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“Franchise Gomorra, non brand ma mondo”

Angela Maiello, dell’Unical, riflette sull’universo transmediale di Gomorra. La serie

Tutto il mondo escluso da Gomorra. La serie, declinato poi attraverso la partecipazione dell’utente, anche se forse questa attività, con il prosieguo delle stagioni, è andata un po’ scemando. Sky Italia che, a livello di produzione, oltre ad aver creato per esempio giochi interattivi online, e aver fatto altre promozioni, ha dato origine a uno spin-off, il film L’Immortale di Marco D’Amore (Ciro Di Marzio nella serie), che opera un’efficace espansione transmediale. Espansione transmediale che non si può dire esista pienamente, anche se è normale il cortocircuito tra esposizione mediale delle celebrity sui social e fandom, nel caso delle attività social di Salvatore Esposito (Genny Savastano), che sul web si presenta pure come attore di altri film e romanziere. Poi, esistenza del brand Gomorra, anche se preferibilmente si potrebbe parlare di mondo Gomorra. Queste sono le ipotesi formulate da Angela Maiello, docente di Web e nuovi media all’Università della Calabria, a proposito di un suo libro e due saggi su Gomorra. La serie.

Lei ha studiato a più riprese il fenomeno Gomorra, e nel suo articolo del 2017, Fuoricampo transmediale, ha sottolineato come la serie si presenti come un sistema chiuso, dove la decodifica parodica che in qualche modo “spezza” il coinvolgimento empatico che essa potrebbe suscitare, proviene proprio dal fandom, ovvero da una prospettiva dal basso egregiamente espressa da The Jackal, come “prodotto illustre”, appunto, del fandom. È così?

Più o meno è così. L’idea di cui parto in quell’articolo, e che ho ripreso più volte, è che vi sia una ibridazione tra la struttura narrativa che la serie propone e quello che eccede la narrazione stessa e che appunto avviene nell’ambito della partecipazione online e delle forme espressive intermediali o transmediali. A quell’articolo davo appunto il titolo di Fuoricampo Transmediale, perché da un lato la caratteristica di Gomorra. La serie è quella di creare un mondo particolarmente chiuso, impermeabile; tanto è vero che la cosa su cui più si è dibattuto, soprattutto all’inizio, era il fatto che non venisse rappresentato ciò che c’è oltre il Sistema (inteso come sistema camorristico), ovvero la società civile, la lotta alla criminalità organizzata, lo Stato. Dall’altro, però, Gomorra è stata forse la prima serie, o senza forse, è stata la prima serie italiana (o la seconda, se la prima è Romanzo criminale) a generare una grande partecipazione da parte dei fan e anche molto dibattito culturale in senso ampio in relazione proprio alla narrazione.

Quindi, è come se si fosse aperta, a partire dalla narrazione appunto, una partecipazione degli utenti che, più che spezzare il coinvolgimento empatico, è come se lo declinasse attraverso anche altre modalità. Questa non è una specificità solo di Gomorra. La serie, anzi, forse la specificità del formato seriale tout court è proprio quello di riuscire a coinvolgere e a sollecitare questo tipo di partecipazione dello spettatore. Quello che colpisce in Gomorra è che tutto ciò che è escluso dalla narrazione ritorna, o quantomeno viene declinato poi attraverso la partecipazione dell’utente.

Poi c’è anche da dire che cinque stagioni sono tante, e che pertanto la partecipazione magari col tempo è andata in parte scemando rispetto alle prime stagioni, ma questo è un po’ fisiologico nella modalità di produzione e distribuzione di una serie. Comunque, l’universo Gomorra è sicuramente un universo capace di dialogare in questo modo con il fuori, cioè con quello che c’è fuori dalla narrazione stessa.

A questo punto le anticipo una domanda: rispetto alla vivace attività di fandom, Sky invece non ha fatto molto per promuovere, alla fine della messa in onda di tutte le stagioni, il brand Gomorra 5, escludendo qualche campagna di marketing… Infatti, su YouTube, Sky Italia ha solo una playlist dedicata a tutte le serie che manda in onda, e non esclusivamente a Gomorra, e a questa dedica soltanto una quindicina di video, di cui circa dieci relativi a Gomorra 5. Lei cosa ne pensa?

