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“Neoformalismo, per una tipologia del personaggio”

Da un testo di Sara Casoli, dell’Unifi, una discussione su Esterno notte, Gomorra – La serie Mare fuori

Una rivalutazione del personaggio in chiave neoformalista, nel senso, come diceva Edgar Morin, di unitas multiplex, con la creazione di una tipologia in personaggio stereotipato, individualizzato, popolare e stereotipato. Una tassonomia creata a partire dagli studi di Caroline Levine, che ha impiegato il concetto di forma in maniera flessibile, applicandola ai personaggi letterari. Un concetto di forma, appunto, che prende spunto anche da Goethe, che la concepiva sia come Gostalt (forma pura e semplice), sia come Bildung, ovvero come “costruzione”. Inoltre, un’analisi tipologica del personaggio applicata a tre iconiche serie TV italiane, ossia Esterno notte, di Marco Bellocchio, nota per la sua impronta autoriale, Gomorra – La serie, famosa sia, anch’essa, per la sua forma autoriale ma anche per il suo grande successo di pubblico, e Mare fuori, il teen drama/prison drama significativo per la sua grande popolarità e per il fatto che mescola elementi à la Gomorra al melodramma. Sono questi i temi trattati in una conversazione avuta con Sara Casoli, docente di Storia del cinema all’Università di Firenze, in merito al suo libro Le forme del personaggio, edito da Mimesis nel 2021.

Quando si afferma di nuovo la centralità del personaggio dopo la grande parenti strutturalista, (soprattutto) francese?

Quella di personaggio è una nozione che ha conosciuto fortune avverse nella teoria critica, oscillando in continuazione da una concezione che vede il personaggio come un insieme di segni e di motivi, la cosiddetta prospettiva disumanizzante, ed è il personaggio-funzione, come è stato poi anche ribattezzato, a una che vede invece il personaggio come una persona, quindi in un’idea più umanizzante del personaggio, visto come un individuo, ancorché finzionale. Pertanto, tale concetto ha sempre sofferto di questo moto ondivago a partire dalle origini. Da Aristotele, che lo aveva relegato in una posizione di subalternità rispetto all’azione, si è passati poi, con il Romanticismo, ad una direzione opposta, quando, grazie alla centralità del concetto di individuo nel dibattito storico-critico, l’idea di personaggio, inteso come persona, acquista enorme fortuna proprio perché diventa incarnazione ed espressione di una soggettività.

A partire però già dagli anni ‘20 del ‘900, in particolare con l’affermazione del formalismo russo, quindi con Vladimir Propp e successivamente con la semiotica greimasiana e lo strutturalismo francese in generale, il pendolo del personaggio ha compiuto un altro movimento, spostandosi decisamente sul polo della dimensione testuale, cioè decomponendolo, raschiandone via ogni elemento di soggettivazione, per ridurlo appunto alla mera funzione.

È in questo stato che invece la narratologia, soprattutto quella di stampo postclassico, negli anni’ 80 torna nuovamente ad occuparsi di esso. La cosa interessante è che questa nasce, proprio in quel periodo, da una costola della semiotica, ma su posizioni teoriche decisamente meno nette e universalistiche. Cioè, non c’è mai stata l’idea programmatica, nei dibattiti narratologici, di costruire questa grammatica universale della narrazione che invece era uno degli obiettivi soprattutto della semiotica generativa di Greimas.

In questo contesto, appunto, grazie allo sviluppo delle correnti narratologiche, il personaggio riacquista una sua centralità: infatti, grazie alla narratologia, ci si rende conto che esso non deve per forza schiacciarsi su un polo piuttosto che un altro, cioè non deve essere considerato o un insieme di segni o una persona finzionale, ma le due idee di personaggio, le sue due facce possono coesistere, anzi compenetrarsi a vicenda. Si vede, appunto, che il personaggio è da intendersi sia come una costruzione testuale che come un soggetto.

È proprio questo riconoscimento del personaggio come entità fondamentalmente complessa che riporta in auge il suo studio. Lo dicono gli stessi narratologi delle origini, che questo concetto è sempre stato qualcosa a cui lo studioso di letteratura, soprattutto, si approcciava un po’ con sospetto, proprio perché non si riusciva mai fino in fondo a rendere conto della sua ricchezza e complessità.

Quindi, questo oggetto non si sapeva mai bene come prenderlo e, grazie appunto allo sviluppo delle ricerche narratologiche, ci si rende conto che il personaggio può essere affrontato come unitas multiplex. Questa è una felicissima espressione di Edgar Morin che mi permette di rendere conto di come il personaggio si presenta all’apparenza come un’entità unitaria, un individuo simil-umano, che partecipa a un mondo narrativo sotto cui però si cela tutta una rete di elementi sia testuali, e qui per “testuali” intendo, ovviamente in senso lato, elementi narrativi, figurativi e mediali, ma anche elementi di tipo tematico, semantico e, ovviamente, contestuale.

