisi e diretti a persone che possono comprendere il significato ma nella consapevolezza di agire in pubblico. La cosmesi positiva è perciò una pratica di cura del profilo che lavora sulle relazioni per avvicinare il profilo alla self-presentation auspicata.

La “cosmesi negativa”, invece, è una performance strategica di self-presentation che ha uno scopo prevalentemente protettivo. La cosmesi negativa comporta l’auto-censura, l’attenzione nell’uso di tag e like, nella cura del profilo che limiti l’auto-esposizione.

Si tratta di “un uso più passivo che attivo, cioè molto attivo nei gruppi ma [meno] sulla mia bacheca”, dicono gli intervistati.

Piuttosto che essere mossa da una preoccupazione per la salvaguardia dei propri dati personali, la cosmesi negativa è una strategia del “ti sveli e non ti sveli” che può nascere dal timore di essere fraintesi. Infatti molti utenti intervistati scelgono di autocensurarsi quando sorge il dubbio che un contenuto possa essere frainteso da un membro della rete amicale.

L’”anticosmesi” è la strategia di presentazione di sé in cui si rinuncia ad attribuire a Facebook un ruolo attivo nella costruzione della propria identità. Dipende da uno scarso investimento simbolico sullo strumento, dalla mancanza di interesse e di tempo da dedicare. In questa performance prevale una sorta di retorica della spontaneità, ad esempio nel postare le foto “senza tanti problemi” che si riflette nel fatto di non essere preoccupati rispetto alle reazioni del proprio pubblico. In questo senso gli utenti considerano il loro profilo “sincero e trasparente”.

La “cosmesi promozionale”, infine, è una strategia di rappresentazione del Sé con un intento prevalentemente validante, che mira cioè a includere in maniera generica il pubblico, dando vita a una propria presenza che poggia sull’aspettativa orientata a un interesse possibile suscitato negli altri: in questo caso gli intervistati pensano, ad esempio, che Facebook serve anche per farsi vedere da quelle persone che non si vedono mai ma su cui si vuole fare colpo! Perciò in questa performance ci sta anche l’autocensura dei contenuti negativi non per sottrarsi alla comunicazione ma per rimuovere gli ostacoli che possono compromettere la propria reputazione.

MARIA GRAZIA FALÀ

Laura Gemini

 

Cristopher Cepernich: “Campagna digitale? Non in Italia, non in queste elezioni”

“Campagna digitale? Non in Italia, non in queste elezioni”

Cristopher Cepernich spiega come neanche stavolta l’interazione interpersonale, vitale alle presidenziali USA, si sia affermata da noi

Cristopher Cepernich

Una campagna, quella digitale, che tiene conto dei leader d’opinione intermediari tra cittadini e leadership politica, e della microtargetizzazione, per cogliere segmenti sempre più specifici dell’elettorato. Al contrario, una strategia elettorale basata sulla televisione, quella delle attuali elezioni. Una modalità di fare comunicazione politica, quella italiana, che anche stavolta non ha tenuto conto dell’interazione interpersonale tipica della campagna digitale che, alle presidenziali di Obama, ha portato a una maggiore affluenza al voto e a una maggiore partecipazione politica. Un modo obsoleto di relazionarsi con l’elettorato anche da parte del Movimento 5 Stelle, che solo negli intenti aveva detto che sarebbe andato casa per casa, ma che ha saputo cogliere bene il clima d’opinione corrente e per questo ha vinto. Così Cristopher Cepernich, direttore dell’Osservatorio sulla Comunicazione Politica e Pubblica all’Università di Torino, nonché docente di Sociologia dei Media e dei Fenomeni Politici, autore di Le campagne elettorali al tempo della networked politics, edito da Laterza, commenta le attuali elezioni.

Qual è la differenza tra campagna online e campagna digitale?

La differenza è sostanziale, nel senso che la campagna online si esaurisce nella dimensione di Internet. Il concetto di campagna digitale invece è molto più ampio: contiene quella online ma non la esaurisce. Per esempio, gran parte della comunicazione politica che durante questa campagna elettorale ha circolato girava sulla messaggistica, cioè su una serie di piattaforme che mettono in relazione una persona con un’altra. Questo mettere in gioco di nuovo la relazione interpersonale, la comunicazione one – to – one, spiega cosa sia la comunicazione digitale. Essa è la comunicazione di tipo relazionale che si determina sulla base delle nuove tecnologie e di Internet nella sua ultima versione.

In essa rientra anche il cosiddetto microtargeting, che è quella funzione della comunicazione che oggi i social network mettono a disposizione per mirare molto meglio di un tempo il messaggio dal politico all’elettore. La microtargetizzazione può essere un modo per tarare meglio il messaggio sugli interessi specifici di ogni singolo elettore, per bucare quel muro di disattenzione che caratterizza la comunicazione politica di questi tempi. Essa infatti è satura.

Sara Bentivegna oggi a Rainews24 ha detto che la comunicazione politica di queste elezioni è avvenuta principalmente sulla TV. Lei è d’accordo?

Assolutamente sì, questa è stata una campagna elettorale fortemente costruita intorno alla televisione, e ciò era prevedibile. È stata infatti effettuata senza soldi, senza grandi investimenti da parte dei partiti, e quindi come soluzione si è scelto di saturare gli spazi TV. Allora i talk show sono diventati il luogo della presentazione del programma e dei messaggi elettorali. In ogni caso, poi, oggi quando si parla di televisione non la si può immaginare slegata dal web e dai media digitali. Attualmente, diversamente dal passato, la TV e il politico in TV vivono anche di second screen. Quindi se uno spettatore la guarda, è probabile che guardi anche i tweet e le interazioni su Facebook del candidato, che usa anche i social e Internet.

Quando comincia a riaffermarsi, da parte dei partiti italiani, la consapevolezza di quanto sia importante il paradigma del two step flow of communication di Katz e Lazarsfeld (1955) nella strutturazione delle campagne elettorali?

A differenza degli Stati Uniti e di alcune esperienze europee, in Italia la cosa non si è compresa. Il problema della comunicazione interpersonale è legato alla comprensione corretta di cos’è una campagna digitale, solo che i politici italiani non l’hanno capita per le ragioni dette prima. Essi immaginano di usare il web come fosse la TV e non cercando di coltivare la relazione con l’elettore. Seguendo i twitter e le interazioni su Facebook dei candidati, scopriamo infatti che questi erano più funzionali alle rappresentazioni televisive del leader che non invece a una vera e propria relazione con i possibili elettori. Ciò significa che la lezione delle campagne di Obama del 2008 e del 20012, e poi anche quelle successive come le presidenziali del 2016 tra Trump e la Clinton, che puntavano sulla relazione interpersonale, non è passata per niente.

Inoltre, ciò che differenzia le campagne elettorali USA da quelle italiane, e che rendono difficile fare interazione face – to – face, è la temporalità. Noi abbiamo una campagna elettorale molto corta: in un mese è difficile costruire relazioni che non si sono coltivate per cinque anni di governo e di opposizione. Invece, si può sfruttare bene la potenzialità del digitale, e quindi le relazioni interpersonali, se si tiene conto che la comunicazione politica non può avere una temporalità così contenuta e che si deve continuare a stare in contatto con il cittadino anche dopo che la campagna è finita.

Perché in Italia, a differenza degli Stati Uniti, nel campo della comunicazione politica ricerca accademica e ricerca sul campo non sono andate, tranne qualche caso, d’accordo?

Tendenzialmente la politica italiana, per quanto riguarda la comunicazione, ha sempre cercato di evitare le innovazioni. Si è fatto fatica negli anni Novanta a immaginare che essa andava verso il marketing elettorale, ad immaginare che il web ha caratteristiche che possono essere sfruttate meglio. Inoltre, probabilmente le innovazioni che vengono dalla ricerca implicano anche che il politico ceda un po’ del suo potere decisionale, e che faccia fatica a cederlo.

Qual è stato, secondo lei, il partito o la coalizione che in queste elezioni ha fatto più uso della comunicazione interpersonale, online e offline?

Se ne è fatto pochissimo uso: è stata propagandata, questo sì. Il Movimento 5 Stelle con Roberto Fico all’inizio ha fatto un lancio sul suo Facebook in cui diceva che avrebbe fatto la campagna elettorale dei condomini, andando casa per casa, Renzi ha detto la stessa cosa sulla sua newsletter e in alcune comparsate TV. In realtà sia nell’uno che nell’altro caso si è trattato più di retoriche che non di un reale impianto di campagna elettorale.

Qual è stato il fattore o i fattori decisivi per la vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle? Crede che la qualità dei contenuti abbia contato, oltre ad un buon (se c’è stato) ground game?

Il ground game, come già detto, non è stato effettuato. È difficile e anche metodologicamente scorretto immaginare che ci siano un mezzo, una strategia che abbiano determinato l’esito di una buona campagna elettorale, in quanto le condizioni sono sempre molte e diverse. Probabilmente in questo caso come in altri contesti è contato molto il clima d’opinione generale nel quale la comunicazione politica è stata prodotta. C’è stata una grossa polarizzazione emotiva intorno ad alcuni temi particolarmente mobilitanti. Penso al ritorno della dimensione fascismo – antifascismo, a tutta la questione legata a Macerata e quindi al razzismo. Tutta questa emozionalità che ha permeato la campagna elettorale ha forse favorito un certo tipo di retorica: penso a quella di Salvini, a quella del Movimento 5 Stelle che puntavano sulla mobilitazione cognitiva di alcuni settori specifici di pubblico intorno ai temi della paura, dell’ansia.

Lei nel suo libro ha parlato della qualità dei contenuti che si veicolano in una campagna elettorale, nel senso che nessuna buona campagna può funzionare senza contenuti dietro.

Faccio fatica a rispondere sulla qualità dei contenuti perché implica un giudizio di valore. Posso dire invece che buona qualità dei contenuti significa dire qualcosa che ha una presa effettiva per i cittadini che votano, entrando in sintonia con i temi nella loro agenda. Se ciò si può chiamare qualità dei contenuti, il Movimento 5 Stelle è stato il partito più capace di colpire il suo settore di riferimento.

Per quanto riguarda il PD, per qualità dei contenuti, mi riferisco al fatto che, nei suoi quattro anni di governo, ha fallito con i giovani, non ha valorizzato la ricerca scientifica, la scuola e ha mostrato, a detta di molti, una scarsa incisività nei confronti dei migranti…

Sì, però quando si governa, rivincere le elezioni o comunque andare bene a quelle successive, è una cosa sempre difficile. In Italia, dalla Seconda Repubblica in avanti, ogni governo che va alle elezione perde. Quindi, il problema forse non è legato a Renzi o al PD, ma a un dato strutturale. Quando si governa in periodi così complicati come il nostro il governo in carica perde sempre. Evidentemente la percezione che i cittadini hanno di ciò che sta capitando è sempre molto distante da quella che ne danno i politici. Anche se raccontano i loro successi oggettivi, come le rilevazioni dell’ISTAT sul lavoro, sul PIL, ecc., se la percezione del cittadino è quella di una quotidianità sofferta e quindi distante da quella rappresentazione, tutto è inutile.