Lei si riferisce soprattutto a Gomorra 5?

Sì, a Gomorra 5, perché mi sembra che la produzione abbia tralasciato la promozione transmediale, cioè non si sia creato uno storyworld transmediale da parte del produttore, a differenza invece del forte fandom generato, che ancora adesso è notevole…

Non sono un’esperta di marketing, quindi non ho studiato nello specifico le azioni messe in campo da Sky. Sicuramente però, in occasione della terza stagione, Sky aveva realizzato, ad esempio, un contenuto interattivo online per cui era possibile chiedere ad uno dei protagonisti di Gomorra di mandare una sorta di messaggio intimidatorio ad un altro utente perché non facesse spoiler, che sicuramente rientra in questa logica transmediale.

Nello specifico, non ho informazioni sulla quinta stagione, naturalmente è la stagione di una serie che volge al termine, che magari anche in termini economici richiede un investimento minore. Faccio presente però che la grande promozione delle ultime stagioni è costituita dal film L’immortale (2019), che rientra perfettamente nella logica della transmedialità, e credo che questa sia una delle operazioni più interessanti, in termini di produzione e distribuzione, fatte da Sky. A cui si aggiungono le varie occasioni di rilocazione del racconto seriale, per promuovere sia la terza che la quarta stagione, che hanno portato la serie sul grande schermo. Trovo molto interessante questo tipo di operazione: se la visione delle serie infatti è sempre più diventata qualcosa di privato, che forse non arriva neanche più al salotto di casa – si pensi alle piattaforme, al binge watching, ecc- –nel portare una serie al cinema si vuole ricreare proprio l’evento collettivo. Si tratta di operazione che vanno ad alimentare proprio quel fandom di cui lei parlava e che trova espressione principalmente online.

Certo, quindi lei non è d’accordo con Paolo Bertetti che, un’intervista che gli ho fatto, ha parlato in pratica di Gomorra. La serie come un caso mancato di espansione transmediale…

L‘operazione del film rientra perfettamente nella logica transmediale e per certi versi è paradigmatica: la terza stagione si chiude con la morte di Ciro, che ha rappresentato un vero e proprio shock per i fan – si ricorderanno in proposito i commenti online alla notizia della morte di questo personaggio. Dopodiché, però, quasi in segreto, perché il dubbio un po’ si insinuava, il film fa rinascere Ciro con quell’espediente narrativo di raccontare la sua nascita, avvenuta appena prima dall’evento catastrofico del terremoto in Irpinia, sfruttando anche in questo caso un riferimento all’immaginario nazionale, e locale, enorme. E lo fa con un altro formato mediale, cioè il film, per poi ricollegarsi narrativamente alla serie da cui riparte la stagione successiva.

Quindi, certo, mancano i videogame o altri formati del racconto, però ripeto, tenendo conto che anche di promozioni Sky fatte attraverso delle estensioni interattive della narrazione, il caso Gomorra in Italia,  in termini di transmedialità resta esemplificativo e paradigmatico. Non possiamo sempre parlare di transmedialità in senso stretto, ma sicuramente lo possiamo fare nel rapporto serie-film (L’immortale). Pertanto, secondo me questo rapporto tra serie e cinema è stato molto ben sfruttato nella dinamica, nella logica di produzione e creazione della serie.

Poi bisognerebbe fare pure un ragionamento sul sistema produttivo italiano, sulla sua capacità di attivare creatività e competenze diverse intorno ad un medesimo mondo narrativo… In ogni caso, però mi sembra che non c’è una serie italiana che ha fatto quello che ha fatto Gomorra. Quindi, da questo punto di vista, quantomeno nel rapporto serie-film, non quello di Garrone, ma quello di D’Amore, mi sembra che sia un’operazione transmediale riuscitissima, innanzitutto narrativamente. Infatti, ripeto, la terza stagione della serie si conclude generando quella forte partecipazione degli utenti, a cui la narrazione risponde con il film, per poi riprendere la struttura seriale.