E credo proprio che l’idea di personaggio, composta da facce tra di loro complementari, sia una conditio sine qua non per affrontare poi il personaggio seriale, non solo televisivo (io mi occupo di questo perché il mio campo è quello dei television studies), ma anche di qualsiasi altro genere, indipendentemente dal medium (quindi letterario, cinematografico). Ovviamente si tratta di personaggi costitutivamente diversi: ad esempio, quello letterario lo è soprattutto perché si dà tramite un’altra forma, cioè noi non lo vediamo, ma lo ricostruiamo nella nostra mente grazie alle parole dello scrittore. Tuttavia, il personaggio seriale è innanzitutto un personaggio che si forma in una narrazione seriale, quindi il fattore della serialità è quello definitorio per andare a costruire e comprendere queste figure, indipendentemente dal fatto che siano figure letterarie piuttosto che cinematografiche, televisive o di un qualche videogame e graphic novel.

Lei intende, seguendo Caroline Levine, che lo usa per i personaggi letterari, il concetto di forma, applicandolo ai personaggi seriali televisivi, come qualcosa di “flessibile”, come una “costruzione” (Bildung), oltre che come “forma” (Gestalt) pura e semplice. Ce ne potrebbe parlare?

Decidere se utilizzare il concetto di forma è stata per me una bella sfida, perché, occupandomi di narratologia, so benissimo che l’idea stessa rischiava di essere un po’ compromettente: questo perché quando noi pensiamo alla forma molto facilmente ci viene alla mente la contrapposizione aristotelica con il contenuto, cioè l’idea che da una parte esiste il contenuto e da un’altra la forma. Del resto, sono il formalismo russo e lo strutturalismo francese che hanno proprio giocato pesante su questa contrapposizione, e cioè appunto sul concetto di grammatica universale che menzionavo prima, per cui lo scopo è individuare la forma testuale narrativa, separandola da tutto quello che invece è contenuto più specifico e più soggettivizzato.

Tuttavia, credo che, al di là della brutta reputazione che il concetto di forma un po’ si porta dietro, e del suo essere “compromesso” con lo strutturalismo, di fatto si è rivelato però un validissimo strumento da avere nella nostra cassetta degli attrezzi. Infatti non è un concetto banale, e lo dice anche Foucault nel suo Archeologia del sapere, la forma è un oggetto molto particolare perché contemporaneamente oggetto e strumento di ricerca.

Semplificando, possiamo individuare, tra le mille accezioni, due particolari che credo siano significative. Tradizionalmente, infatti, seguendo il paradigma aristotelico da cui poi lo strutturalismo ha preso buona parte della sua riflessione, possiamo intendere forma come Gestalt, cioè forma cristallizzata, astratta, astorica, che esiste di per sé fuori dalla storia del mondo. Tale concezione di forma è ovviamente inutile per studiare i personaggi seriali, perché essi sono costitutivamente mutevoli. Infatti, l’andamento proprio della narrazione seriale costringe l’identità dei personaggi a costruirsi sempre con un procedimento in fieri: essi non sono mai oggetti statici, di conseguenza, nemmeno il concetto di forma che vorrei utilizzare per spiegarli può essere statico.

A questo punto, mi sono proprio chiesta quali altre possibili concezioni di forma possiamo andare a individuare che siano più utili per affrontare la questione del personaggio e qui, come dire, ho chiamato in causa Goethe che, nonostante sia noto più come poeta, è un filosofo molto fine che si è occupato anche di questa questione. Appunto, secondo lui le forme non possono essere intese come entità ideali sulla scorta di Platone, cioè una forma platonica stabile, assoluta che esiste fuori dalla storia, ma dovrebbero essere considerate come qualcosa di metamorfico, che cambia, che è in evoluzione, quasi come un’entità organica.

Qui ho scoperto questa frase meravigliosa di Goethe, che definisce la forma non come immutabile, ma “eternamente nuova”. Ecco, questo “eternamente nuovo” mi ha colpito molto perché ho trovato fin da subito un’assonanza proprio con la narrazione seriale, che è un qualcosa che si ripete, che è sì stabile, ma anche sempre nuova, sempre diversa. E qui, appunto, Goethe fa riferimento alla forma, non intesa come Gestalt, ma piuttosto come Bildung: il poeta aveva il vantaggio di scrivere in tedesco, e questa lingua ha una precisione semantica molto maggiore, da questo punto di vista, rispetto a quella italiana. Infatti, per noi esiste solo la parola “forma”, ma nella lingua tedesca c’è questa distinzione che io credo molto utile, per distinguere queste diverse accezioni dello stesso concetto, a ulteriore dimostrazione che il concetto di forma è estremamente complesso e ricco.

La forma, la Bildung di cui parla il poeta, è letteralmente una forma che trapassa in un’altra, cioè c’è un elemento di costruzione, di qualcosa che si modifica nel tempo, che cresce, che cambia. Questa, credo, è stata la rivelazione di quando mi sono imbattuta in questi studi, perché l’idea di forma come Bildung si prestava molto bene ad uno studio delle forme del personaggio seriale.