Forse Renzi si è fatto sfuggire la vittoria, oltre al fatto di non essersi dimostrato in sintonia con gli elettori, anche per una eccessiva personalizzazione della sua figura…

Oggettivamente Renzi è una figura che personalizza, ma anche questo è un dato di struttura: anche Berlusconi rappresenta Forza Italia, Grillo, Di Maio e Fico il Movimento 5 Stelle, così come Salvini è la Lega. La personalizzazione è qualcosa che tutti i leader hanno fatto: il fatto è che ci sono leader più empatici e leader meno empatici, e probabilmente Renzi non lo è molto, e questo può essere un problema, non la personalizzazione in sé.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

Elisa Mandelli: “Immagini in movimento, musei tra storia e memoria”

“Immagini in movimento, musei tra storia e memoria”

Elisa Mandelli in “Esporre la memoria” illustra il testo audiovisivo nelle istituzioni museali contemporanee

Elisa Mandelli

Un settore ancora quasi inesplorato, quello delle immagini in movimento nelle istituzioni museali. Una tipologia, quella dei testi audiovisivi nei musei, che prende campo soprattutto in quelli di storia contemporanea, dove non c’è più l’oggetto al centro, ma il farsi stesso della memoria e l’atto della sua trasmissione al visitatore. Inoltre, in questo tipo di istituzioni, emozione come elemento focale dell’esperienza del visitatore, coinvolto non più solo dal punto di vista cognitivo.

Infine, un museo, il Laboratorio della Mente di Roma, che racchiude in sintesi tutti gli aspetti di queste nuove tipologie. Sono questi i tratti salienti di cui parla Elisa Mandelli, assegnista di ricerca presso la Link Campus University (Roma), nel suo recente Esporre la memoria. Le immagini in movimento nel museo contemporaneo, edito da Forum.

Quanto c’è di nuovo da parte degli studiosi in un campo, quello delle immagini in movimento in un museo, che è interdisciplinare?

Nell’ambito dei film e media studies quando si parla di immagini in movimento nel museo la prima cosa oggetto d’interesse degli studiosi consiste in tutte quelle forme di utilizzo di queste che hanno a che fare con le videoinstallazioni, con l’arte contemporanea. Invece per quanto riguarda l’immagine in movimento in un contesto non necessariamente artistico ma in alcuni casi anche strumentale, c’è pochissimo. Come si sono studiati oggetti quali schermi urbani, o la penetrazione delle immagini in movimento in vari contesti della vita quotidiana, così invece il museo è stato dimenticato. Nel campo degli studi museologici, invece, c’è un crescente interesse per l’utilizzo non solo delle immagini in movimento, ma anche in generale dei dispositivi mediali all’interno del museo, perché la pratica curatoriale, museografica va sempre più verso quella direzione, e dunque anche le riflessioni accademiche si tengono al passo. C’è tanto di nuovo nella pratica, qualcosa di nuovo nella riflessione teorica, ma c’è ancora molto da fare.

Il suo libro prende in esame in particolare musei di storia contemporanea, ma soprattutto si rivolge a quelli che “mettono in scena” la memoria. È così?

Sì. Il “mettere in scena” ha a che fare con la dimensione performativa che permea molti musei di storia contemporanea, dove non c’è più l’oggetto, il reperto al centro, ma il farsi stesso della memoria e l’atto della sua trasmissione al visitatore. Non a caso uno degli elementi più ricorrenti dei musei storici contemporanei è la videotestimonianza, che va a incarnare questa duplice dimensione: da una parte la memoria stessa nell’atto del suo elaborarsi, la sua messa in discorso, e dall’altra parte l’idea della trasmissione e quindi la necessità della presenza di un destinatario che raccolga ciò che viene raccontato. Per questo la messa in scena della memoria diventa centrale in moltissimi musei contemporanei, dove non c’è più un oggetto che viene lasciato parlare per se stesso o accompagnato da un cartellino che ne dettaglia l’oggettività, ma un discorso più complesso e anche più vivo.

Quanto si distaccano musei come quelli che lei cita da “classici” come i Musei Capitolini che non usano praticamente mai immagini in movimento?

E’ sempre difficile fare un discorso che opponga musei che usano immagini in movimento e quelli che non le usano, perché si tratta di musei molto diversi, che si occupano di periodi storici molto diversi, e che hanno progetti museografici alle spalle molto diversi. In casi come questi rientrano questioni economiche, questioni, mi verrebbe da dire, ideologiche, meglio, di approccio curatoriale. Ci sono infatti curatori che ritengono che un approccio in direzione dell’uso delle immagini in movimento snaturi l’importanza dell’oggetto. Questo è uno dei dibattiti centrali ancora oggi: secondo alcuni l’utilizzo di queste indebolisce il primato dell’oggetto che nel museo dovrebbe stare al centro. Ci sono comunque dei musei di storia antica che fanno un grandissimo uso di video come il Museo di Ercolano, interamente virtuale, in cui la dimensione del reperto, della storia, si sposa con le nuove tecnologie.

Lei cita quattro forme di testualità audiovisiva negli allestimenti museali (Immagini di repertorio, documentari, docufiction e videotestimonianze). Ce ne potrebbe parlare?

Quello che ho fatto è stato un tentativo di sistematizzare le forme più ricorrenti di testi audiovisivi che si trovano nei musei, anche se ogni sistematizzazione schematizza dei fenomeni che sono molto più complessi. L’idea è che ci siano queste quattro tipologie. Ci sono i materiali di repertorio, film storici in quanto tali, esposti quasi alla stregua di oggetti, immagini che portano con sé un valore di testimonianza storica, per molti versi, quasi oggettiva, anche se poi l’uso che ne viene fatto non è sempre così trasparente. L’altra forma è quella del documentario, intesa nel suo senso più classico, che prolunga il discorso museale, articolandolo in uno nuovo: si basa sull’utilizzo di materiali di repertorio, di interviste ad esperti e di altri materiali audiovisivi, e fa da continuazione alla proposta di senso che il museo avanza. La docufiction (o ricostruzione finzionale), invece, è una delle forme sempre più presente nei musei, che testimonia come la realtà, l’oggettività si mescolino alla finzione in virtù di un’esigenza di maggior comunicatività, di intelligibilità. Il museo che dovrebbe essere il depositario dell’oggettività, dell’autenticità, si presta a creare delle finzioni per andare incontro al destinatario. Infine le videotestimonianze, come dicevo prima, sono sempre più pervasive, a partire da quelle dei sopravvissuti all’Olocausto, che sono quelle che hanno inaugurato il genere.

Lei ha suddiviso il suo libro in quattro parti, rifacendosi a quattro tipi di istallazioni mobili: una sui testimoni, una sul percorso del visitatore all’interno dello spazio museale, un’altra ancora sulla presenza di veri e propri film entro il museo, infine l’ultima sul tatto (tavoli interattivi). Queste tipologie si autoescludono?

Decisamente no. Come nel caso delle quattro tipologie delle testualità audiovisive esaminate sopra, si tratta di una separazione che ha scopo operativo, descrittivo. Invece queste quattro sono forme copresenti che si intrecciano tra loro e che sottendono una tendenza comune sempre più pervasiva nei musei contemporanei, cioè la spettralizzazione, leitmotiv nel mio libro. Infatti in base alle mie ricerche essa è emersa anche come leitmotiv dei musei contemporanei, dove si ha la tendenza a presentare delle figure in qualche modo spettrali, evanescenti. È qualcosa che si lega all’idea della performatività, quindi della messa in scena della memoria, in cui le figure degli spettri incarnano il riemergere del passato, sono come dei testimoni che ritornano a parlare direttamente allo spettatore creando una sorta di autenticità esperienziale.

Mi potrebbe fare l’esempio di un museo particolarmente significativo che riflette più di ogni altro il concetto dell’immagine in movimento?

Uno dei miei preferiti e che mi sembra che recepisca di più molte delle istanze che percorrono la museologia contemporanea è il Laboratorio della Mente di Roma, che è un museo realizzato da Studio Azzurro, uno studio milanese che si occupa sia di istallazioni di tipo artistico che di allestimenti museali. Esso è istallato all’interno di un ospedale psichiatrico e racconta la storia degli internati all’interno di quel luogo. Si basa completamente su immagini in movimento, che sono in molti casi figure spettrali di questi internati che ritornano a comunicare con il visitatore. Il visitatore, tramite queste, è condotto ad esperire i vari stadi della follia, come se davvero gli internati di un tempo lo guidassero a riscoprire la loro condizione esistenziale.

Una visita dunque che coglie anche l’aspetto emotivo, cosa che con le strutture museali “classiche” non succedeva…

Tramite proiezioni, touch screen, tavoli interattivi, istallazioni interattive, qui l’immagine in movimento guida attraverso un percorso fortemente connotato in senso esperienziale, che coinvolge il visitatore non solo a livello cognitivo, ma anche emotivo.

Oltre all’esempio ora citato, l’immagine in movimento oggi nel museo si collega sempre più a una tendenza più ampia, quella della creazione di un’esperienza, e da lì la sua centralità.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

Daniela Cardini: “TV degli anni Duemila: Grande serialità e tele – cinefilia”

“TV degli anni Duemila: Grande serialità e tele – cinefilia”

Daniela Cardini in “Long TV” spiega la fiction post – 2010 e il modello Netflix

Daniela Cardini

Una serialità che parte da quella cinematografica dei primi anni del Novecento. Un anno, il 2010, che può essere considerato lo spartiacque della serialità contemporanea. Inoltre, parole – chiave come quality TV, ormai un po’ desueta, a fronte di concetti più cogenti come complex TV. Poi, un neologismo, tele – cinefilo, un termine come ecosistema narrativo, e la dimensione produttiva come nuova frontiera dei Television Studies. Infine, il modello Netflix che ha rivoluzionato con i suoi investimenti e con le sue nuove modalità di offerta la fruizione televisiva, favorendo il binge watching ma anche la visione tantrica. Sono questi i punti tracciati da Daniela Cardini, docente di Teorie e tecniche del linguaggio televisivo presso l’Università IULM di Milano, nel suo recente Long TV. Le serie televisive viste da vicino, edito da poco per Unicopli.

