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“Transmedia storytelling, tra brand ed entertainment”

Due libri che riflettono sulla transmedialità passando per un caso mancato, quello di Gomorra. La serie

Transmedialità, per Jenkins, come processo dove una narrazione “passa” da un medium all’altro secondo un processo unitario e coerente, dove ogni testo offre un contributo distinto e importante alla narrazione stessa. Transmedialità come concetto ulteriormente ampliato e rivisto da Scolari, che esce fuori dall’idealtipo fornito da Jenkins. Franchise transmediali compatti e coerenti come quello di Matrix, mentre franchise transmediali più sfilacciati e meno coerenti come quello di Harry Potter. Ancora, franchise transmediali meno compiuti e in un certo senso incompleti come quello di Gomorra. La serie, che anche nel sito del suo protagonista, l’attore Salvatore Esposito (Genny Savastano), parla sì di Gomorra 5, ma pure dei suoi due romanzi e delle sue altre attività, per cui si può parlare, come affermava Eco, di serialità basata sul personaggio dell’attore, e non di espansioni transmediali di Gomorra. La serie. Infine, transmedialità applicata non solo all’entertainment, ma anche alle marche, per cui si può parlare di transmedia branding, ad esempio, per la Barilla, seppure questa creazione di storyworld da parte delle imprese non è molto diffusa, neanche negli USA.

Di ciò si è parlato con Paolo Bertetti, semiologo e studioso dei media dell’Università di Torino – dove partecipa attualmente al progetto ERC NeMoSancti – in relazione a due suoi volumi, Che cos’è la transmedialità, edito da Carocci nel 2020, e Transmedia branding. Narrazione, esperienza, partecipazione, pubblicato per Edizioni ETS nello stesso anno.

Cosa si intende per transmedialità e come è cambiato il significato di questo termine dopo la classica definizione data Jenkins nel 2006 nel suo Convergent Culture?

Partirei proprio da Henry Jenkins, il quale è tornato più volte sulla definizione di transmedialità e con formulazioni più o meno analoghe, anche se diverse. Una classica è quella che la definiva “un processo dove elementi integrati di una narrazione vengono dispersi sistematicamente attraverso molteplici canali, con lo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata. Ogni testo offre un contributo distinto e importante all’intero complesso narrativo.” La prima volta in cui è comparsa la definizione di transmedia storytelling è stata in un articolo di Jenkins pubblicato sulla rivista online del Massachusetts Institute of Technology, dove lui allora lavorava, poi è stata ripresa nel suo libro, molto noto anche in Italia, Cultura convergente, e via via ripresa più volte in scritti ulteriori, con ulteriori precisazioni. Jenkins tiene da sempre un blog molto interessante dedicato alle novità della cultura di massa, non soltanto della cultura digitale, dove è ritornato spesso anche sul tema della transmedialità, arricchendolo di ulteriori declinazioni. Questa definizione era appunto in uno dei post pubblicati sul suo blog, ed è particolarmente interessante perché ci evidenzia due aspetti fondamentali: che si tratta di elementi di una narrazione (quindi noi siamo di fronte a un racconto), declinata però attraverso testi diversi, su canali diversi, su media diversi. Quindi ecco che qui rientrano tutti i grandi franchise transmediali. Ad esempio, pensiamo a Star Wars, che ti racconta questa grande storia della caduta della vecchia Repubblica galattica, la nascita dell’impero malvagio, e poi la lotta dei ribelli per sconfiggere il nuovo impero e instaurare nuovamente la Repubblica nella galassia. Tutta questa grande vicenda viene declinata non soltanto attraverso i vari film – quelli della trilogia classica, quelli della seconda trilogia di film degli anni ‘90, e quelli più recenti prodotti dalla Disney – ma attraverso tutta una serie di altri testi che vanno dai fumetti ai disegni animati, alle serie televisive – pensiamo ad esempio alla recente serie di The Mandalorian e un mucchio di altre che la Disney ha sviluppato negli ultimi anni: ogni testo racconta una porzione diversa di questa grande storia. Quindi, Star Wars è diventato, a partire dagli anni ‘90, un vero e proprio franchise transmediale, una vera e propria narrazione transmediale, dove noi abbiamo un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata, nel senso che ognuno di questi testi offre, come dice Jenkins, un contributo distinto al grande affresco generale e si rivolge a pubblici del tutto o in parte diversi, per cui ad esempio, i disegni animati saranno rivolti a un pubblico più giovane, quello delle serie televisive sarà in parte quello dei film, ma non necessariamente (potrebbe essere più ampio o comunque diverso). Ovviamente nessuno, vista la vastità di questo universo, potrà seguire tutti i film, tutte le serie televisive e non parliamo poi dei romanzi dedicati alla saga. Però, se uno frequenta l’universo di Star Wars attraverso i diversi testi e i diversi media  ecco che entra comunque in un’esperienza immersiva di intrattenimento che è più grande di quella delle singole parti.