Da questo punto di vista, una svolta ulteriore che mi ha portato ancora di più a convincermi dell’uso di tale concetto per il mio libro è stato lo studio del lavoro di Caroline Levine. Questa studiosa, professoressa di letteratura inglese alla Cornell University, che nel 2015 ha pubblicato Forms, nel suo libro affronta il concetto di forma. Lei non si occupa in modo diretto del personaggio, ma fa un discorso più ampio legato proprio alla letteratura, e si pone il problema di come proporre uno studio di stampo neoformalista in un contesto che è molto diverso rispetto al formalismo precedente.

Per la Levine la forma è sì un ordinamento astratto, un principio organizzatore, ma che può cambiare nel tempo, che si modifica nel tempo sulla base degli elementi che lo compongono. Ma la parte che più mi ha affascinato del suo libro è che il concetto di forma riguarda tanto il campo testuale quanto quello culturale e sociale: cioè esso esce dalla fede canonica, nella quale era stato relegato, cioè il testo, e può essere utile anche per capire meglio il contesto nel quale l’opera letteraria o comunque l’opera artistica nasce e viene esperita.

Pertanto, il testo della Levine è stato per me uno strumento molto importante proprio nell’affinare il concetto teorico di forma al fine di applicarlo al personaggio, tant’è che io, nel mio libro, intendo le forme del personaggio in una duplice accezione, cioè sia le forme che creano i personaggi, ovvero tutte quelle componenti che plasmano e conformano il personaggio, la sua caratterizzazione, la sua identità, tanto da un punto di vista testuale che contestuale; sia nel mio lavoro intendo per forme anche quelle create dai vari personaggi, cioè la possibilità di individuare delle categorie, delle tipologie entro cui racchiudere le loro manifestazioni. Pertanto, ho voluto giocare proprio con la polisemia del concetto di forma, vedere in che modo si poteva applicare allo studio del personaggio seriale televisivo.

Seguendo la corrente teorica del neoformalismo, lei ha proposto la seguente tipologia: personaggio televisivo stereotipato, individualizzato, personaggio popolare, replicante. Quale di questi tipi è più frequente nella serialità televisiva italiana contemporanea?

Prima di rispondere dovrei fare due premesse: la prima, è che i sistemi mediali, appunto nelle forme quanto nei contenuti, sono diversi da paese a paese. Nonostante oggi ci sia un dialogo sempre più fitto, sempre più costante, dobbiamo sempre ricordarci le specificità culturali e mediali, quindi specificità di tipo produttivo, estetico e di pubblico. Il modello di studio dei personaggi che io propongo è legato ad un contesto specifico che è quello statunitense: infatti, non era pensabile fare un’analisi che tenesse insieme serie televisive provenienti da diversi contesti, perché sarebbe risultato uno studio “schizofrenico”. Pertanto, ho dovuto recintare in qualche modo la mia ricerca, per creare una sorta di habitat specifico dal quale poi prelevare i personaggi e le figure finzionali da esaminare. La scelta è ricaduta sulla serialità statunitense proprio perché mi permetteva da un punto di vista della quantità, qualità e varietà della casistica di affrontare al meglio la teorizzazione del personaggio seriale televisivo.

La seconda premessa riguarda il fatto che questa modellizzazione e tipologia che io propongo non vuole essere un casellario entro cui catalogare ed etichettare questo o quel personaggio: ciò vorrebbe dire ricadere nella supposta universalità in cui volevano muoversi i semiotici strutturalisti degli anni ’70. Io non propongo pertanto categorie che intendono essere universali, né che vogliono in un qualche modo essere uniche. Se si volesse a tutti i costi archiviare i vari personaggi seriali televisivi entro l’una o l’altra, sarebbe, oltre che impossibile (perché si trova sempre quel personaggio, quell’elemento che fa impazzire il sistema), anche profondamente sbagliato da un punto di vista metodologico. La mia tipologia vuole essere innanzitutto uno strumento euristico, conoscitivo, per affrontare la questione del personaggio da un punto di vista teorico, cioè per mettere sotto la lente d’ingrandimento, analizzare e problematizzare un’entità a lungo lasciata in secondo piano perché, lo abbiamo detto prima, troppo complessa da analizzare. Essa è esattamente questo, cioè un tentativo di affrontare questa complessità, cercare di ridurla e quindi individuare macrotipologie, che mi permettessero, di volta in volta, di affrontare in modo fattibile la grande complessità del personaggio seriale televisivo.

Una volta fatte queste premesse teoriche, credo che la serialità televisiva italiana contemporanea si stia in parte allineando con il trend internazionale della quality television americana, ma anche europea.

Lei intende per quality television una televisione di qualità, di cui la complex TV sarebbe, per così dire, un sottoinsieme, o quality e complex TV sono due categorie completamente opposte?