La serialità, come ha detto Monica Dall’Asta, non nasce con la televisione, ma ha dei prodromi già nel cinema delle origini…

È risaputo che la serialità non è nata con la TV e nemmeno con il cinema, ma che ha una sua radice nella letteratura e nel feuilleton ottocentesco in Francia, con tante forme legate alla serializzazione del prodotto culturale che in quel periodo si sviluppava industrialmente. Il cinema ha attraversato una fase seriale al suo inizio. Essa ha diverse motivazioni: uno degli aspetti più interessanti è il fatto che la serialità si sviluppasse attorno a un personaggio o a un attore piuttosto che attorno a un tema, con una serializzazione di tipo quasi divistico: se certi generi si impongono come le comiche o il western è anche perché intorno a un personaggio si sviluppa un’attesa di ripetizione delle storie ad esso legate.

Perché il 2010 può essere considerato come lo spartiacque della serialità contemporanea?

Nel 2010 mi è sembrato che si coagulassero varie occorrenze. È l’anno di chiusura di Lost e, dal punto di vista della serialità, esso è stato forse il prodotto più interessante dall’inizio del millennio perché ha cambiato le regole del gioco, e la fine di Lost nel 2010 ha fatto sì che si sperimentasse nei fan della serie un senso di perdita, di elaborazione di un lutto, cosa che fino a quel momento nella serialità non era mai stato avvertito in maniera così forte. In quel periodo ci sono molti prodotti che debuttano. In pochissimi anni, dal 2010 al 2015, prendono corpo i titoli più forti dell’ultimo periodo, da Game of Thrones a True Detective, Mad Man è alla sua terza stagione, c’è un’esplosione di quella che è denominabile come Grande Serialità.

Lei ha distinto tre grandi Golde Age della serialità televisiva. Non è d’accordo con Jason Mittell quando diceva che non si può dire propriamente così, dato che vi sono fiumi carsici che scompaiono e poi riemergono?

Tutte le periodizzazioni hanno dei limiti, ma quello che mi sembra importante è che in tre fasi precise, più o meno riconoscibili nella storia della TV occidentale, la serialità ha assunto forme e formati diversi. È quindi vero che ci sono delle riprese e delle interruzioni, ma è altrettanto vero che esistono delle omogeneità e il discorso sulla serialità che si può far risalire agli ultimi sei – sette anni si è precisato in maniera del tutto diversa da quanto accaduto negli anni precedenti. L’interesse verso la serialità ha assunto forme e anche un impatto, e non solo sulla riflessione accademica, che fino a quel momento non aveva.

Potrebbe definire parole – chiave utili per tratteggiare la Grande Serialità come quality TV e complex TV?

Quality TV è un vecchio cavallo di battaglia dei Television Studies e non solo, e fortunatamente negli ultimi anni è stato un po’ accantonato, perché è un concetto molto riduttivo che presuppone che esista una TV cattiva e una TV buona, che vi sia un modo giusto e uno sbagliato di produrre contenuti televisivi e non solo, perché ci sono anche film e romanzi di qualità: si tratta di intendersi su cosa si voglia dire con questo termine. Quality TV è un’espressione che non amo molto, preferisco parlare di complessità, e in questo sono abbastanza d’accordo con Mittell che ha coniato questo termine, dove complessità risponde molto meglio alla fisionomia della serialità contemporanea pur non aderendo completamente alla fisionomia della nuova serialità. Si può parlare di complessità dal punto di vista produttivo, narrativo, delle qualità estetiche, e anche di una complessità di fruizione, perché ci sono modi diversi di approcciarsi alla serialità. Quindi, forse più che complessità, viene da parlare di differenziazione, di densità.

Lei ha poi coniato il termine tele – cinefilia…

Tele – cinefilia è un termine a cui sono affezionata, che mi è venuto in mente perché individua secondo me una categoria non solo di spettatore, ma anche di studioso che si è precisata negli ultimi anni in concomitanza con la nascita, come dicevo prima, di questa nuova ondata di prodotti seriali complessi o densi. Il tele – cinefilo è una specie di archetipo, è uno che si avvicina alla serialità cercando di togliere tutte le componenti televisive, proprio perché la TV viene considerata a un livello meno prestigioso rispetto al cinema. Il tele – cinefilo si avvicina alla serialità come si avvicina a certo cinema “di qualità”, se vogliamo usare questo termine un po’ desueto. La serialità attuale è più complessa del film e della TV, ma assorbe entrambi i campi, li rielabora, facendone uscire qualcosa di completamente diverso da quanto visto fino ad oggi. Non si può quindi parlare né di un lungo film, né di serialità spiccatamente televisiva rispetto a certi prodotti contemporanei, però allo stesso tempo è corretto non dimenticare che, anche se il discorso seriale è nato pure nel cinema, nella TV ha trovato per anni, decenni, il suo luogo d’elezione per le caratteristiche tipiche del mezzo. In questo senso ho pensato che esiste un tele – cinefilo per quanto riguarda la grande serialità, perché come essa mette insieme cinema e TV, anche il tele – cinefilo unisce atteggiamenti di fruizione tipici di chi guarda la TV e di chi si rapporta al prodotto film, all’unicità dell’opera.

Cosa dire, infine, dell’ecosistema narrativo?

Quanto all’ecosistema narrativo, che non è un concetto mio, si pensa al prodotto seriale come a un qualcosa di non finito, ma che appartiene a un ecosistema, soggetto alle stesse tensioni e alle stesse spinte di trasformazione che riguardano gli ecosistemi naturali.

Quanto conta la dimensione produttiva nella creazione delle serie TV? E quanto fino ad oggi è stata sottovalutata?

La grande serialità contemporanea deve moltissimo a investimenti produttivi ingenti. La dimensione produttiva è stata sottovalutata non tanto dal punto di vista tecnico – professionistico, ma dal punto di vista teorico (in America recentemente ne ha parlato Amanda D. Lotz ma ancor prima David Hesmondalgh). I production studies secondo lo studio della TV e del cinema sono sempre stati abbastanza marginali, e a torto, perché l’aspetto produttivo è un aspetto, mi scusi il gioco di parole, estremamente produttivo. La complessità di cui si parlava prima è sicuramente funzione di una complessità produttiva. Essa significa che devono essere rispettati i cosiddetti production values, i valori produttivi che rendono possibile il raggiungimento di un elevato livello qualitativo in una serie. Se Netflix non avesse la possibilità di investire dei budget estremamente consistenti, la qualità dei suoi prodotti sicuramente ne risentirebbe. Questo non significa che a elevati budget corrisponda sempre un buon prodotto o un prodotto di successo: ci sono tantissimi esempi di flop, pensiamo a Vynil, o a serie musicali come ad es The Get Down, che non hanno funzionato a fronte di grandissime risorse economiche investite.

Cosa si intende, dunque, per production values, e qual è la situazione italiana degli studi in questo settore?

Production values vuol dire riuscire a ottenere con i mezzi a disposizione il miglior risultato possibile. Questo può essere vero anche per una soap opera, però si tratta di capire se le routine produttive sortiscono l’effetto desiderato. Bisogna studiarli, i production values, molto di più, occorre capire meglio come funziona la serialità da un punto di vista produttivo, perché è un ambito relativamente poco esplorato, soprattutto dalla nostra accademia, dove il testo e il pubblico sono stati i nuclei principali di studio.

Quanto conta l’ingresso del modello Netflix?

Esso ha cambiato completamente le carte in tavola per quanto riguarda non solo gli investimenti, ma anche le modalità di fruizione e di messa in forma del prodotto seriale. Questo significa che Netflix ha promosso la possibilità di fruire di un’unica stagione in un’unica soluzione, quindi favorendo la pratica del binge watching, trattando la serialità come un blocco unico, non producendo più puntata per puntata ma tutta la stagione nella sua totalità. Ciò vuol dire rovesciare la logica del pilot: sulla base del successo del pilot nell’epoca precedente la puntata pilota aveva una funzione economica molto precisa. Essa ancora funziona nei network, ancora esiste, però comperare una puntata pilota, vedere come va e poi produrre una serie è molto diverso dal comprare una serie tutta intera o dal mandarla in onda (release) in questo modo. Netflix quindi ha davvero cambiato le regole del gioco proponendo una formula narrativa e produttiva completamente nuova, che ha cambiato le abitudini di fruizione. Allo stesso tempo però non ha promosso solo il binge watching, ma anche, grazie a certi suoi prodotti di livello altissimo come The Crown, un’opposta modalità di fruizione, detta tantrica. Una serie cioè la voglio vedere un po’ alla volta, la voglio tenere lì perché me la voglio guardare assaporandola, perché lo merita, e questo è lo stesso Netflix che lo fa, proponendo tutta la serie in una volta. Avendola sempre a disposizione è come comprarsi un romanzo, lo si mette nello scaffale e si decide se leggerlo tutto in una notte oppure se assaporarlo in un mese, o andare avanti e indietro.

Questo naturalmente vale anche per la situazione italiana, perché Netflix è un modello trasversale.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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D’Aloia e Eugeni: “Cinema? Sì, ma con la filosofia, le neuroscienze e la mediologia”

“Cinema? Sì, ma con la filosofia, le neuroscienze e la mediologia”

D’Aloia e Eugeni parlano di “Teorie del cinema”, antologia da loro curata per Raffaello Cortina Editore

Ruggero Eugeni

Un’antologia che nasce dalla percezione di colmare un vuoto culturale, e che quindi vuole offrire un quadro aggiornato della teoria del cinema degli ultimi quindici anni circa. Una pubblicazione che fa da contraltare al numero monografico di “Cinema & Cie”, del 2014, che si occupa innanzitutto del rapporto tra cinema e neuroscienze, mentre questa contiene saggi dedicati a film e filosofia, film e neuroscienze, film e mediologia. Inoltre, tre concetti chiave da prendere a paradigma delle tre diverse sezioni del testo: senso dell’esperienza della visione del film; cervello dello spettatore e il suo rapporto con il corpo e la mente; idea di “dispositivo”. Infine, una disciplina sorta da poco, l’archeologia dei media, che “passa” attraverso la pratica storica per delineare una storia dei media non finalistica, ma che, dei media, prevede riscoperte, fiumi carsici che riaffiorano. Di questo parlano Adriano D’Aloia, ricercatore all’Università Telematica Internazionale UniNettuno, e Ruggero Eugeni, professore di Semiotica dei media alla Cattolica di Milano, presentando Teorie del cinema. Il dibattito contemporaneo, antologia edita di recente da Raffaello Cortina Editore e da loro curata.

Come nasce questo libro, e come si pone rispetto al numero monografico di Cinema & Cie” del 2014, sempre da voi curato e destinato al rapporto tra cinema e neuroscienze?

