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“Medicina narrativa, narrazione come cura”

Stefano Calabrese

“Medicina narrativa, narrazione come cura”

Tra medicina e narratologia, per Carocci un lavoro a sei mani su una disciplina recente

Stefano Calabrese

Un testo scritto a sei mani per delineare una nuova disciplina, la medicina narrativa, che viene definita per la prima volta sul finire degli anni Novanta del XX secolo. Narrazione intesa come cura per disagi quali la sindrome da stress post-traumatico o per malattie neurodegenerative come la demenza senile, narrazione che serve a curare e a prevenire disturbi del neurosviluppo quali l’autismo. Infine, digital narrative medicine, che aiuta con i nuovi media a produrre una migliore consapevolezza e condivisione, tra i soggetti interessati (medico, paziente, caregiver, ecc.), nella cura delle malattie. Di questo parlano Stefano Calabrese, ordinario di Comunicazione narrativa all’Università di Modena e Reggio Emilia, Valentina Conti, docente di Narratologia sempre nella stessa università, e Chiara Fioretti, docente di Psicologia clinica all’Università di Salerno, in Che cos’è la medicina narrativa, edito di recente da Carocci.

Quando nasce le medicina narrativa, e quando si afferma in Italia?

Va innanzitutto specificato che la narrative medicine (medicina narrativa) si inserisce nei presupposti di ciò che oggi definiamo medical humanities, un movimento d’opinione della metà degli anni Sessanta del XX secolo nato sotto la spinta di due critiche essenziali: da una parte, la denuncia da parte dei professionisti impegnati in vari ambiti clinico-assistenziali dell’impianto fortemente riduzionistico e medicalizzante della medicina; dall’altra parte, la tenacia della società civile nel far riconoscere il paziente come parte attiva del percorso terapeutico.

Ad ogni modo, il termine narrative-based medicine fa la sua prima comparsa nella letteratura scientifica verso la fine degli anni Novanta, per quanto una delle definizioni di narrative medicine più note a livello internazionale sia stata elaborata all’inizio del XXI secolo da Rita Charon – medico internista e docente di Clinica medica alla Columbia University di New York –, alla quale va anche riconosciuto il merito di aver contribuito alla sua nascita e al suo sviluppo a livello clinico, individuando gli ambiti di riferimento, le potenzialità e i vantaggi d’uso dell’approccio narrativo in ambito medico, e la necessità di una formazione specifica in tale direzione, fondando nel 2000 il Program of Narrative Medicine con l’annesso Master scientifico presso la Columbia University.

A partire da questo momento, la medicina narrativa proveniente dagli Stati Uniti ha acquisito sempre più importanza, diventando parte integrante del sapere medico e riscontrando un grande successo anche a livello europeo – Italia inclusa – a tal proposito sono nate, e tuttora stanno nascendo, molteplici metodologie, associazioni e consorzi con l’intento di portare avanti iniziative di ricerca sperimentale e di formazione sul tema a livello nazionale e internazionale, ad esempio, tra le realtà più attive sul territorio italiano troviamo l’Osservatorio Nazionale per la Medicina Narrativa (OMNI), la Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN) e l’Istituto Change di Torino.

Infine, non si può non ricordare che in Italia è soprattutto grazie alla Conferenza di Consenso svoltasi a Roma nel 2014 nel corso del II Congresso Internazionale Narrative Medicine and Rare Disease, organizzato dall’Istituto Superiore di Sanità con il Centro Nazionale Malattie Rare, che sono stati fissati alcuni punti chiave per la definizione di medicina narrativa ed è emersa l’importanza del suo inserimento nei percorsi di formazione del personale sanitario.

Chiara Fioretti

Quanto conta un approccio al paziente non solo orientato sulle evidenze, cioè su analisi cliniche “oggettive”, come sostiene la EBM (evidence-based medicine), in contrapposizione a quanto invece dice la NBM (narrative-based medicine)?

Dunque, si tratta non di una scelta biunivoca caratterizzata dalla logica disgiuntiva dell’aut-aut, bensì di un composto copulativo sorretto dal principio dell’et: la narrative-based medicine arricchisce le cure mediche tradizionali attraverso l’utilizzo “terapeutico” delle narrazioni del paziente, della famiglia e degli operatori coinvolti, con il risultato che le storie di vita hanno un impatto qualitativo ad personam che si aggiunge alla conoscenza scientifica acquisita attraverso i dati. A differenza della medicina basata sulle prove di efficacia, quella basata sulla narrazione parte dal presupposto che la centralità del paziente è un elemento fondamentale per garantire l’obiettivo della qualità delle cure. Pertanto, la persona malata viene considerata non più solo come oggetto di cura, ma come attivo protagonista del suo percorso terapeutico e riabilitativo, con la sua storia, le sue risorse e le sue capacità. Non a caso lo sviluppo del movimento della medicina narrativa compare sull’onda della contestazione del fatto che la capacità di ascolto dei medici è passata in secondo piano, in seguito allo sviluppo di tecnologie di diagnosi e analisi sempre più sofisticate. Le competenze relazionali e comunicative richieste dalla narrative-based medicine sono pertanto indispensabili per facilitare le narrazioni dei soggetti curati e delle loro famiglie, per raccogliere e integrare le diverse istanze e i diversi punti di vista che emergono dalle narrazioni, e per costruire un percorso di cura efficace e condiviso. In tal modo il soggetto inizia ad essere considerato non più solo come portatore di malattia, a volte come la malattia stessa, ma anche come portatore di storie, valori, significati, inseriti in un particolare contesto storico-sociale.