Sono altamente interrelate: la quality television costituisce una sorta di paradigma estetico, cioè una tendenza culturale della serialità televisiva contemporanea che si basa sulla TV complessa. Cioè, una serie televisiva, per essere quality, deve rispondere ad una serie di parametri che solitamente sono proprio quelli della complessità narrativa, cioè avere una struttura narrativa di un certo tipo, uno stile visivo cinematografico curato e autoriale, ecc. Pertanto, quality TV e complex TV sono categorie critiche assolutamente interrelate, e anche nel dibattito accademico non c’è una netta differenza. C’è chi preferisce parlare di quality television, chi di complex TV: sono categorie un po’ diverse tra di loro, nel senso che si focalizzano su aspetti diversi, ma tuttavia servono per descrivere lo stesso fenomeno. Soprattutto l’espressione quality ha fortune avverse, alcuni studiosi la sopportano malvolentieri, per la sua accezione valutativa, altri la utilizzano come quasi sostituto dell’idea di televisione complessa, etichetta che viene utilizzata a partire dalla seconda metà degli anni 2000, quando Jason Mittell scrisse il suo Complex TV. Entrambe però, di fatto descrivono questa generale complessificazione della serialità televisiva, che porta le serie contemporanee ad essere valutate dal pubblico come migliori rispetto alle precedenti. Quindi, insomma, è un po’ un serpente che si mangia la coda, tentare di individuare quale di queste due categorie utilizzare.

Le chiederei brevemente una definizione di ciò che intende per personaggio televisivo stereotipato, individualizzato, ecc.

Ho individuato queste quattro categorie incrociando due assi, quello della morfologia del personaggio, cioè andando a capire in che modo è composto, cioè quali sono gli elementi, le storie, i tratti che ne incidono e conformano l’identità, e invece il modo in cui questo si inserisce entro un sistema relazionale, quindi all’interno del mondo narrativo, ma anche di una relazione con altri personaggi.

Il personaggio stereotipato ha una morfologia piuttosto semplice, cioè i cui tratti, sia narrativi che figurativi, si ripetono quasi immutati nel corso della narrazione: non c’è una dinamica di variazione interna, esso è semplicemente la riproposizione di un carattere. In proposito possiamo citare come esempio le serie classiche americane, in cui ogni episodio ha personaggi di questa tipologia, succedono sempre avventure diverse, quindi la storia va avanti, ma di fatto essi sono sempre gli stessi (stiamo parlando di esempi alla Colombo, per intenderci), e anche il sistema relazionale in cui sono inseriti è molto semplice. Pertanto, c’è un personaggio protagonista e attorno ad esso si sviluppa tutta una serie di altre relazioni, ma l’importante è che ci sia sempre questo personaggio che caratterizza l’intera narrazione.

E il sistema relazionale è a sistema solare…

Esattamente sì, proprio con questa idea di protagonista centrale, come se fosse proprio un sole: al massimo c’è un nucleo molto ristretto di protagonisti intorno a cui ruotano tutti gli altri che sono personaggi di contorno, non indipendenti, cioè che non hanno un vero sviluppo, un vero arco narrativo, ma dipendono sostanzialmente dal protagonista. Per fare qualche esempio, possiamo citare Law & Order, questo enorme universo narrativo lunghissimo, ma anche diversi crime più contemporanei, come per esempio Bones, altra serie di grande successo anche in Italia.

Come funziona, invece, il personaggio individualizzato?

Esso è un personaggio che, per quanto riguarda la morfologia, è opposto al personaggio stereotipato, in quanto ha una morfologia complessa, caratterizzata da tratti unici e irripetibili. Qui l’andamento della narrazione seriale agisce su questi personaggi, che evolvono nel corso del tempo: quella del personaggio individualizzato, infatti, è un’entità che si costruisce un po’ alla volta, cioè in ogni puntata lo spettatore conosce un po’ della loro personalità. Jason Mittell parla proprio di complessità centripeta quando parla di queste figure, cioè di una narrazione che indaga sempre di più all’interno della psiche di questo personaggio.

Anche la trama è complessa però…

Anche la trama diventa più complessa, e al centro della narrazione c’è proprio la costruzione del personaggio come individuo, cioè un personaggio che non è pensabile fuori da essa e che noi conosciamo man mano che la storia procede. Il caso credo più emblematico è Breaking Bad: noi conosciamo Walter White nel primo episodio, sappiamo che è un certo tipo di personaggio e pian piano la storia, andando avanti, ci mostra lati del suo carattere che noi all’inizio non potevamo conoscere: forse nemmeno lui, in quanto personaggio, lo sapeva.

Quindi c’è questa idea di scoperta progressiva, potremmo dire. La narrazione diventa sempre più complessa, anche perché molto spesso, proprio per svelare sempre di più la complessità di questo personaggio, si fa ricorso, per esempio, all’uso di flashback che raccontano le backstory di questi personaggi, cioè ci raccontano come sono arrivati lì, che cosa hanno fatto, oppure si aggiungono personaggi che servono per evidenziare alcuni lati del carattere del nostro protagonista, verso il quale noi non abbiamo più una certezza morale, cioè non sappiamo più se è il buono della situazione, per usare un termine un po’ semplicistico, ma al contrario noi spettatori siamo disposti a pensare che sia un personaggio molto sfaccettato, anche da un punto di vista morale. Per quanto riguarda invece il mondo narrativo, in questo caso, proprio perché il centro di queste serie televisive è il personaggio, si parla di character centered stories, cioè proprio la serie televisiva in cui lo scopo è mettere in evidenza il personaggio è un mondo narrativo che tutto sommato possiamo definire semplice, perché di nuovo al centro c’è solitamente una figura, è più raro che ci siano diverse figure, nel caso di personaggi individualizzati, c’è al massimo qualche figura che cattura l’attenzione.