Eugeni: L’antologia nasce dalla percezione di un vuoto culturale: mancava in Italia un quadro aggiornato della teoria del cinema degli ultimi quindici anni circa. E questo a fronte di una perenne vitalità del cinema, dei media audiovisivi, nonché dei discorsi critici e perfino filosofici che i film e le serie televisive sollecitano. Volevamo ridare visibilità al discorso teorico sul cinema e gli audiovisivi, che consideriamo vivo e necessario.

D’Aloia: il numero di Cinema et Cie sulla Neurofilmologia si connette immediatamente alla sezione centrale del volume sulle teorie

Adriano D’Aloia

contemporanee, dedicata alla relazione tra teoria e scienze sperimentali. Tuttavia molto di quanto dicevamo è connesso alla sezione dedicata al rapporti tra cinema e filosofia (penso ai saggi di Vivian Sobchack e di Raymond Bellour) e anche alla terza sezione, dedicata al rapporto tra il cinema e i media.

Quali parole – chiave prendereste a paradigma delle tre diverse sezioni del testo?

Eugeni: L’idea di fondo della nostra antologia è che la teoria del cinema oggi esiste come pratica interstiziale, di dialogo con altre discipline: la filosofia, le neuroscienze, la mediologia. Ognuno dei tre fronti del dialogo ha visto calamitarsi gli interventi intorno ad alcuni concetti chiave: per la filosofia il senso dell’esperienza della visione del film; per le neuroscienze il cervello dello spettatore e il suo rapporto con il corpo e la mente; per la mediologia l’idea di “dispositivo” – un concetto oggi al centro di numerosi dibattiti e riflessioni: è appena uscita per l’editore La Scuola la prima traduzione italiana degli scritti dedicati al concetto da Jean-Louis Baudry, che ben si collega alla terza sezione del nostro volume.

D’Aloia: Questo non vuol dire una separazione tra i tre settori: la teoria non solo dialoga con, ma fa dialogare reciprocamente le discipline variamente interessate al cinema. In generale negli ultimi anni abbiamo assistito a un forte interesse per l’esperienza vivente e vissuta del cinema, con tutti gli aspetti emozionali e corporei che esso implica. Un secondo fuoco di interessi è stato il rapporto tra cinema e ambienti mediali complessi: il cinema dimostra la sua vitalità rilocandosi in spazi imprevedibili, dai megaschermi urbani ai telefonini.

Archeologia e storia dei media: qual è la differenza, e perché solo oggi nasce tale disciplina? E che dire, allora, di manuali come quello di Denis McQuail o, per restare in ambito italiano, del prematuramente scomparso Mauro Wolf?

Eugeni: Quelli di McQuail e di Wolf sono libri che parlano di teorie “classiche” dei media, invece nel caso dell’archeologia dei media parliamo di una teoria di nuova generazione, che “pensa” attraverso la pratica storica – secondo la lezione di Michel Foucault cui si deve il termine “archeologia” nell’accezione di questa disciplina.

D’Aloia: L’idea degli archeologi dei media, e questo lo dice bene il saggio di Erkki Huhtamo e di Jussi Parrikka, è che il modo tradizionale di fare storia è finalistico, come se la storia dei media soggiacesse a uno sviluppo prefissato. Invece per gli archeologi dei media esistono tantissime piste interrotte, invenzioni che non hanno avuto sviluppo, e quindi tante storie dei media oscure, nascoste, che vanno riscoperte. Non a caso alcuni di questi studiosi sono anche collezionisti di vecchi apparecchi che non sono poi stati sviluppati.

Perché si parla proprio oggi di archeologia dei media?

Eugeni: Perché oggi i media non esistono più: nel momento in cui essi vengono in qualche modo riprodotti e simulati a partire dal digitale, allora si può cominciare a guardare ad essi con un distacco prima impossibile. Si comincia quindi a fare un’archeologia che è metastoria e che chiede un doppio grado di distacco rispetto ai media.

MARIA GRAZIA FALÀ

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Anna Sfardini: “TV dell’abbondanza, TV anytime, anywhere”

“TV dell’abbondanza, TV anytime, anywhere”

Anna Sfardini illustra un manuale scritto da accademici e da esperti edito da Carocci

Anna Sfardini

Uno sguardo multidisciplinare per leggere un medium, la televisione, che si fa sempre più articolato e complesso con la cosiddetta età dell’abbondanza. Una convergenza dei media, cioè un cambiamento che investe l’intero settore televisivo, attraverso l’ibridazione tra vecchi e nuovi media e tra vecchia TV e nuovi televisori (smartphone, tablet, PC, ecc.). Ancora, generi televisivi fluidi, ma anche in continuità con il passato, in relazione sia con i contesti di fruizione che di produzione. Poi, un’audience diversificata, complesso oggetto d’analisi che non può tener conto solo di metodi quantitativi come l’Auditel, ma anche di quelli qualitativi che studino le nuove pratiche di fruizione sempre più personalizzate e social. Infine, le OTT (Over – the Top), come Netflix, che permettono una visione non lineare, cosa che consente modalità di visione mai sperimentate prima (se non con le pay TV) come il binge watching delle serie televisive. È quanto emerge dalla recente miscellanea edita da Carocci La televisione. Modelli teorici e percorsi di analisi, a cura di Massimo Scaglioni, Professore Associato di Storia e Economia dei Media alla Cattolica di Milano e Anna Sfardini, docente di Comunicazione interculturale sempre alla Cattolica di Milano. Un testo, tiene a precisare Sfardini, che nasce dalla collaborazione tra la ricerca accademica e “chi fa” televisione, nell’ambito del master del CeRTA “Fare tv. Gestione, Sviluppo, Comunicazione.”

Un libro, La televisione, che raccoglie contributi dall’accademia e da professionisti della media industry. Come si coniugano questi due aspetti?

Lo studio e l’analisi della televisione richiedono oggi uno sguardo multidisciplinare, cioè capace di leggere le diverse dimensioni di questo mezzo e il suo complesso circuito culturale composto da diversi aspetti e quindi altrettanti oggetti di studio: produzione, distribuzione, circolazione, testualità, ricezione. Non si tratta solo di mettere assieme i diversi approcci dei Television studies maturati nella riflessione accademica, ma di raccogliere i saperi e le esperienze del mondo dei professionisti che lavorano nei diversi comparti dell’industria del broadcasting e quotidianamente hanno a che fare con il mezzo televisivo e partecipano al suo cambiamento.  Questo libro esprime la volontà di creare un terreno di confronto e scambio di saperi tra accademici e professionisti, già praticato e maturato da diversi anni grazie all’esperienza di ricerca accademica portata avanti da ormai più di dieci anni dal Centro di ricerca sulla televisione e gli audiovisivi (CeRTA) dell’Università Cattolica di Milano e in particolare dal suo Master “Fare tv. Gestione, Sviluppo, Comunicazione”, con la sua squadra di docenti universitari e professionisti del settore televisivo che ormai già da sette edizioni forma giovani talenti che desiderano lavorare nella macchina televisiva, che sappiamo essere un ambito fortemente ambito e molto competitivo. Questo libro è anche un po’ il “manuale” del nostro master.

La televisione, un mezzo di comunicazione che richiede, oggi più che mai, un approccio multidisciplinare. È vero soprattutto, come ha detto Massimo Scaglioni in un saggio contenuto nel testo, per la TV dell’abbondanza?

La fase attuale delle televisione descrive un’epoca, detta appunto età dell’abbondanza, molto complessa in quanto caratterizzata da un’ampia serie di trasformazioni importanti e, insieme, da tanti elementi di continuità che segnalano la forza di questo mezzo “tradizionale”. L’approccio multidisciplinare nello studio della TV si rende necessario perché diversi sono gli aspetti da tenere in considerazione per comprendere la portata e le conseguenze di questa fase dell’abbondanza caratterizzata dalla cosiddetta “convergenza dei media”. Si tratta di un cambiamento che investe l’intero ambiente televisivo, con l’ibridazione e rimediazione fra vecchi e nuovi media, e tra vecchia tv e nuovi televisori, che riguarda vari soggetti, dai grandi gruppi editoriali multinazionali trasversali ai media alle istituzioni nazionali, dai broadcaster ai pubblici, e che segna un’evoluzione globale dei mercati e dei linguaggi mediali. L’ambiente mediale contemporaneo per essere compreso richiede un approccio di analisi multidisciplinare per restituire le complesse relazioni, di natura tecnologica, economica, estetico-culturale e sociale che attraversano il fenomeno televisivo.

Come si declinano i generi televisivi nello scenario attuale?

I generi televisivi confermano in primo luogo che oltre ai cambiamenti apportati da fenomeni di vasta portata come digitalizzazione, convergenza, globalizzazione, la televisione è fatta anche di elementi di continuità. Infatti la funzione del genere televisivo rimane cruciale tanto dal punto di vista teorico quanto sul piano operativo del “fare televisione”. Oggi i generi sono analizzati prestando pari attenzione sia ai  contesti di produzione in cui vengono impiegati come “etichette” secondo precise convenzioni formalizzate nel mondo industry, sia ai contesti  di fruizione, dove è l’esperienza mediale del pubblico a valorizzare i contenuti secondo un proprio sistema di generi, non necessariamente coincidente con quello del mondo della produzione. Nello scenario contemporaneo emergono alcune tendenze, da un lato frutto della dimensione sempre più transnazionale della tv, dall’altro, rispetto alle singole realtà dei Paesi, come esito della preferenza che ogni nazione accorda a un proprio sistema di generi, in linea con la propria tradizione televisiva. Una prima fondamentale definizione oggi impiegata nel mondo della produzione è quella che distingue i prodotti in scripted e unscripted: i primi sono i generi e i sottogeneri basati su una sceneggiatura strutturata, interpretata da attori che recitano una parte; i secondi sono tutti i generi che presentano un forte ancoraggio a una dimensione di realtà e non prevedono personaggi o ambienti d’invenzione. Un caso interessante recente è quello dello scripted reality, un filone che ibrida la promessa enunciativa finzionale, come è la tipica fiction tv, e una promessa autentificante, tipica del docu-reality. Altro elemento da tenere presente è l’impatto generato sul sistema dei generi dall’offerta multichannel, come l’aumento dei prodotti factual di derivazione anglosassone, in linea con l’importanza accresciuta dei grandi gruppi editoriali internazionali.

Come si può definire l’audience, di cui lei ha fatto una disamina? È qualcosa che varia a seconda delle pratiche d’uso del mezzo televisivo (fandom, paratesti, Contenuti Generati dagli Utenti sui social) e a seconda degli studiosi che lo esaminano?