In un altro suo saggio, contenuto nel volume Universo Gomorra (2018, a cura di Guerra, Martin e Rimini), lei afferma che la morte di Ciro Di Marzio, alla fine della terza stagione, conclude un’epoca. La totale chiusura verso il bene che caratterizza la serie, esemplificata da molti personaggi e in particolare appunto da Ciro, sembra finire con la sua uccisione, aprendo gli utenti/ spettatori la possibilità “di essere protagonisti e autori di un racconto alternativo nelle forme ludiche o ironiche che principalmente la rete contempla.” (Maiello 2018, p. 39) Ce ne potrebbe parlare?

In parte ho già risposto a questa domanda. Diciamo così, Ciro è il Saviano mancato del libro. Nel libro, Saviano stesso rappresentava quello sguardo dentro il sistema camorristico, ovviamente, pur restandone fuori (quindi proprio il corpo di Saviano è diventato lo spazio di confine tra il dentro e fuori del sistema camorristico). Analogamente, il personaggio di Ciro sembrerebbe, proprio all’inizio della prima stagione, voler svolgere lo stesso ruolo, salvo poi -e da lì poi parte la tragedia della narrazione-decidere di non svolgerlo ed essere risucchiato dentro il Sistema. Quindi, Ciro rappresenta quel fuori che non si vede mai nella serie. Paradossalmente, tra l’altro ho scritto quell’articolo quando appunto non sapevo che Ciro in realtà era vivo.

La morte di Ciro, Io dico in quell’articolo, è il vero finale di Gomorra e questo lo sottoscriverei, tanto è vero che sappiamo, le serie hanno una fine che non necessariamente coincide con il loro finale, come dice Jason Mittell. La fine è quando, anche per ragioni produttive, la serie termina, mentre il finale potrebbe essere il momento in cui la narrazione si chiude, trova un senso, una configurazione. Sicuramente la morte di Ciro è il vero finale di Gomorra. La serie, per tante ragioni: per il suo essere sempre appunto dentro, ma anche fuori, perché lui non è figlio del boss, ma viene in qualche modo adottato e perché si sacrifica per questo fratello putativo, Genny, e perché, per ragioni sia narrative che mediali, dalla morte di Ciro in poi il racconto ricomincia. Tant’è vero, come dicevo prima, che ricomincia con un film in cui vediamo la nascita di Ciro, per poi riproporre la stessa dinamica di potere e di lotta di nuovo con Genny che sappiamo arriverà in seguito alla fine della serie con l’ultima stagione.

Quindi in quel momento, se veramente quella fosse stata la fine della serie, appunto, essa sarebbe stata restituita in questo modo agli utenti e agli spettatori.

Però, il fatto che Ciro non sia morto, ma che, da un punto di vista narrativo e mediale, sopravviva in quel modo, è la conferma che quello fosse il vero punto di fine della serie, perché poi essa è costituita da un nucleo tematico che deve essere reiterato, che nel caso di Gomorra è la lotta per il potere, che riprende uguale e diversa, anche se il nucleo resta lo stesso.

Partendo da una prospettiva top down, emerge per esempio che Salvatore Esposito (Genny Savastano) ha un gruppo Facebook Salvatore Esposito & Friends, un sito web www.salvatore-esposito.com, e un account ufficiale TikTok. In tutti questi casi però, compare soprattutto la sua figura attoriale e di romanziere. Qui, come affermava Umberto Eco ne L’innovazione nel seriale (1994), si tratta di una serialità basata sul personaggio dell’attore, quindi non di una transmedialità dal punto di vista della produzione di Sky, ma soprattutto da parte del singolo personaggio…

Io svincolerei questa questione dell’attore sia dal tema della transmedialità sia anche da quello, appunto, che affronta Eco sulla serialità basata sul personaggio dell’attore, che ha a che fare più che altro con quei tipi di racconti seriali dove la reiterazione dell’identico è rappresentata appunto dall’iconicità del personaggio, pensiamo a Colombo. In casi come questi la serialità si dispiega e si organizza a partire da quell’identico che è appunto il personaggio che dà continuità e stabilità alla narrazione. Questa è una serialità tra l’altro molto diversa da quella contemporanea, perché appunto si basa principalmente sulla verticalità degli episodi.