Quindi il sistema relazionale è a sistema solare?

Sì, tuttavia in modo meno evidente rispetto al caso del personaggio stereotipato, proprio perché la narrazione diventa molto più complessa: pensiamo al caso di Westworld, per esempio, in cui ci sono tanti protagonisti, ma anche a quello del Trono di spade, dove ci sono molti protagonisti ed è difficilissimo individuare quello principale, proprio perché c’è una coralità di personaggi, anche se di ciascuno di essi, almeno di quelli più iconici, noi pian piano sappiamo sempre qualcosa di più.

Poi c’è il personaggio popolare e quello replicante…

Il personaggio popolare è caratterizzato da una morfologia semplice, cioè si basa su tratti iconici altamente caratterizzanti che vengono sempre ripetuti, quindi con una morfologia molto statica: ciò perché, in questo caso, ad essere interessante è proprio il mondo narrativo che va a costruire, mondo narrativo estremamente complesso, perché questo tipo di personaggio è quel personaggio che, come dire, “salta” da un medium all’altro e va a costruire un mondo narrativo transmediale anche molto vasto. Pertanto, il suo fruitore è l’utente, perché non è più solo uno spettatore, ma può essere anche il giocatore del videogioco, il lettore della saga, ecc.; esso, però, deve sempre riuscire a individuare questi personaggi, che infatti si basano su un’identità estremamente forte, molto statica, assai poco incline al cambiamento. In proposito, possiamo citare i vari personaggi degli universi Marvel e DC, cioè tutti quei supereroi che fuoriescono con molta facilità dal proprio medium originale: noi li abbiamo conosciuti come protagonisti di un fumetto, ma non ci stupisce più di tanto che finiscano in una serie televisiva, un film, un videogioco, un graphic novel, ecc.

Pertanto, sono proprio personaggi in grado di uscire con estrema facilità dal medium nel quale sono stati concepiti, ma non escono però dall’universo narrativo di riferimento: sono quei tipi, cioè, che possono allargare la propria storia, ma entro certi confini, quelli dello storyworld.

Il personaggio replicante e quello popolare si differenziano esattamente in base alla capacità che hanno di uscire o meno dal proprio storyworld. Ad esempio, un supereroe che a un certo punto combatte contro Dracula o comunque contro un vampiro: quindi è quest’ultimo che entra nel mondo del primo, ma in nessun film di vampiri noi vediamo un supereroe, e questo perché il personaggio “vampiro” è, appunto, quello che io definisco un personaggio replicante.

La parola “replicante” è un termine che ho “rubato” ad Omar Calabrese che, in un saggio molto importante per la storia della serialità, ovvero “i replicanti” (1984), parla di questi replicanti, cioè personaggi che nascono come prodotto classico della serialità, ma che poi sviluppano un’identità propria talmente forte da perdere i confini del loro universo narrativo, uscirne, essere liberi di entrare in qualsiasi storia. Sono quei personaggi che si basano su tratti ripetuti, altamente codificati e altamente sedimentati nel profondo dell’immaginario collettivo.

Che però sono più complessi rispetto al personaggio popolare…

Esatto, sono complessi perché a livello morfologico sono quasi più semplici, nel senso che i tratti caratterizzanti sono pochi: nel caso del vampiro, i denti a punta, il fatto che succhi il sangue e che alla luce del sole muoia. Si tratta pertanto di elementi molto scarsi da un punto di vista narrativo e figurativo, ma talmente impressi nell’immaginario collettivo, che la loro presenza garantisce la riconoscibilità del personaggio. Infatti, nel momento in cui vedo un personaggio che ha i canini appuntiti, che succhia il sangue, non ho bisogno di sapere che si chiama Dracula, so già che è un vampiro.

È proprio una questione di riconoscibilità di questi personaggi, che quindi hanno una morfologia estremamente da un lato semplice, dall’altro estremamente complessa perché poi di fatto ognuno di loro sviluppa una storia a sé stante: di nuovo, il caso del vampiro è molto evidente. Ci sono tantissimi vampiri diversi nella serialità televisiva, non legati tra di loro: il vampiro di Buffy è diverso da quello di The Vampire Diaries, hanno proprio una genealogia, una storia, un comportamento diverso, fanno parte di universi narrativi diversi, ma il punto è che rimangono però sempre dei vampiri, cioè funzionano sempre come tali.

Perciò, la morfologia del personaggio replicante è molto particolare perché da un lato è estremamente semplice, basata su pochissimi tratti, dall’altro però è estremamente complessa, che può di volta in volta svilupparsi in modo autonomo in personaggi diversi tra di loro. Ovviamente, anche il mondo narrativo di questi personaggi è molto complesso perché sono personaggi veramente ubiqui, cioè sforano da ogni parte, possono invadere qualsiasi narrazione senza che questo abbia un particolare peso sulla loro costruzione.