La TV dell’abbondanza ha di fronte a sé un pubblico altrettanto “abbondante” a partire dalle definizioni diverse con cui si cerca di inquadrarlo, descriverlo, misurarlo. La TV anytime, anywhere e l’aumento significativo dei canali e dei device televisivi ha comportato la frammentazione degli ascolti e dell’attenzione del pubblico distribuito lungo diversi canali capaci di soddisfare gusti differenti. Il pubblico televisivo è diventato un oggetto di analisi molto più complesso, non inquadrabile soltanto attraverso variabili socio demografiche tradizionali, ma verso il quale diventa necessario individuare nuove traiettorie di sguardo, accanto ovviamente a quelle classiche. Il sistema di rilevazione Auditel mantiene la sua centralità soprattutto rispetto alla necessità del marketing di lavorare su dati quantitativi. Accanto ad esso la ricerca qualitativa permette di approfondire come le persone approcciano, fruiscono e costruiscono significati intorno a quello che vedono e “consumano”. Diventano centrali, ad esempio, le pratiche di fruizione televisiva perché sempre più personalizzate, produttive, social… L’analisi dei pubblici convergenti rappresenta una delle sfide più interessanti per la ricerca empirica, l’occasione per confrontarsi con un mondo, quello del consumo, in grande fermento, abbinare tecniche di ricerca consolidate con nuovi strumenti e in contesti di fruizione in continuo mutamento.

Come si profilano le pay TV ma, soprattutto, le Over – the – Top (OTT), piattaforme online che distribuiscono contenuti audiovisivi attraverso la banda larga?

La convergenza dei media ha sancito il matrimonio tra TV e Web, garantendo al mezzo televisivo nuovi spazi di distribuzione e nuove forme di fruizione, oltre alla sua permanenza come focolare elettronico dei salotti domestici. Emblema della grande vitalità di questo “vecchio” mezzo di comunicazione, sono le piattaforme Over – the – Top, cui è illustre esempio Netflix. Le tecnologie digitali e la digitalizzazione dei contenuti hanno creato lo spazio e il mercato per una forma di distribuzione alternativa alla televisione e al classico palinsesto consolidando nuove pratiche di visione non lineare (ossia disconnessa dal flusso televisivo) come quella ormai nota del binge watching, ossia la maratona di visione continuativa di diversi episodi, se non di un’intera serie. Le imprese OTT presentano strutture proprietarie, obiettivi d’impresa e indirizzi strategici diversi e forniscono library di titoli diversificati, cui l’utente accede online anytime anywhere con un abbonamento mensile o gratuitamente. Un aspetto molto interessante riguarda le produzioni originali delle OTT, che diventano quindi non solo mere piattaforme delle repliche ma attori di primo livello nella produzione di contenuti, specialmente serie Tv, che oggi rappresentano la cosiddetta Quality TV.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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Vanni Codeluppi: “Pubblicità e divismo, forme di seduzione”

“Pubblicità e divismo, forme di seduzione”

Vanni Codeluppi racconta il suo “Il divismo”, edito di recente da Carocci

Vanni Codeluppi

Divismo e pubblicità come forma di seduzione e quasi come un rito religioso, che ha sostituito in parte, insieme ad altre forme culturali, quel trascendente scomparso nella società capitalista. Divismo esistente in tutte le società, ma che nasce nelle forme moderne quando il cinema hollywoodiano ha usato i mass media per comunicare la sua immagine. Non tanto divismo forte e debole, quanto figure di divi forti e deboli a seconda delle epoche e soprattutto dei media (forte con il cinema, debole con la TV e il web). Flessione della figura del divo con la TV, quando la vicinanza allo spettatore lo ha “umanizzato”. Poi il web, quando il divo mantiene ancora la sua posizione distaccata parlando di sé e non interagendo con i fan, ma comunque diventa, ancora una volta, più accessibile. Infine, la possibilità che anche la persona comune, attraverso i social, possa diventare divo usando i media proprio come avevano fatto i manager delle stelle del cinema americano dagli anni Venti del Novecento in poi. Sono questi i tratti più significativi del recente Il divismo. Cinema, televisione, web, edito da Carocci e scritto da Vanni Codeluppi, ordinario di Sociologia dei media all’Università IULM di Milano.

Lei ha scritto in La società pubblicitaria, del 1996, che “ogni atto di comunicazione contiene in sé l’obbligo di sedurre” (p. 49). È vero sia per il divo, sia, come ha detto il pubblicitario Jacques Séguéla da lei citato, per una merce?

Ancora oggi penso che la comunicazione sia una forma di relazione umana e sociale che prevede una strategia di seduzione, in quanto prevede un soggetto che attraverso il suo punto di vista cerca di influenzarne un altro. È chiaro che c’è una strategia di seduzione, di parte, che non corrisponde a verità, da parte di chi parla rispetto a chi riceve il messaggio. Alcuni autori parlano di vera e propria menzogna: anche Umberto Eco, nel suo Trattato di semiotica generale, sostiene che la comunicazione è menzogna, appunto perché è comunicazione di parte. Possiamo applicare un modello di questo tipo al mondo del consumo, perché è basato sul commercio, quindi sul tentativo di convincere un acquirente ad acquistare determinati prodotti. Da quando esistono le prime forme di civiltà umana abbiamo una forte presenza dell’attività commerciale, la società si deve basare sullo scambio delle merci e quindi questo ha comportato anche lo sviluppo di attività di comunicazione di vario tipo. Infatti già nell’antichità troviamo tracce di attività pubblicitarie.

Se poi pensiamo al divo, cioè alla persona con uno status importante nella società e che quindi deve comunicare in modo particolarmente potente, per fare questo esso utilizza una modalità seduttiva e usa sia gli strumenti, appunto, della comunicazione sia, per valorizzarsi, un certo modo di presentarsi e di atteggiarsi rispetto alla gente comune.

Il trascendente è stato tendenzialmente eliminato, come ha sostenuto il sociologo Max Weber, nelle società capitalistiche. Tuttavia si può pensare che il bisogno di spiritualità ritorna nella dimensione divistica e pubblicitaria?

La tesi di Weber parlava di una razionalità delle società capitalistiche e quindi di un processo di “raffreddamento” in queste rispetto a tutte le dimensioni trascendenti e anche irrazionali, come forme religiose di vario tipo e più in generale la sfera del magico. Questa è stata considerata a lungo una tesi molto importante, ma in realtà il trascendente ha trovato delle forme di emersione sotterranea (pensiamo alle sette religiose che si sono moltiplicate in questi anni). Oggi le persone soddisfano il loro bisogno di spiritualità in varie forme, e una di esse è probabilmente quella del rapporto di adorazione rispetto a determinati divi.

Per quanto riguarda la pubblicità (ma pensiamo anche ad altre forme di tipo culturale, come il cinema, e al rapporto che riesce a stabilire con l’inconscio), anch’essa è una delle forme con cui si offre una risposta a un bisogno di spiritualità. Infatti è una delle forme attuali di esperienza trascendente perché la sua intensa natura comunicativa le consente di trascendere la dimensione materiale delle merci e di fare vivere alle persone delle emozioni coinvolgenti.

Quando si verifica il processo di identificazione con il divo? Ci sono delle epoche in cui ciò avviene in modo particolare?

Probabilmente nella storia umana ci sono sempre stati fenomeni di divismo, anche se erano molto diversi da quelli di oggi: non avevano, per esempio, la possibilità di usare mezzi di comunicazione come quelli odierni, erano riservati a poche figure di potere come i grandi condottieri della storia. Dall’inizio del ‘900 l’industria cinematografica hollywoodiana ha creato il divismo moderno, che fondamentalmente si basa sull’uso dei media (nei primi tempi soprattutto la stampa). Si sono quindi avuti vari strumenti con cui costruire e comunicare l’immagine del divo, e quindi creare un processo di identificazione ancora più intenso. Il divo è una figura ideale, ed è sempre stata così, le persone gli si avvicinano perché si identificano e si proiettano in quello che esso rappresenta anche nel suo modello di persona, nel suo successo sociale. Appunto dagli inizi del ‘900 c’è stato un rafforzamento di tale processo, nel senso che è stato possibile costruire divi particolarmente forti e affascinanti, come Humphrey Bogart, Marlene Dietrich, Greta Garbo, ecc.

In che momento si può parlare di divismo forte? E debole?

Non parlerei di divismo forte e debole, ma piuttosto di divo forte e debole, nel senso che il divismo, appunto, è una costante particolarmente presente nella vita sociale: l’arrivo dei media contemporanei ha consentito di rafforzare questo fenomeno e di diffonderlo sempre più, e quindi di far sì che oggi lo troviamo non solo nel mondo del cinema, ma anche in quello dello sport, della moda, dell’arte, ecc.. In passato i divi del cinema erano particolarmente forti, oggi il divo si è moltiplicato e questo l’ha indebolito. Il divo si è avvicinato alle persone anche per l’evoluzione del mondo dei media avvenuta negli ultimi decenni. La TV e il web hanno indebolito la figura del divo perché hanno abituato le persone a un rapporto di familiarità, di vicinanza quotidiana con quest’ultimo. Ciò non vuol dire che esso non possa funzionare in modo efficace, anzi, continua ancora a funzionare molto bene, e quindi credo che il divismo sia più forte che mai.

Sia in La società pubblicitaria che in Il divismo diceva che i divi del cinema negli anni Novanta hanno subito una flessione…

Negli anni Settanta c’è stata tutta la rivoluzione del cinema giovane (alludo alla Nuova Hollywood) con la comparsa di nuovi registi (Scorsese, Coppola, ecc.). Tuttavia, il cinema è stato cambiato profondamente anche perché è arrivata la TV e quindi ha dovuto ristrutturarsi. Nonostante ciò, pian piano ha visto emergere nuovi divi: negli anni ‘80 – ‘90 ne sono comparsi alcuni che ancora oggi hanno un grande successo e fascino, come Brad Pitt, Leonardo Di Caprio, Julia Roberts, George Clooney, ecc.. Ma il cinema nel suo complesso non ha avuto più la forza che aveva prima, ha perso spettatori, è diventato uno dei mezzi insieme a tanti altri, consumato non solo in sala, quindi non ha offerto più quella forza che arrivava dal grande schermo, al buio, in una condizione di passività dello spettatore. Lì c’era una seduzione forte, emozionante, suggestiva per chi guardava. Questa cosa si è un po’ indebolita rispetto al passato, anche se rimangono ancora delle figure importanti.

Come si profila il ruolo del divo nell’epoca dei social media?