Altra cosa importante dell’idea di Jenkins è che ci sono, dietro ai franchise transmediali, forti motivazioni economiche (in questo senso qualcuno dice in realtà Jenkins è un po’ un uomo di marketing e non soltanto uno studioso di media). Con la transmedialità si tratta da un lato di rivendere un universo creativo, un contenuto narrativo a pubblici differenti che fruiscono di media diversi, dall’altro c’è anche quest’idea della cosiddetta cross promotion, cioè il fatto che pubblici diversi possono approcciarsi partendo da media differenti all’universo di Star Wars.

Quindi c’è chi ovviamente, e sembrerebbe la cosa la più classica, vede questa saga al cinema, poi incomincia a leggere i romanzi e va infine a vedersi le serie televisive, ma potrebbe capitare benissimo l’opposto, cioè uno incrocia l’universo di Star Wars nelle serie televisive e poi da lì incomincia a consumare il prodotto acquistando anche testi su media diversi (potrebbe ad esempio decidere di comprarsi tutta la trilogia classica in DVD, perché ha visto The Mandalorian e gli è piaciuto, potrebbe poi passare a leggere i fumetti, e quant’altro). Ecco pertanto quest’idea di cross promotion, di promozione incrociata tra i vari media.

Dopo la classica definizione di Jenkins, c’è stata quella di Scolari, che diceva, riprendendo Quintiliano, che una narrazione transmediale può procedere per addizione, omissione, permutazione, trasposizione…

Quella di Scolari è un po’ più ampia perché voleva classificare i vari modi in cui dei contenuti mediali passano da un medium all’altro. La definizione di Jenkins dice che ogni testo offre un contributo distinto e importante all’intero complesso narrativo. Questo significa che al centro della concezione di Jenkins c’è non solo l’idea di coerenza dell’intero universo narrativo – dove tutti gli elementi devono essere coerenti tra loro, evitando quindi le contraddizioni – ma anche, come diceva lui, quella di evitare la ridondanza di contenuti. È chiaro che in una trasposizione, cioè nel passaggio da un romanzo che viene tradotto/trasposto nelle immagini di un film, vi è invece una ridondanza di contenuti. Però Scolari ha i suoi motivi per dire questo, perché quello di Jenkins è un modello ideale, mentre in realtà nessuno dei franchise transmediali – o pochissimi – hanno effettivamente un’assoluta coerenza, una non ridondanza dei contenuti e quindi una non sovrapposizione. Pensiamo a un franchise transmediale come Harry Potter, che un è un caso piuttosto incongruo se lo vediamo dal punto di vista del modello ideale di Jenkins, perché nasce come serie di romanzi per ragazzi che vengono trasposti in film – abbiamo quindi una ridondanza – e da lì poi si amplia in maniera a ulteriori testi su media diversi . La stessa cosa si può dire di tanti altri franchise transmediali.