A parità di covarianti (condizione economica, gender, etnia, ecc.), secondo stime del National Adult Literacy Study (NALS), chi è più alfabetizzato vive di più. Potrebbe spiegare questo fenomeno?

Secondo le stime del NALS (National Adult Literacy Study), che ha creato l’espressione health literacy per riferirsi a tali effetti, circa 90 milioni di americani adulti evidenziano una relazione tra bassi livelli di alfabetizzazione (difficoltà di interpretazione semantica, scarso riconoscimento del lessico, ricorso a testi elementari) e periodi di ricovero nelle strutture sanitarie (a parità di co-varianti quali l’età, il gender, l’etnia, l’assistenza sanitaria e finanziaria ecc.). Non si tratta solo del fatto che gli individui altamente alfabetizzati hanno molte conoscenze in fatto di malattie, rischi di contagio, alimentazione, per cui evitano di ammalarsi perché esercitano una maggiore prevenzione, ma del fatto molto più generalista che chi è meno alfabetizzato ha una probabilità di ammalarsi superiore da una volta e mezzo a tre volte rispetto a chi è altamente alfabetizzato. Questo perché oggi è ormai ben indagata la relazione tra dimensione narrativa e condizioni generali di salute. La lettura porta infatti ad attivare due categorie principali di processi cognitivi capaci di rappresentare un vantaggio in termini di sopravvivenza: (i) il “deep reading”, un processo di lettura lento e immersivo, che avviene quando il lettore traccia connessioni all’interno del testo, trova modi per applicare quanto letto nel mondo al di fuori del testo e si interroga su quanto letto; (ii) l’empatia, la percezione sociale e l’intelligenza emotiva, processi cognitivi che possono condurre alla riduzione dello stress, a comportamenti più consapevoli e a una maggiore attenzione alla propria salute.

Valentina Conti

Come possono essere curati efficacemente i disordini post-traumatici da stress con la medicina narrativa?

Il soggetto affetto da stress post-traumatico risulta incapace di raccontare gli eventi dell’esperienza vissuta con un ordine cronologico e secondo un rapporto consequenziale di cause e effetti; infatti le sue narrazioni presentano numerosi flashback, ma anche effetti dissociativi e amnesie episodiche.

A fronte dell’incapacità di accettare un trauma, le vittime preferiscono affidarsi alla memoria narrativa anziché a quella traumatica, e poichè la memoria narrativa integra le esperienze in schemi mentali preesistenti ed è accompagnata da stati emotivi coerenti con essi, letteralmente il trauma non rientra nei canoni di una narrazione: non fa racconto. Affinché la memoria traumatica sia ripristinata è necessario che venga innescato un elemento dell’esperienza traumatica, cui è probabile seguiranno altri elementi in grado di ricostruire il ricordo reale dell’evento: questo innesco è spesso l’incipit della storia, da cui possono discendere con naturalezza gli episodi successivi, in modo tale che i frammenti della narrazione siano messi in ordine sequenziale. In tal senso, emergono le potenzialità “salvifiche e terapeutiche” della narrazione: essa costituisce uno strumento molto valido che consente al soggetto traumatizzato di svolgere una ri-esecuzione narrativa, che consiste nel raccontare e rielaborare l’evento traumatico più volte in modo da giungere ad una narrazione abbastanza ordinata e lineare, al fine di cercare di “superarlo”.

Quale apporto può portare la narratologia a disturbi come l’autismo? Quali sono gli aspetti della story grammar più deficitari in questi soggetti, e come possono essere migliorati, magari somministrando narrazioni costruite ad hoc?