Apparentemente i social sono uno strumento democratico nel rapporto tra il divo e i fan, però già alcune ricerche empiriche dicono che il divo riesce comunque, dietro una facciata di democraticità, di relazione quasi paritaria con i fan, a mantenere il suo ruolo superiore, privilegiato: per esempio il divo parla di se stesso, non si mette a interagire con i fan, si limita a raccontare di sé e della sua vita. Quindi, anche se c’è una maggiore vicinanza tra il divo e i fan attraverso i social, il meccanismo rimane ancora quello, di identificazione in un soggetto affascinante che vive in un spazio superiore rispetto alle persone comuni.

Esistono forme di divismo generate “dal basso”?

Ci sono anche delle persone comuni che diventano divi: per una persona è più facile, attraverso gli strumenti di comunicazione attuali, come i social, passare dal ruolo della posizione comune a quella del divo. Giovani youtuber, blogger, influencer di vario tipo diventano dei divi a loro volta, usano i media per far arrivare una certa immagine di sé, riproducendo ancora una volta quel modello che è appunto quello classico del cinema hollywoodiano.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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Federico di Chio: “Italia, non TV post network, ma transizione multicanale”

“Italia, non TV post network ma transizione multicanale”

Federico di Chio spiega la situazione nostrana partendo da un libro di Amanda D. Lotz

Federico di Chio

Si può parlare di un’era post network in Italia, dove predomina la visione non lineare, “ovvero quella che non si verifica in un momento predeterminato dall’esterno e che può avvenire su dvr, on demand, su dvd o in streaming” (Lotz)? Secondo Federico di Chio, docente di Strategie delle imprese audiovisive alla Cattolica di Milano, nonché Direttore del Marketing Strategico del Gruppo Mediaset, no. Siamo piuttosto nell’epoca della transizione multicanale, quando si ha un’offerta multichannel, con due soli operatori pay, Sky e Mediaset Premium, con una penetrazione del 10% dell’utenza, e solo Netflix come operatore over – the – top a livello di nicchia ancora maggiore. Inoltre, la manipolazione della visione lineare è limitata ai possessori del decoder MySky.

Ma cosa si profila lo scenario italiano? Sovrapproduzione di fiction in America, con circa 400 titoli, situazione sostanzialmente stabile da noi, pubblicità, in Italia, che “riempie” anche i canali pay in quanto non basta il costo dell’abbonamento: per il resto, gli investitori privilegiano sempre i canali free ma con un occhio anche ai target più mirati dell’offerta pay.

Questi, in sintesi, gli scenari tratteggiati da Federico di Chio, che ha curato la postfazione alla traduzione italiana del libro di Amanda D. Lotz Post Network. La rivoluzione della TV, edito di recente da minimum fax.

In Italia stiamo assistendo a un’epoca post network (anni Duemila) o siamo ancora a una transizione multicanale (anni ’80 – 2000)?

Queste date fanno riferimento al libro della Lotz, per noi la transizione multicanale si è aperta realmente dallo switch – off dell’analogico, cioè dal 2010 – 2011 ad oggi. Pertanto, da questo punto di vista, siamo con molti anni di ritardo rispetto allo scenario americano, siamo ancora nel periodo della transizione multicanale, quindi ancora in una fase di espansione dell’offerta multichannel, come è successo negli Usa quando sono state erose le posizioni di forza storiche dei grandi network. Quella che Amanda Lotz definisce come era post network è un mondo in cui è cambiato il concetto stesso di palinsesto, è messo in crisi, per cui l’offerta non lineare comincia ad avere una penetrazione importante nelle modalità di consumo: noi siamo molto lontani da tutto questo. Tra l’altro, negli Stai Uniti la pay tv si trova nell’82% delle famiglie e la penetrazione dell’offerta over – the – top (Netflix, Amazon Prime Video, Hulu, ecc.) che è a pagamento, ancorché a pagamento leggero, sta avendo un effetto importante.

Cosa vuol dire a pagamento leggero?

Vuol dire che si pagano pochi dollari al mese, che non ci sono contratti vincolanti, quando per abbonarsi a una pay tv in Usa pagano anche 60, 80, molte famiglie anche più di 100 dollari al mese, contro il nostro corrispettivo dei 50 euro di Sky. Quindi, nel momento in cui arriva Netflix e dice “ti do le serie a nove dollari al mese,” siccome si sta rivolgendo nell’82% di casi a famiglie che di dollari ne pagano 80 o 100, è chiaro che ha un impatto devastante. Netflix come Amazon e altri propongono un’offerta à la carte con importi decisamente inferiori, soprattutto un’offerta non infrastrutturata, per cui uno non si deve abbonare a un operatore cavo, a un operatore telefonico, basta che abbia il decoder a casa e può avere accesso al servizio. Questo nuovo paradigma sta intervenendo su un sistema a offerta completamente diverso dal nostro e sta avendo un effetto piuttosto dirompente. In Italia il sistema di offerta è, da un punto di vista tecnico, decisamente diverso, non abbiamo una forte penetrazione del cavo e quindi neanche della banda larga, abbiamo la gran parte dell’offerta che è free e non pay, quindi l’impatto di queste nuove forme di offerta si fa sentire in primo luogo sul mercato pay, e perciò nell’economia complessiva nel sistema italiano l’effetto è molto limitato. Peraltro negli Usa il paradigma post network è interpretato anche dagli stessi operatori via cavo, che per reagire agli over – the – top offrono anch’essi forme di proposizione dei contenuti più lineare, leggera. Da noi questo riguarda solo le offerte di Sky, che ha OTD, e Mediaset Premium, che ha Premium Online, ma ciò concerne solo le poche famiglie che hanno la pay.

Che penetrazione hanno i due operatori pay Sky e Mediaset Premium?

Mediaset Premium poco meno di due milioni di famiglie, Sky quattro milioni, quattro milioni e mezzo, quindi più o meno sei milioni di famiglie in totale: siamo molto lontani dall’era post network.

Quanto è cambiato attualmente il modello pubblicitario sulle reti generaliste e in quelle pay come Sky?

Sulle reti generaliste il modello non è molto cambiato: tuttavia, l’arrivo dell’offerta multicanale sta avendo degli effetti. Questi nuovi canali infatti hanno dei target più specifici, e quindi gli investitori pubblicitari integrano la pianificazione sui canali generalisti, che rimane irrinunciabile per gli ascolti che fa, con i canali tematici, che hanno dei prezzi più bassi e target più mirati. Questo è un fenomeno nuovo rispetto alla vecchia TV italiana, per il resto non è cambiato tantissimo il modo di vendere e di proporre la pubblicità nel mondo free. Invece in quello pay da tanti anni oramai questi network integrano i loro ricavi con la pubblicità perché non bastano gli abbonamenti. Alcuni canali hanno caricamenti pubblicitari notevoli, come quelli Fox, però questo fa parte del mestiere della pay. Pagando dovrei avere un contenuto più leggero, ma con la stagnazione degli abbonati e la grande crescita del costo dei contenuti è comprensibile che gli operatori pay abbiano usato la leva della pubblicità, anche perché l’alternativa sarebbe stata aumentare il costo dell’abbonamento.

Ma la pubblicità viene inserita anche sull’on demand…

Anche lì c’è un po’ di tributo da pagare alla pubblicità. Questo però, sarà che io lavoro in Mediaset, e pertanto non trovo che ci sia molto di scandaloso, fa parte delle regole del gioco.

Quale influenza ha avuto l’era post network sulla produzione di fiction negli USA?

L’era post network sta causando un’inflazione di produzione di fiction, e questo ha abbassato il livello qualitativo. Infatti, se fino a qualche anno fa si producevano circa 200 serie all’anno e ora se ne producono 400, non è che le 200 che sono arrivate erano idee geniali che erano nei cassetti e che non si riusciva a produrre. Questo notano gli osservatori, e nello stesso tempo prevedono un riflusso, perché non c’è abbastanza creatività per alimentare tutta questa produzione.

Qual è la situazione italiana?

In Italia questo mondo è arrivato abbastanza poco, certo Netflix ha prodotto Suburra e prima Marco Polo, però i nuovi over – the – top non sono dei committenti particolarmente presenti, quindi la gran parte della produzione nazionale di fiction di nuovo è, nell’ordine, sulle spalle di Rai, Mediaset e Sky. Essa anche da noi rimane un ingrediente formidabile per i palinsesti di tutti, caratterizza fortemente le reti che la ospitano, è un prodotto identitario, racconta un paese, la società, quando è fatta bene produce anche ascolti straordinari, quindi i volumi produttivi sono abbastanza stabili.

Quante serate producono i tre network?

Mediaset circa sessanta – settanta serate l’anno, Rai circa il doppio, Sky molto meno (ogni serata è costituita da puntate di circa cento minuti). Siamo lontani dai volumi produttivi americani, ma negli Usa la TV è costituita in gran parte da un’ossatura di serie, rispetto a noi ha molto meno cinema, meno intrattenimento. Poiché le serie televisive sono un prodotto costoso, in Italia ce ne sono in misura minore, anche se scommetterei su un aumento del loro volume produttivo.

Per quanto riguarda Sky, non so dire esattamente quante ore produca, circa quindici – venti serate l’anno, però sono tutti prodotti scelti, ben promossi, fortemente identitari, come Gomorra, 1992, In Treatment, e pure loro, secondo me, aumenteranno, anche per distinguersi dai Netflix della situazione.

In quanto Direttore del Marketing Strategico del Gruppo Mediaset cosa ci potrebbe dire della fiction Mediaset?

È fatta per Canale 5 con la missione di fare ascolti da rete generalista. Sarebbe più facile per noi ideare una fiction più sperimentale, per un pubblico più ristretto come quello di Sky. Sky e Netflix infatti devono produrre fiction che soddisfi il parco abbonati a prescindere dagli ascolti, noi, così come la Rai, abbiamo una missione diversa e quindi un approccio diverso.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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Scaglioni e Holdaway: “The Walking Dead, complessità del franchising transmediale”

“The Walking Dead, complessità del franchising transmediale”

Un libro edito da Mimesis parla della fortunata serie televisiva

Dom Holdaway

Una serie “complessa”, The Walking Dead, non in senso narrativo, ma del franchise transmediale. Un franchise, quello zombesco, che nasce come fumetto di buon successo e che poi si trasforma in un prodotto “di genere” per la TV. Una serie televisiva che approfitta della “zombie Renaissance” all’inizio degli anni Duemila per consacrare tale moda per un pubblico ampio e popolare. Poi, espansione, per TWD, dal fumetto alla serie, ed estensione transmediale, nel senso di proliferazione di videogiochi, parchi a tema, novellizzazioni, dedicati a questo argomento. Inoltre, un’autorialità “materiale”, nella creazione di The Walking Dead, ma soprattutto un’autorialità di brand, attribuibile a Robert Kirkman.