Il discorso della coerenza è ancora più spinoso, perché via via che si estende il franchise transmediale, e quindi c’è un numero sempre più diversificato di testi, diventa difficile riuscire a mantenere un’assoluta coerenza; pertanto, ecco che di fatto quello di Jenkins è solo un modello ideale a cui tendere. Se si guardano anche gli esempi classici che faceva Henry Jenkins… sì, Matrix, per esempio, è coerente come progetto transmediale e non è ridondante, ma si tratta di progetti tutto sommato abbastanza limitati come numero di testi che afferiscono ad essi. Se, invece, andiamo su franchise che si estendono su universi narrativi molto più ampi, tutto diventa più complicato. Questo è il problema.

Quindi, già con Scolari la parola “transmedia” assume un significato leggermente diverso, perché include anche le trasposizioni, le parodie, i mashup e quant’altro, che non sempre rientrano nella definizione di Jenkins. Il concetto di transmedia è stato poi ulteriormente ampliato: ovviamente, via via che un termine si diffonde viene sempre più applicato a cose diverse, a proposito e a sproposito, e finisce di diventare un termine ombrello. Nella vulgata all’interno della transmedialità vengono spesso inserite tutta una serie di cose che hanno a che vedere, in maniera molto più generale, con il semplice trasferimento di contenuti da un medium all’altro.

Senza pensare all’aspetto di coinvolgimento e di partecipazione, quindi del fandom…

Questo è un altro aspetto che per Jenkins è centrale, e qui, in qualche maniera, iniziano i problemi, perché da un lato Jenkins parla di progetti che sono coordinati, unificati e quindi costruiti dall’alto, dall’altro Jenkins, che ricordiamo viene dalla tradizione dei Fandom Studies (studi sui fan), parla di produzioni dal basso (fandom). Non a caso il blog di cui parlavo prima si intitola appunto Le confessioni di un aca-fan, cioè academic fan: Jenkins si considera un fan che studia accademicamente i fan e quindi anche sé stesso, con una dichiarata circolarità in questo. In effetti, è un po’ quello che fanno numerosi studiosi, che a volte non fanno soltanto un’osservazione partecipata del fandom, ma sono effettivamente fan, partecipando e a volte promuovendo le iniziative di quest’ultimo. Direi più in generale che si tratta di un’attitudine che abbiamo un po’ tutti noi che ci occupiamo di quella che una volta sarebbe stata detta cultura di massa, popular culture: in qualche maniera siamo noi i primi fan di queste produzioni, ne siamo coinvolti, e quindi c’è questo coinvolgimento dell’osservatore.

Jenkins proviene dal fandom, e pertanto ritiene importante appunto il coinvolgimento dei fan sia nella costruzione dell’universo narrativo – il fan scrive fanfiction, realizza video, produce tutta una serie di produzioni testuali che vanno ad arricchire l’universo narrativo – sia perché è anche quello a cui si rivolge, come consumatore ideale, la produzione. Jenkins vede dunque in maniera molto dinamica queste interazioni fra le produzioni top down e quelle bottom up. Certo, ciò ovviamente crea tutta una serie di frizioni tra industrie produttive e fans (io ne parlo in Che cos’è la transmedialità), legate proprio al fatto che da un lato c’è lo sviluppo degli universi narrativi che deve essere coerente, non ridondante ecc., dall’altro c’è il fan che rivendica la sua libertà di poter costruire narrazioni che vanno anche al di là di quello che è considerato il canone. Sorge pertanto il problema controllare questa deriva, anche perché, a volte, è capitato che si sono avute produzioni del fandom che potevano essere alquanto imbarazzanti per le case di produzione (come ad esempio una versione erotica e iperviolenta dei Power Rangers), o comunque andare contro i loro interessi, anche economici.

Per me, che ho un’impostazione di tipo semiotico, la transmedialità si può avere indipendentemente dalla partecipazione dei fan, e dal loro contributo produttivo. D’altro canto questo coinvolgimento, seppur non necessario, è qualcosa certamente presente, se vogliamo anche uno degli scopi che si hanno quando si fa una traduzione transmediale: ad esempio il fatto di coinvolgere il fandom nella promozione, o anche soltanto di stimolare i fan attraverso i social, produce un fenomeno di dialettica, di dinamica tra produttore e consumatore.