Ora vorrei applicare la sua tipologia a tre serie: Esterno notte di Marco Bellocchio, Mare fuori e Gomorra – La serie. Partendo da Esterno notte, importante perché dotato di una forte identità autoriale, si potrebbe dire che i suoi protagonisti rientrano nella tipologia del personaggio individualizzato?

Esterno notte è un caso molto interessante, ed è un esempio lampante della grande vitalità della scena seriale italiana contemporanea proprio in relazione a quello che dicevamo prima, cioè del fatto che anche essa si sta allineando con il trend internazionale della quality TV o della TV della complessità che dir si voglia. Innanzitutto Esterno notte è un oggetto di difficile definizione, non si sa nemmeno bene se definirlo una serie televisiva o un film (i confini di queste etichette, del resto si slabbrano molto facilmente davanti a simili oggetti), e questa poi è una delle caratteristiche dell’estetica quality. Questa serie risponde molto bene a tutte quelle caratteristiche che ci indicano un prodotto come complesso, come quality. Infatti, c’è uno showrunner autoriale dall’evidentissimo pedigree cinematografico, Marco Bellocchio, affiancato anche da una writing room di tutto rispetto, perché tra gli sceneggiatori di Esterno notte, tra gli altri, ci sono Stefano Bises, che viene da Gomorra – La serie, The New Pope, La mafia uccide solo d’estate e anche Ludovica Rampoldi, che ha sceneggiato 1992-1993-1994, Gomorra – La serie, In Treatment, The Bad Guy. Quindi, si tratta veramente di una writing room di prim’ordine da tantissimi punti di vista, ma ovviamente a caratterizzare Esterno notte come un prodotto assolutamente allineato all’estetica della TV della complessità c’è anche il tipo di narrazione, estremamente cinematografica e ovviamente il fatto che sia una serie che tratti temi forti e politicamente scottanti nel nostro Paese.

Pertanto, questa fiction è un oggetto che allinea la produzione italiana a quella statunitense ed europea di questo tipo. Per questo motivo, i personaggi di Esterno notte sono, evidentemente, dei personaggi complessi, anche se non sono del tutto convinta di etichettarli come individualizzati, sempre in relazione al fatto che è molto difficile cercare di etichettare queste figure e inserirle in una categoria piuttosto che un’altra. È vero che si tratta di personaggi antieroici, senz’altro personaggi pieni di dubbi, pieni di incertezze e di cui sono spesso messi in scena i lati oscuri, le emotività anche più esasperate. Del resto, proprio lo stile, anche di ripresa, di Bellocchio, fa di tutto per rappresentare le emozioni di queste figure e anche la loro ambiguità. Credo che memorabili, da questo punto di vista, più di Moro stesso, siano i personaggi di Andreotti e Cossiga, che appaiono veramente come eroi tragici di matrice shakespeariana. Quello che mi rende prudente nell’etichettarli come individualizzati è che questi personaggi sono figure insondabili, cioè, non sono mai figure veramente conoscibili da parte dello spettatore. La narrazione, da questo punto di vista, non lo aiuta a conoscere meglio questi personaggi, che rimangono sempre molto misteriosi.

Quindi in che tipologia li inserirebbe?

Per certi versi, sono sì personaggi individualizzati, perché rispondono a questa idea di complessificazione centripeta, ma da un altro punto di vista non lo sono, proprio perché la storia, la narrazione non mette mai lo spettatore nella possibilità di conoscerli veramente, anche perché, cosa molto affascinante, la serie riflette proprio sul rapporto tra immagine pubblica e privata di questi personaggi, quindi tra un’immagine che anche la storia ha tramandato e invece un tentare di offrire uno scorcio sull’immagine privata di queste figure. Di conseguenza, credo che manchi un po’ quell’idea di conoscenza, cioè Esterno notte non è una serie che permette al pubblico di conoscere il suo personaggio in modo progressivo. Questi protagonisti alla fine della storia non mi sento di averli veramente conosciuti, per questo sono un po’ prudente nel considerarli individualizzati, anche se è pur vero che è la categoria, tra quelle che io individuo, a cui essi si avvicinano di più, proprio in virtù della loro evidente complessità.

Cosa si potrebbe dire invece di Gomorra – La serie che, pur avendo un fortissimo fandom, non si può considerare un esempio di compiuta espansione transmediale, in quanto la produzione non ha sfruttato appieno, tranne che per accurati campagne di marketing, le sue possibilità di farsi mondo? Qui, infatti, è solo presente uno spin-off, il film L’immortale (2019), mentre mancano il tutto espansioni come siti web, ARG, (video)giochi o graphic novel

Gomorra credo sia un caso di transmedialità che si basa non tanto sul personaggio, quanto sul mondo narrativo, e ne è una dimostrazione il fatto che il libro di Saviano, il film di Garrone, e soprattutto la serie, non condividono gli stessi personaggi. Piuttosto, questi prodotti sono legati dalla volontà di rappresentare un mondo, un mondo, tra l’altro, in cui i confini tra realtà e finzione si dissolvono, e mettere in scena così un affresco sociale, politico e umano. Per questo, quella di Gomorra è un tipo di transmedialità difficile da portare avanti proprio perché non può, più di tanto, basarsi sulla capacità che hanno alcuni personaggi di sfondare i confini dei testi e colonizzare altri spazi mediali: Gomorra – La serie è basata, tra l’altro, sulle vicende, le relazioni interpersonali di Ciro e Genny che sono i personaggi più importanti, anche quelli a cui la narrazione concede più spazio e più tempo.