Un’America tendenzialmente progressista, quella tratteggiata nei film di Romero dedicati ai morti viventi, contro il libertarianismo della saga di TWD, dove la protezione dell’individuo, del “proprio rifugio” contro il diverso, fanno da padrone.

E un fandom estremamente complesso, quello di The Walking Dead, dove il momento più creativo è rappresentato dai racconti scritti dagli stessi fan, che si inseriscono in prima persona nella trama. Infine, una strategia comunicativa g/local, quella adottata da Fox International Channels, distributore di TWD nel mondo, pensata a livello globale con il contributo dei team nazionali più brillanti.

Queste, in sintesi, le osservazioni sulla saga di The Walking Dead emerse in una conversazione con Dom Holdaway, assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna e Massimo Scaglioni, Professore Associato di Storia ed Economia dei Media alla Cattolica di Milano. Occasione, il loro recente The Walking Dead. Contagio culturale e politica post – apocalittica, edito da Mimesis.

In che senso The Walking Dead (TWD) potrebbe essere definito un esempio di TV complessa, diversamente da quanto aveva ritenuto Jason Mittell nel suo Complex TV (2014) sempre a proposito della stessa serie?

Massimo Scaglioni

Scaglioni. La “complessità” sembra essere una delle caratteristiche della serialità televisiva contemporanea, e su questo tema Jason Mittell – uno dei più importanti studiosi di TV nel contesto nordamericano – ha scritto un importante volume. La complessità di molta serialità contemporanea è figlia dell’evoluzione tanto del sistema televisivo e mediale quanto della competenza degli spettatori. In un’età caratterizzata dall’abbondanza produttiva (nei soli Stati Uniti vengono prodotte più di 400 serie all’anno), le serie diventano sempre più raffinate e, appunto, “complesse” perché puntano su “nicchie” – sebbene molto ampie – di spettatori molto appassionati, attenti, capaci di decodificare testi piuttosto articolati (si pensi a “Lost”, modello della “TV complessa” dei primi anni Duemila). TWD offre un esempio di una “complessità” un po’ diversa da quella proposta da Mittell: non si tratta tanto di una complessità della narrazione, quanto di complessità del “franchise” transmediale. TWD nasce come fumetto, si trasforma in una serie televisiva, e entrambi – fumetto e serie – danno vita a una grande varietà di ulteriori testi “ancillari” (e persino uno spin-off, Fear The Walking Dead). L’elemento di maggiore complessità consiste dunque nel filo che collega questi diversi testi, e nel “gioco” che gli autori (e in primo luogo Robert Kirkman, che è responsabile tanto del “comic” quanto del prodotto tv, almeno in parte) istaurano con gli spettatori e con i fan.

Come nasce il franchise televisivo di TWD e come si inserisce nella politica di rete di AMC?

Scaglioni. Si tratta di uno dei casi di maggior successo della televisione americana degli anni dieci del 2000. TWD nasce come un fumetto di buon successo, ed è l’intelligenza e la lungimiranza di un importante regista/produttore come Frank Darabont a trasformare il “comic” in una serie che finisce per essere seguita anche da 17 milioni di spettatori negli Stati Uniti, un vero record per una televisione via cavo come AMC. TWD è il perfetto prodotto per una “basic cable”, ovvero una rete a pagamento inserita in un pacchetto di altre reti “a sottoscrizione” e presente in milioni di case americane: si tratta di un prodotto di genere, che ridefinisce i parametri del “racconto di zombie”. Non dunque una serie “autoriale” (come molti prodotti di HBO, da I Soprano a Six Feet Under), ma quello che abbiamo definito un “mainstream cult”, un prodotto di grande qualità destinato a un pubblico ampio, popolare, trasversale.

In qual modo diventa mainstream il genere horror degli zombie, apparentemente di scarso appeal? In che senso la mitologia zombesca può definirsi come plasmabile?

Scaglioni. All’inizio degli anni Duemila assistiamo a una vera e propria “zombie Renaissance”, nel senso che gli zombie sembrano diventare una moda, e sembrano “sorpassare” un altro genere di mostri molto popolari in quegli anni, i vampiri (vedi la saga di Twilight). E’ proprio TWD a consacrare la moda degli zombie per un pubblico ampio e popolare, a farne un fenomeno pop e mainstream. Il “racconto di zombie” ha però radici antiche: è una mitologia plasmabile che ha attraversato il sistema dei media americano e la sua cultura popolare dagli anni Trenta del Novecento, con alterne vicende di successo (per esempio già nel corso degli anni Ottanta).

Come si può parlare, per TWD, di espansione ed estensione transmediale?

Scaglioni. TWD, come dicevo prima, non è solo una serie. È un franchise transmediale. Nasce da un fumetto: il suo adattamento, da fumetto a serie, avviene attraverso un processo di “espansione”. Molti episodi, molti personaggi vengono cambiati e ampliati. Dalla serie TV poi si genera un vero e proprio “sistema transmediale”, fatto di videogiochi, di novellizzazioni, di una varietà di testi e prodotti mediali (app, attrazioni in parchi a tema etc.). In questo modo il mondo di TWD si “estende” ulteriormente. L’ultimo gioco dedicato al franchise consente addirittura di immergere la nostra quotidianità nel mondo “zombesco” (un po’ come accadeva con “Pokemon Go”, la scorsa estate). Insomma, realtà e finzione si mescolano giocosamente all’insegna degli zombie.

L’autorialità di The Walking Dead può essere definita come collettiva, o soprattutto legata a Robert Kirkman, il creatore del fumetto omonimo?

Scaglioni. Per tutti i prodotti industriali e complessi, come sono le serie tv, l’autorialità è collaborativa. Bisogna distinguere fra una “autorialità materiale” (chi scrive gli episodi, chi guida il racconto), che è necessariamente plurale, e una “autorialità come marchio” o “come brand”: in questo caso tutti riconoscono a Kirkman la paternità di TWD. La cosa interessante è che Kirkman, autore del fumetto, è molto coinvolto anche nella realizzazione materiale della serie. Il suo abbandono di AMC e il nuovo contratto firmato con Amazon gettano qualche dubbio su quanto la serie potrà effettivamente durare ancora (anche alla luce degli ascolti di questa ottava stagione, che non sono più straordinari come un tempo, sebbene restino molto elevati).

Quale allegoria politica sottostà alla saga di zombie di George Romero?

Holdaway. Due studiosi americani (Jennifer Proffitt e Rich Templin) hanno identificato nella famosissima saga cinematografica di George Romero una battaglia allegorica tra la fede di alcuni nel potere (sebbene spesso fallimentare) del Governo in un momento di crisi apocalittica (rappresentata dall’invasione degli zombie), e l’individualismo radicale dell’“ognuno per sé stesso”, nel nome della sopravvivenza individuale. Questa contrapposizione si può declinare evidentemente in un conflitto ideologico tra la sinistra liberale e la destra “libertariana” nell’America degli ultimi decenni, dove, da un lato, si cerca di rimanere fiduciosi nelle capacità del governo di sostenere istituzioni pubbliche, mentre dall’altro lato regna il capitalismo duro e puro. In realtà, però, i film di Romero sono talmente ricchi e complessi nelle loro rappresentazioni – anche grazie ai decenni che passano tra un film e l’altro – che finiscono per proporre anche diverse altre allegorie politiche. La più nota “allegoria” è senz’altro la critica del consumismo che scorgiamo nelle figure degli zombie che popolano il centro commerciale in Zombi (“Alba dei morti viventi”, 1978), ma anche la paura della Guerra Fredda che è centrale in Il giorno degli zombie (1985). Più interessante ancora, come ci insegna Steven Shaviro, è la critica implicita dei film di Romero nei confronti della mascolinità bianca americana: i personaggi “wasp” vengono corrotti facilmente e si dimostrano deboli, a differenza delle donne e degli uomini di colore, che sono invece forti e coraggiose/i.

Libertarianismo è la parola d’ordine fondamentale per definire a livello “ideologico” la saga di TWD?

Holdaway. In un certo senso, sì. Se almeno nei primi tre film di Romero il Governo pareva in qualche modo capace di reggere, nel mondo di TWD lo Stato non esiste più (anche se gli sviluppi più recenti del fumetto fanno intravedere quante cambiamento interessante su questo punto…). Nella serie, infatti, vediamo diverse volte delle scene che enfatizzano il fallimento delle forze dell’ordine e delle istituzioni: soldati zombificati, chiese abbandonate ai morti… e la grande ironia della terza e la quarta stagione dove la Prigione diventa il rifugio e la salvezza per i sopravvissuti (nel mondo pre-apocalittico la galera è il luogo da cui fuggire!). Poi la serie mostra diversi tipi di organizzazione sociale, dalla democrazia alla dittatura, ma in fondo ci ripete continuamente che due caratteristiche appartenenti all’ideologia “libertariana” – la protezione della casa, spesso con l’uso delle armi, e la sfiducia nei confronti dell’estraneo e del diverso – sono fondamentali nel mondo post-apocalittico. I personaggi che non imparano queste regole di sopravvivenza finiscono solitamente piuttosto male. E sul tema dell’importanza del “proprio rifugio”, difeso con mura e pistole, i paragoni con l’America contemporanea non sono difficili da percepire.

Quali sono i paratesti orientativi della serie? E le estensioni transmediali?

Holdaway. Il caso di TWD è affascinante in parte per il suo fandom, che è estremamente ampio e attivo. In continuazione i fan creano delle risorse che accompagnano la serie – un’altra caratteristica che pare confermare la “complessità” della serie secondo le teorie di Mittell. I “paratesti orientativi” includono in realtà tre gruppi di contenuti diversi. Sono testi “ancillari” che aiutano lo spettatore a orientarsi non solo nella serie, ma in tutto il franchise. I più semplici, e probabilmente i più numerosi, sono i riepiloghi dell’azione, e l’esempio più importante è rappresentato da “Walking Dead Wiki”, creato e mantenuto dai fan. Più interessanti sono i testi che arricchiscono il racconto, per esempio creando dei legami con il fumetto e avanzando delle previsioni su cosa potrebbe accadere in prossime puntate della serie attraverso un processo di “fandom investigativo”. Poi ci sono le estensioni transmediali fatte dai fan, che portano la trama fuori dai suoi “limiti canonici”, ovvero fanno prendere al racconto strade del tutto inattese. L’esempio senz’altro più creativo in tal senso è la “fan fiction”, i racconti scritti dagli stessi fan, che spesso si inseriscono in prima persona nella trama, vivendo e narrando un’esperienza nel mondo post-apocalittico disegnato dalla serie.