Si può parlare di adattamento/trasposizione da Gomorra, iI romanzo di Saviano, al film omonimo di Garrone e a Gomorra. La serie, che per le prime tre stagioni ha avuto come showrunner Stefano Sollima, oppure di vero e proprio franchise transmediale?

Premesso che non ho seguito Gomorra. La serie in tutte le sue declinazioni e in tutte le sue stagioni, però in linea di massima posso dire che sicuramente c’è una componente transmediale. Intanto c’è il romanzo. Sappiamo tutti che Gomorra nasce come un libro, diventa poi un film… e prima ancora un’opera teatrale. Quindi in questi due casi… non ho visto l’opera teatrale, ma quantomeno tra libro e film si tratta di un caso di adattamento/trasposizione: ovviamente c’è una semplificazione delle linee narrative, ma anche nel film si ricrea un insieme, un patchwork, di più storie. Per la serie televisiva, invece, ci troviamo di fronte sicuramente a un’espansione: di fatto la fiction presenta del nuovo materiale narrativo. In Gomorra. La serie abbiamo dei testi che espandono l’universo narrativo, raccontando le storie dei diversi personaggi, ampliandole, raccontando i retroscena e aggiungendo anche materiali narrativi nuovi, a volte anche ripresi da altre fonti, da altre indagini che nel frattempo aveva fatto Saviano. Quindi, da questo punto di vista, siamo sicuramente di fronte a un caso di espansione narrativa su media diversi…

Pertanto qui si ha un caso di transmedialità?

Sì, questo è sicuramente un caso di transmedialità, che presenta in un media diverso nuovi materiali narrativi, coerenti e non ridondanti. Oltre al resto c’è anche un’altra caratteristica individuata da Jenkins, cioè il fatto che questi materiali sono assolutamente fruibili anche da chi non ha letto il libro, o non ha visto il film; quindi la serie è un altro punto di accesso possibile – e anzi lo è stato sicuramente per molti – all’universo narrativo di Gomorra…

Allora lei parla di trasposizione da Gomorra libro a Gomorra film e a Gomorra teatrale, mentre parla di espansione transmediale per quanto riguarda la serie…

Sì, è un’operazione che può essere vista come transmediale, proprio perché espande in maniera coerente e non ridondante in un altro medium l’universo narrativo di Gomorra. Diciamo però che quella di Gomorra. La serie è una transmedialità alquanto limitata, perché abbiamo sì l’espansione del romanzo (e del film) in una serie televisiva, ma manca un po’ tutto il resto. Invece, nelle produzioni americane, c’è tutta un’altra serie di testi narrativi che può accompagnare la serie televisiva: webisode, mobisode, videogiochi, fino ad arrivare ai fumetti o alle action figure. Ora, tutto quello che si diceva prima, cioè l’idea di sfruttare questi contenuti narrativi per rivederli sotto forme diverse o per promuoverli su media diversi e presso pubblici diversi, per il prodotto Gomorra non c’è. Fondamentalmente la serie è stata promossa da Sky in maniera abbastanza tradizionale. E dire che si sarebbe pure prestata, è facile pensare a come si sarebbero potute fare delle espansioni transmediali. Ad esempio, sarebbe stato interessante fare delle espansioni giornalistiche, con approfondimenti su determinate tematiche…

L’ha fatto un po’ Rai Tre quando ha messo in onda la prima stagione di Gomorra. La serie.

E anche Saviano sul suo sito ha portato avanti un po’ queste espansioni, però fondamentalmente questo è un elemento che manca, come manca qualsiasi coinvolgimento della fan base. Dico ciò in base a quello che conosco io, che come dicevo non ho approfondito molto il caso Gomorra. Ma mi sono fatto quest’idea. Per certi versi è transmediale, per altri sfrutta poco la possibilità della transmedialità.