Essi sono personaggi sviluppati nel senso di una loro individualizzazione, cioè sono personaggi che vengono approfonditi e scavati al loro interno, e questo rende difficile uscire da questa narrazione. I personaggi individualizzati tendono infatti ad essere sfruttati in un unico oggetto narrativo che prosegue in senso verticale, una storia che prosegue in modo lineare, ma non sono efficaci per una storia invece che si vuole espandere in modo orizzontale, quindi su altre storie e su altri media.

Lei quindi considererebbe i personaggi di Gomorra – La serie come individualizzati… Qual è il loro sistema relazionale, evidentemente complesso?

Sì, essi hanno un sistema relazionale che possiamo definire a metà tra quello “a sistema solare” e quello “a costellazione”: questa è una caratteristica un po’ diversa rispetto alla tipologia del personaggio individualizzato, che invece è solitamente caratterizzato da un sistema relazionale “a sistema solare”,  perché il tratto caratterizzante di Gomorra è che è una serie eminentemente corale, cioè, nonostante ci siano due personaggi in primo piano, questa è una storia che si sviluppa su più linee narrative, anche abbastanza estese, tra l’altro, per essere un prodotto italiano. È vero che Gomorra – La serie ha un ritmo narrativo abbastanza dilatato e presenta diversi personaggi che sviluppano poi delle storyline quasi a sé stanti. Per esempio, una di queste molto significativa, perché non strettamente relazionata a quello che fanno Ciro e Genny, è quella di Patrizia. Però, al di là di questa, le altre mi sembrano sempre molto referenziate verso Ciro e Genny, cioè alla fine sono loro che tengono la narrazione nelle loro mani, come nella configurazione relazionale “a sistema solare”.

Anche perché muoiono tutti gli altri…

Comunque, consideriamo anche che la fine di Gomorra si ha quando muoiono Ciro e Genny.

Personaggi individualizzati, quindi, con un sistema relazionale complesso e quindi scarsamente transmediali…

Al di là di spin-off e approfondimenti come quello che è stato fatto con L’immortale, è difficile pensare di espandere la storia di Genny e Ciro. È chiaro che si potrebbero fare altre espansioni, magari sui personaggi secondari della serie, ma, in questo caso, credo sia importante considerare anche il fattore più propriamente economico e produttivo. Infatti, gli universi transmediali più espansi ed espandibili sono anche quelli che hanno alle spalle delle industrie mediali che sono dei colossi, e che facilmente, quindi, possono progettare a monte più estensioni in comparti diversi dell’industria culturale.

Cosa che Sky non ha…

È evidente: nel caso italiano, con un contesto mediale molto diverso, in assenza di questi colossi mediali che detengono i diritti di sfruttamento e possono quindi pensare di espandersi su più piattaforme, è costitutivamente più difficile pensare ad una transmedialità in senso così vasto. Inoltre, credo che l’idea di voler approfondire la psiche e l’identità di due personaggi in qualche modo penalizzi la possibilità di espansione su altri media. Infatti, se noi consideriamo molti esempi di universi transmediali più noti, i loro personaggi sono più che altro personaggi popolari, cioè poco sviluppati da un punto di vista emotivo, e che proprio per questo possono spostarsi molto agevolmente in diverse storie.

Inoltre, sempre parlando di espansioni transmediali, i personaggi di Gomorra – La serie hanno una pagina wiki incompleta e anche dove, nelle poche pagine presenti, sono contenuti pure errori di battitura ed errori ortografici…

Ciò dipende molto dal tipo di fandom, che è legato a Gomorra, nel senso che le serie transmediali stile Marvel, per capirci, hanno un fandom molto giovane, che quindi è nativo digitale ed è sicuramente a proprio agio nel costruire espansioni fandom su Internet, appunto, creando pagine wiki, ecc.

La pagina wiki di Gomorra – La serie, come dicevo, è infatti molto imperfetta…

Questo credo che sia un sintomo di un tipo di fandom diverso, cioè non un fandom che arricchirebbe l’universo narrativo come nel caso invece della Marvel. Se si guarda infatti i wiki dei vari personaggi della Marvel, sono curatissimi, cercano tutti di ricostruire la genealogia dei personaggi, sono molto precisi, ed è evidente che c’è una forte dedizione da parte del pubblico nei confronti di queste figure.

Nel caso di Gomorra -La serie credo che il fandom sia proprio costitutivamente diverso, anche anagraficamente. Penso che questa serie – non ho dati certi alla mano, quindi bisognerebbe fare una ricerca più approfondita in merito – abbia un tipo di fandom meno attivo, che non è, per usare una categoria di Henry Jenkins, quello dei prosumer, cioè consumatori che sono anche produttori di contenuti. Il pubblico di Gomorra – La serie mi sembra un pubblico più “tradizionale”, nel senso che guarda la fiction, ne segue le vicende, ma poi non agisce in modo attivo nei confronti del testo seriale.