Da un punto di vista narratologico, gli studi di Jennifer Barnes e Simon Baron-Cohen sullo sviluppo delle capacità narrative nei bambini autistici mostrano che la triade sintomatica tipica dell’autismo (comportamenti ripetitivi; interessi ristretti; difficoltà di comunicazione e disfunzione sociale) si traduce in una predisposizione cognitiva a visionare le scene in termini di parti, piuttosto che dell’intero, che comporta la costituzione di narrazioni intorno a specifici elementi standardizzati della storia, ossia narrazioni concentrate su alcuni dettagli piuttosto che su una visione d’insieme. Relativamente alle quattro componenti narrative essenziali della story grammar (il setting, il personaggio, il conflitto, la risoluzione) emerge che, rispetto a quelli dei normotipici, nei racconti di individui con disturbi dello spettro autistico l’ambientazione è geometrizzante, racchiusa in format spaziali di tipo gerarchico (come una stanza dentro un’altra) o classificatorio (ad esempio, lo spazio buono vs. lo spazio cattivo ecc.); i personaggi agiscono senza manifestare intenzioni o processi decisionali interiori; e la fine il più delle volte rimane “aperta”, nel senso che non chiude una situazione problematica, dato che quest’ultima non viene identificata. Ed è qui che si inserisce il ruolo delle narrazioni intese come uno strumento per il potenziamento di abilità sociali, mind reading e riconoscimento delle emozioni. In altri termini, il supporto di narrazioni ad hoc, dense di contenuti emotivi, relazionali, sociali funge da palestra cognitiva per i soggetti con autismo, aiutandoli a sollecitare e migliore le abilità di cui sono deficitari.

Le malattie neurodegenerative degli anziani (v. demenza senile) stanno diventando sempre di più un problema sociale. Come si potrebbe intervenire tramite la narratologia?

Come è noto, le persone con tali patologie presentano una condizione di disfunzione cronico-progressiva delle funzioni cerebrali che porta a un declino delle facoltà cognitive (come memoria, orientamento spazio-temporale, ragionamento, linguaggio, attenzione ecc.) tale da compromettere il comportamento, la personalità, le attività quotidiane e le relazioni sociali di chi ne è affetto, ossia conduce alla perdita dell’autonomia e dell’autosufficienza con vario grado di disabilità e conseguente dipendenza dagli altri. Ebbene, le demenze sono caratterizzate da un’inesorabile, sebbene lenta, progressione dei deficit cognitivi, rispetto a cui tuttora non esistono terapie farmacologiche efficaci; ed è proprio la scarsità dei risultati degli interventi farmacologici, unitamente all’esiguità delle conoscenze relative ai possibili meccanismi di riorganizzazione e compenso cerebrale, che negli ultimi vent’anni hanno dato un forte impulso alla ricerca di metodologie di riabilitazione cognitiva che potessero rallentare il decadimento cognitivo e psico-fisico. Attualmente, la medicina narrativa rientra in queste ultime metodologie, utilizzando diversi strumenti con finalità di riabilitazione cognitiva per soggetti con demenze, ad esempio, attraverso la scrittura, lo storytelling in modalità one-to-one o di gruppo e la biblioterapia, un aspetto che denota come le narrazioni stiano progressivamente diventando un’attività specifica anche livello clinico. In altri termini, la medicina narrativa cerca di ritardare gli effetti di tali patologie.

Che cos’è la digital narrative medicine, e quali sono i benefici che la narratologia può aggiungere in quest’ambito rispetto all’elaborazione-somministrazione di generi più tradizionali (es., il racconto, il graphic novel e il film)?

I nuovi media (o media digitali) implicano nuovi spazi e forme relazionali, che implicano nuove forme di comunicazione e narrazione mediale basate sul paradigma relazionale many-to-many, che implicano nuove forme di sapere ecc.; tuttavia non si tratta di una trasformazione netta e radicale rispetto al passato, quanto piuttosto di una svolta che ha modificato e continua a modificare i parametri di giudizio tra le diverse categorie culturali, portando in primo piano ciò che stava in secondo piano e viceversa. Ebbene, proprio grazie a tale svolta, da qualche anno si è cominciato a parlare della cosiddetta medicina narrativa digitale (digital narrative medicine), ossia la medicina narrativa declinata attraverso le nuove potenzialità di applicazione generate dalla rivoluzione digitale. Ad esempio, le tecnologie digitali interattive (come forum, gruppi sui social network, community, blog, siti ecc.) mostrano un enorme potenziale nell’ambito della promozione della salute, intesa in termini di consapevolezza, autogestione e cura delle malattie, e di cambiamento comportamentale alla luce di stili di vita salutari e esperienze altrui di malattia, ma anche nei programmi comunitari del settore dell’educazione sanitaria, nell’educazione medica, nell’istruzione infermieristica, nell’educazione del paziente e nell’educazione alle attività socialmente utili ecc. Non solo, alcuni di studi pilota a livello internazionale mostrano che l’utilizzo del digital storytelling – ossia la pratica del racconto che si avvale delle strategie consentite dalle tecnologie digitali per la creazione di narrazioni che possono essere integrate con supporti digitali/multimediali eterogenei come testi, audio, video, immagini, musica ecc.  e che raggiunge il pubblico attraverso i media digitali – può essere un valido strumento di supporto terapeutico per diverse patologie proprio grazie alla sua natura interattiva, multimediale e multisensoriale.

MARIA GRAZIA FALÀ