Infatti, anche a livello di Sky, lo sfruttamento transmediale di questa fiction non coinvolge più di tanto. Io ho guardato il canale YouTube Sky Italia, ma Gomorra. La serie viene posta sotto la playlist Serie TV, che contiene solo undici video della stagione finale, più qualcuno delle altre stagioni. Invece, per quanto riguarda Mad Men, la AMC al 2021 aveva un canale YouTube con una playlist dedicata alla serie di 175 video: si tratta di una politica editoriale, tra i due network, molto diversa.

Sì, sì, ma è una cosa che è abbastanza comune: in genere nelle produzioni italiane non siamo ancora entrati del tutto in quest’idea qui; probabilmente è diverso proprio tutto il panorama produttivo.

In che senso il franchise di Gomorra si può dire transmediale, che storyworld ha creato Sky, produttrice della serie, che ha dato origine alla produzione dall’alto (top down), non sempre coerente, in questo senso, come abbiamo appena detto? In proposito, si può parlare, come diceva Nuno Bernardo, di brand extension e non di organic transmedia?

Sicuramente Gomorra è un brand. Nuno Bernardo fa vedere bene nel suo modello come da una narrazione centrale possano svilupparsi tutta una serie di testi su supporti diversi. Qui però non c’è brand extension: abbiamo una serie televisiva che è sì transmediale, perché comunque espande la narrazione originaria, ma a sua volta non si espande ulteriormente o si espande pochissimo. C’è un’eccezione significativa, il film del 2019 L’immortale, che è una sorta di spin-off  rispetto alla serie televisiva: questo potrebbe dare origine  a ulteriori produzioni in medium ulteriormente diversi, ma non mi pare che ciò sia finora successo. Anche qui mi sembra che si tratti di un tentativo piuttosto estemporaneo.

Sembra esserci però un’eccezione: Salvatore Esposito, il famoso Genny Savastano, protagonista della serie, ha un sito web (www.salvatore-esposito.com), dove ospita anche una vivace attività di merchandising, promuove due suoi romanzi e propone dei quiz sulle sue attività… Quella, forse, si può considerare un’espansione transmediale?

Vedo che sul sito lui vende anche borracce, tazze… Però, i romanzi, ad esempio, sono del tutto eterodossi, non relativi a Gomorra. Poi, questo è un sito che non ha nemmeno a che vedere con una qualche sorta di produzione di fan: è incentrato più su Salvatore Esposito come autore, attore e personaggio, che richiama sì anche Gomorra. La serie, ma senza rifarsi in modo diretto ed esplicito al suo universo transmediale. Infatti, Esposito parla di Gomorra 5, che è la serie TV, ma anche di Rosanero, altro film che ha interpretato, e di altre sue attività. Questo sito, pertanto, non è un’espansione transmediale tipica della serie, ricorda semmai quella che Eco a suo tempo aveva definito una serialità basata sul personaggio dell’attore, per cui il fatto di ripresentare lo stesso attore in film diversi, anche indipendenti tra loro, creava una sorta di effetto di serialità…

Però del personaggio, dell’attore, e non dell’”attore Gomorra”!

Sì, esatto, come poteva essere il caso di Humphrey Bogart. oppure di Schwarzenegger che, oltre a Conan il Barbaro, ha interpretato altri personaggi in cui faceva il barbaro muscoloso, armato di spada, personaggi che non erano Conan, ma che in qualche maniera lo richiamavano.

Secondo un’ottica di cultura partecipativa come funzionano le produzioni dal basso (bottom up), e quanta parte hanno avuto nel contribuire allo storyworld di Gomorra (mi riferisco soprattutto alla serie)? Ad esempio, www.archiveofourown.org contiene alcune fanfiction dedicata al film Gomorra, mentre su www.fandom.com, sito che ospita numerosi wiki, quello dedicato a Gomorra. La serie, risulta ancora in costruzione, e tra l’altro è veramente fatto malissimo perché in alcune pagine ci sono addirittura degli errori marchiani, sia di ortografia che di battitura.