Quindi io svincolerei questa riflessione sull’esposizione mediale sui social media degli attori come Salvatore Esposito da un discorso transmediale. È normale per il sistema mediale contemporaneo che gli attori abbiano i propri profili social, e quindi ciò significa anche una maggiore immediatezza nel rapporto con i fan. Tuttavia, questo non ha a che fare con le strategie transmediali o di appropriazione del racconto da parte degli utenti, cioè è un elemento che concorre pure a quel processo, ma che in ogni caso ha anche una logica propria, che ha a che fare più che altro con le forme del divismo nei media contemporanei.

Paolo Bertetti collegava questo aspetto a quanto sosteneva Eco, cioè il fatto che Salvatore Esposito fosse legato alla sua persona attoriale tout court, e quindi diceva che era importante non tanto in quanto Genny Savastano, ma in quanto Salvatore Esposito, cioè come attore che scrive romanzi, fa altri film, e che quindi non entrava a pieno titolo nell’espansione transmediale…

Sì, su questo concordo.

In pratica allora Salvatore Esposito non concorre all’espansione transmediale, anche se, per esempio sul sito, parla pure di Gomorra 5

Non concorre direttamente: naturalmente c’è una contiguità degli spazi mediali e degli immaginari, ma non è una logica ascrivibile a quella della transmedialità, quella che porta un attore ad avere una propria fanbase sui social.

In conclusione per lei, insomma, non è una logica transmediale…

No, non è transmediale: però non è che stiamo parlando di stanze ermetiche che non si parlano tra loro, è normale che il mito di Genny Savastano si alimenta anche attraverso il profilo social di Salvatore Esposito, però questa cosa non rientra nella logica della transmedialità.

Si può parlare di brand Gomorra, anche se le espansioni transmediali più significative non sembrano provenire da Sky Italia ma dagli utenti?

Non essendo un’esperta di marketing, personalmente non utilizzerei il termine brand, perché non è una categoria che mi appartiene teoricamente. Invece parlerei, perché quella è sì una categoria che ho utilizzato molto, di un mondo Gomorra, e qui, davvero, bisogna includere Saviano, il film di Garrone, la serie, e il film di Marco D’Amore. Come vede, è un mondo molto ricco che ha dato vita a molte narrazioni, alcune delle quali collegate, messe in relazione attraverso una logica transmediale. Sicuramente partecipa a questo mondo Gomorra anche Gli effetti di Gomorra sulla gente, dei The Jackal; cioè si è creato un immaginario che ovviamente è anche un brand, tanto è vero che forse la parodia più riuscita, più efficace, proprio di questo fenomeno di brandizzazione di Gomorra, è quella operata dai Manetti Bros nel loro film Amore e malavita, quando, all’inizio del film, si vedono i turisti che vanno a Scampia per un tour, realistico e autentico. Pertanto, quella mi sembra forse l’occasione audiovisiva cinematografica in cui effettivamente ci si fa carico del fatto che Gomorra, nel bene o nel male, sia anche diventato un brand, e tuttavia ci si ironizza. Detto ciò, per quanto mi riguarda, a me interessa più parlare appunto di mondo Gomorra e delle sue declinazioni che acquistano quindi una specificità mediale e narrativa in tutte le sue versioni e che comunque rappresentano un caso unico e molto significativo nell’ambito della serialità italiana. A parte Romanzo criminale, che ha avuto un percorso simile, ma non paragonabile per tante ragioni, innanzitutto storiche – dove con storico mi riferisco ad uno specifico stato di sviluppo della narrazione seriale complessa e del gusto e delle abitudini spettatoriali – sicuramente Gomorra rappresenta il prodotto audiovisivo narrativo su cui più è stato possibile esercitare una logica seriale. Quindi il mondo Gomorra resta un mondo narrativo molto forte, molto riconoscibile, che non è detto non possa portare ad ulteriori declinazioni.

MARIA GRAZIA FALÀ