In che modo si sono mosse le strategie comunicative legate al “prodotto” The Walking Dead”? Quanto c’è stato di local e quanto di global?

Scaglioni. TWD è un caso interessante perché è stato distribuito da un attore globale come Fox International Channels in tutto il mondo. Le strategie di promozione e marketing (che sono state ricostruite nel libro con interviste fatte ai professionisti Fox che le hanno sviluppate, in Italia come da Hollywood) sono un tipico caso di azione g/local: pensate a livello globale col contributo dei team nazionali più brillanti (come quello italiano), e poi “adattate” ai diversi contesti nazionali: in ciascun paese le indicazioni generali venivano poi “localizzate”. In Italia, per esempio, il doppiaggio usa la parola “zombie” nelle prime stagioni, e la serie “viene venduta” dal marketing come “una serie sugli zombie”. Ma la parola “zombie” non compare mai nella versione originale, dove si parla di non-morti, di vaganti, di putrefatti e persino, semplicemente, di “dead” (ovvero di “morti”).

 MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

Massimo Scaglioni

Gianfranco Marrone: “Poliedricità, parola giusta per definire Eco”

“Poliedricità, parola giusta per Eco”

Una chiacchierata sul grande semiologo e sul suo postumo “Sulle spalle dei giganti”

Gianfranco Marrone

Opinionista, saggista, autore televisivo, romanziere, docente universitario, massmediologo, editore, uomo enciclopedico, tutto questo è stato Eco. Grande novità da lui introdotta, quella di studiare i mass media con le categorie della storia della filosofia e non con le comunicazioni di massa stesse, come avviene oggi. Inoltre, una tradizione filosofica alle spalle, con cui fare sempre i conti. Poi, tre “scaffali” nella sua produzione, quello di teorico, di opinionista, di romanziere. Infine, un libro postumo, Sulle spalle dei giganti, non accademico, dove parla, tra l’altro, del parricidio.

Questi i tratti più significativi di Umberto Eco rievocati da Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, che su questo tema il 28 ottobre scorso avrebbe dovuto tenere con Paolo Fabbri (CISS, Centro Internazionale di Scienze Semiotiche, Urbino) una conferenza al Festival Mimesis di Udine su L’attualità della semiotica. Che fare dopo Umberto Eco?

Eco è una figura poliedrica, che scrive opere come Diario minimo (1963), Apocalittici e integrati (1964), Il superuomo di massa (1978), dedicate alla cultura di massa e all’attualità, e lavori più accademici, dove fa ampio uso della teoria della comunicazione e dello strutturalismo (Opera aperta, 1962, Trattato di semiotica generale, 1974, Lector in fabula, 1979). Come si è conciliato tutto questo?

Poliedricità è la parola giusta per definire Eco. Infatti era un intellettuale a tutto tondo, un professore universitario, un filosofo, un esperto di semiotica, disciplina che ha contribuito a fondare, ma anche uno scrittore, un opinionista sui giornali e non da ultimo un massmediologo. Inoltre, prima di essere docente universitario, è stato a lungo un autore televisivo, e ha continuato a essere sono alla fine un editore: ha lavorato molto presso le case editrici, soprattutto la Bompiani, prima che la lasciasse per motivi personali nell’ultimo anno della sua vita. Tutto ciò non è una contraddizione. Eco non era un esperto, ma un enciclopedico. L’esperto è colui che sa tutto di un argomento senza sapere niente di altro, invece l’enciclopedico sa dove poter andare a cercare le cose, appunto come se fosse un’enciclopedia vivente. In particolare poi, per quanto riguarda il suo essere esperto in comunicazioni di massa e l’essere un filosofo, le due cose si conciliano perfettamente, perché Eco ha sempre detto che le comunicazioni di massa vanno studiate con le categorie della filosofia, e non con le comunicazioni di massa stesse, come avviene oggi. Nel suo primo libro, Opera aperta, c’è un lungo capitolo sulla diretta televisiva – siamo nel 1962, quando questa era ancora una grande novità tecnologica – e Eco la studiava con le categorie della Poetica di Aristotele, cosa che a suo tempo fece scandalo mentre oggi è un’ovvietà, ma lo è grazie a lui. Infatti per la prima volta ha messo insieme il sapere cosiddetto “alto”, delle accademie, con quello popolare, dei mass media. Attraverso le teorie letterarie, filosofiche, ha studiato la TV, la pubblicità, il fumetto, la canzone di consumo. L’’utilizzo delle categorie filosofiche per studiare la cultura di massa ha prodotto la semiotica. Questa, secondo lui, è lo studio di tutti i linguaggi attraverso le grandi categorie della filosofia classica riviste dai teorici specifici della semiotica come Peirce da un lato, e Saussure e la tradizione dello strutturalismo dall’altro.

La semiotica intesa come filosofia non è come quella greimasiana che si rifà di più a Saussure e alla linguistica…

Greimas aveva un interesse teorico che coincideva solo in parte con quello di Eco, che aveva studiato filosofia alla grande scuola torinese ed era un grande esperto di filosofia medievale e quindi dell’aristotelismo. Dall’altro lato sempre Eco aveva anche un grandissimo interesse verso le sperimentazioni artistiche e letterarie. In Opera aperta infatti ha messo insieme lo studio dei mass media, della filosofia, di Joyce. Inoltre è stato uno dei fondatori del Gruppo ’63, grande gruppo di sperimentazione letteraria. Greimas invece si riallacciava a una tradizione che assomma la linguistica strutturale all’interesse verso la mitologia e l’antropologia. Era un linguista, un esperto di testualità letteraria, ma ha studiato moltissimo anche le mitologie: è infatti appena uscita in Italia la traduzione di un suo libro sulle mitologie della Lituania.

Eco è stato anche autore di best seller come Il nome della rosa (1980). Tutto ciò quanto è entrato in simbiosi con la sua produzione teorica?

Molti hanno sostenuto che non c’è nessuna relazione tra Eco scrittore e Eco saggista, ma io, come tanti altri, non sono di questo parere. La spiegazione potrebbe stare forse nel risvolto di copertina della prima edizione de Il nome della rosa, in cui Eco scrisse, parafrasando un famoso aforisma di Ludwig Wittgenstein (“Tutto ciò di cui non si può dire si deve tacere”), “di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”. Questa frase che aveva scritto un po’ per scherzo è molto significativa: Eco ha voluto giocare di sponda tra la teoria, appunto la semiotica, e il romanzo, cercando di trovare in questo delle teorie sotto forma di storie. Oggi si usa tanto parlare di storytelling e lo si considera come una forma di persuasione, ma per Eco invece la narrazione è una forma di teoria con altri mezzi. Nel suo secondo romanzo, Il pendolo di Foucault (1988), ha fatto la stessa operazione: aveva studiato teoricamente il problema dei limiti dell’interpretazione, che è il titolo di un suo libro accademico (I limiti dell’interpretazione, 1990), e nel romanzo ha raccontato cosa succede se si superano tali limiti.

Come si profilano i libri che raccolgono Le bustine di Minerva una pagina che Eco ha pubblicato per tantissimi anni su L’Espresso fino praticamente alla sua morte?

Questo è ciò che lui chiamava il suo terzo scaffale, dopo quello dei libri teorici e dei libri narrativi. Sarà sì il terzo scaffale, ma non in ordine di importanza, in quanto questi scritti per certi versi sono i più interessanti perché intervengono con grande capacità di analisi sull’attualità, italiana e no. Tra l’altro, prima di iniziare le sue bustine di Minerva, era già stato editorialista de L’Espresso, e ancora prima de Il Manifesto, dove si firmava con uno pseudonimo. Nelle prime bustine (anni ‘80 e primi anni ’90) si occupava molto di mass media, mentre nelle ultime dominano gli articoli sul web e sui social media perché l’interesse verso i media si ridimensiona e diventano per lui più interessanti i nuovi media.

A proposito del potere destabilizzante dei media Eco aveva coniato il concetto di guerriglia semiologica…

Questa è una nozione che formula in un convegno a New York del 1967. Essa dice che uno dei modi per combattere i media è usare i media stessi stravolgendone il significato, prendendo per esempio un Tg e facendolo diventare una trasmissione comica. Ciò poi è effettivamente successo con le TV private, che ne hanno stravolto il senso, ma ancor prima nel ‘77 quando, soprattutto a Bologna, al DAMS dove lui insegnava, nasce il grande movimento di sberleffo verso i media. Il concetto di guerriglia semiologica Eco lo formula nel 1967 ma ci vogliono dieci anni prima che la gente lo capisca e lo metta in pratica.

Ci potrebbe dire qualcosa su Sulle spalle dei giganti, la raccolta, uscita postuma, delle conferenze che Eco ha tenuto per molti anni alla Milanesiana, festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi?

È un libro molto bello per varie ragioni, per esempio perché contiene conferenze per un vasto pubblico e dunque scritte in modo non accademico. Poi, leggendolo, si ripercorrono i grandi temi tipici della sua opera, come quello del complotto, di cui si parla soprattutto ne Il pendolo di Foucault, della verità, della falsità e della menzogna, della bellezza, della bruttezza, dell’assoluto e del relativo, ecc.. Il saggio più interessante è il primo, quello che dà il titolo al libro, appunto Sulle spalle dei giganti, dove Eco riprende questo vecchio aforisma di Bernardo di Chartres (XII sec.): “Siamo come dei nani ma sulle spalle dei giganti”, ne ripercorre la storia spiegando come esso è un modo per leggere la storia della cultura. Partendo dal concetto di parricidio dice che tutti i figli vogliono uccidere i padri per riprendere i nonni, cioè l’andare avanti nella storia della cultura è sempre stato il tentativo di recuperare non ciò che ha detto la generazione precedente, ma quella precedente ancora, e quindi guardare verso il futuro è sempre guardare verso il passato, cioè stare sulle spalle dei giganti significa riprendere la tradizione, ma guardando un po’ oltre.

Cosa avrebbe voluto dire sull’attualità della semiotica dopo Eco al Festival Mimesis di Udine a cui avrebbe dovuto partecipare il 28 ottobre scorso?

Avrei detto che, usando lui come gigante sulle cui spalle poter stare, possiamo andare un po’ oltre. Credo poi che Eco ci abbia lasciato l’idea dell’enciclopedismo, e dell’utilizzo della semiotica non come teorie fini a se stesse, ma come degli occhiali con cui guardare criticamente il mondo. Infine, avrei parlato dell’idea di critica usata da Eco intesa sia nel senso kantiano di studio delle condizioni di possibilità della conoscenza, sia in quello di intervento polemico rispetto all’attualità.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

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