Ma anche in www.archiveofourown.org (mi son divertito a cercare), per Gomorra mi dava 89 entry, ovvero 89 testi di fanfiction, un numero piuttosto limitato rispetto a quelle di altre narrazioni: se invece uno scrive Harry Potter, si trova di fronte a qualche decina di migliaia di lavori. In un convegno sulla serialità tenuto otto anni fa a Urbino, Mario Tirino e Antonella Napoli hanno lavorato insieme sul fandom di Gomorra, a proposito del quale notavano che era molto limitato e perlopiù fortemente regionalizzato, circoscritto alla Campania. È vero che hanno detto questo alcuni anni fa, poi nel frattempo magari la cosa si sarà evoluta, ma comunque il fandom di Gomorra è veramente limitato rispetto al numero di fanfiction veramente impressionante di certi media franchise. Alcune fanfiction di Gomorra tra l’altro sono mashup: per esempio, uno metteva insieme Gomorra e X Files (era indicizzato così), poi c’era addirittura Gomorra e Star Trek

Esistono, per uscire dal semplice entertainment, altri casi di transmedia branding, per esempio rifacendosi a delle marche di prodotti come la Barilla?

Mi fa piacere ricordare il volume Transmedia branding, curato da me e da Giuseppe Segreto, dove ho parlato di transmedialità applicata ai beni di consumo. Il testo era frutto di un incontro fatto all’interno delle attività del Master in Comunicazione d’Impresa di Siena, che ha organizzato questa giornata di studi,  che si è poi trasformata in un libro. In esso si parlava dell’importanza, per la comunicazione delle imprese, di una visione transmediale: perché in una comunicazione di brand è ormai necessario lavorare anche sulla tale dimensione, fare soltanto uno spot pubblicitario non basta più, occorrono operazioni più articolate di coinvolgimento dei destinatari, dei clienti, che in quest’ottica non sono più soltanto consumatori, ma fan, promotori della marca, del brand. Essi diventano sempre più brand ambassador, ambasciatori della marca, che diffondono il marchio parlandone bene, per esempio sui social, condividendo i materiali delle campagne pubblicitarie, le immagini dei prodotti e quant’altro. Via via si è sempre più avvertita l’importanza di avere degli universi narrativi di marca: questo l’aveva già capito Barilla tanti anni fa, costruendo un vero e proprio mondo narrativo , uno storyworld, come quello del Mulino Bianco. Un mondo narrativo che non nasce nell’entertainment, ma è appunto un mondo di marca.

Da qui si arriva alla costruzione di un branding transmediale, di una promozione del brand attraverso azioni narrative su media diversi, che sollecitino anche il coinvolgimento la partecipazione attiva dei destinatari. E’ una cosa ormai sempre più diffusa, anche se dominano ancora campagne di promozione abbastanza tradizionali, e non solo in Italia. L’altro giorno ho letto un’analisi, uscita sul Sole 24 ore, sugli spot apparsi sulla televisione americana in occasione del Super Bowl, dove si lamentava appunto il fatto che molte di queste campagne ragionavano ancora in termini tradizionali di spot, diffuso in occasione del Super Bowl, ma spesso senza un apparato che potesse coinvolgere a livello di social (per es., con giochi e premi), con ulteriori narrazioni via web, espansioni di vario tipo fatte per poter essere divulgate e diffuse e coinvolgere anche i fan; senza quindi un’ottica transmediale, nella quale lo spot diventa soltanto un momento di una strategia più ampia che coinvolge media e canali diversi. Purtroppo, quella transmediale è una logica che non solo in Italia gran parte delle aziende ancora non segue.

Se non ho capito male, sarebbe la vecchia logica da Poltronesofà quella che lei critica, cioè inondare di spot senza creare un mondo…

Sì, senza creare un mondo e senza coinvolgere appunto i pubblici di riferimento, i fan, che poi diventano brand ambassador. Non sono solo io che faccio questa critica, ma anche l’estensore dell’articolo; mi consola sapere che non è solo in Italia che tale politica di transmedia branding non è ancora diffusa, ma che questo succede negli States, mentre continuano a imperare e a mantenersi logiche più antiche.

MARIA GRAZIA FALÀ