Comunque, il fandom di Gomorra – La serie si basa soprattutto sui video, cioè su social come YouTube oppure anche come Facebook e TikTok, mente a livello di scrittura, di fanfiction, su Gomorra non c’è praticamente nulla, c’è qualche crossover, ma niente di più…

Infatti è un tipo di fandom che è più ricettivo, nei confronti dei contenuti, ma meno incline a rielaborarli in modo evidente. C’è una celebrazione del contenuto, ma le vere creazioni sulla base di Gomorra – La serie sono poche: infatti, quelle poche hanno avuto enorme successo, come il caso dei de The Jackal, con le loro parodie di Gomorra – La serie.

E poi alcuni studiosi dicevano anche che il fandom di Gomorra è soprattutto napoletano, perlomeno fino alla prima stagione, e che la produzione è costituita da mashup, remix tutti video, comunque. Tra l’altro, la produzione Sky Italia ha anche “tagliato” qualche attività degli utenti. In due gruppi Facebook, Gomorra Fans, e Gomorra La serie, è infatti attivo un certo @DinoMinucci che inseriva delle clip di Gomorra – La serie, che sono state appunto bannate. Questo attesta una forte chiusura di Sky Italia di fronte al fandom, una cosa veramente grave…

È molto interessante notare come queste chiusure delle major davanti al fandom, negli Stati Uniti siano state risolte nei primi anni 2000, da noi invece ancora no, c’è Sky che tutela in questo modo il proprio prodotto, rinunciando tra l’altro ad una pubblicità gratuita che si basa sul word of mouth, che invece è fondamentale per attivare l’audience. In proposito, abbiamo ancora della strada da fare.

Parlando sempre di Sky Italia, a livello di YouTube, ha soltanto un canale per quanto riguarda tutte le sue serie televisive, e a Gomorra – La serie dedica soltanto una piccolissima sezione, con una quindicina di video. Forse ciò accade perché è passato del tempo da quando questa fiction è andata in onda, però è pur sempre sintomo che le sue espansioni transmediali non sono poi così diffuse a livello di produzione!

Certo, e questo soprattutto in Italia: in questo senso, Gomorra – La serie non è un titolo che lavora in questa direzione. Invece, è differente, per esempio, il caso di Skam Italia, proprio per perché fa riferimento ad un pubblico diverso, che si trova molto più a suo agio nell’entrare in una relazione diretta con il testo filmico. Pertanto, le pagine social dei vari attori di Skam Italia sono molto più curate, proprio nell’ottica di creare una rete di contenuti attorno al titolo.

Come valuta invece un prodotto come Mare fuori, un teen drama/prison drama che si tinge di sfumature melodrammatiche, scelto come esempio per il suo enorme successo di pubblico? In che tipologia inserirebbe i suoi personaggi?

Credo che Mare fuori sia il caso più evidente del coraggio del teen drama italiano. Infatti, questo è un genere che più di altri, o meglio, con cui più di altri la serialità italiana sta veramente sperimentando. A rompere il ghiaccio è stato proprio Skam Italia che nasce come una sorta di rifacimento locale di un successo straniero, ma che ha mostrato innanzitutto ai produttori e alle reti che è possibile fare dei teen drama di qualità e che hanno anche un enorme successo di pubblico. Infatti, sulla scorta di Skam Italia, sono venuti fuori prodotti estremamente coraggiosi, soprattutto per le tematiche che affrontano, tematiche presentate, tra l’altro, con grande sensibilità, come l’omosessualità, la fluidità di genere, il bullismo – pensiamo a Prisma – ma anche alla malattia mentale come in Mental e Tutto chiede salvezza. Questi sono prodotti che forse non si sarebbero avuti anche solo una decina di anni fa, che dimostrano come la televisione italiana sia in una sorta di periodo d’oro per quanto riguarda ricettività e innovazione.

Mare fuori credo si iscriva appieno in questa logica e ha ancora più successo delle serie che ho citato, perché fonde benissimo diversi fattori: è una fiction che funziona perché inserisce una nota di realismo sociale partendo dall’immaginario di Gomorra – La serie, mescolandolo però con il melodramma. C’è questa tensione, anche quasi un lieto fine, cioè sempre questa nota di speranza. Come dire, il fatto che in tutta la serie questi personaggi, tramite varie peripezie, alla fine arrivino a vedere finalmente questo “mare fuori”, lo avvicina ad aspetti radicati nel melodramma ottocentesco, cioè nel feuilleton, in cui c’è il male, ma anche una via di fuga, una possibilità, appunto, come qui, di uscire dalla situazione in cui questi giovani si trovano.

Pertanto, Mare fuori è un prodotto molto consapevole nel mettere insieme quelli che sono i grandi elementi del successo nel panorama italiano, perché c’è la componente melodrammatica che da sempre è una costante dell’immaginario nazionale, ma c’è anche il realismo sociale alla Gomorra. Come dire quindi, la lezione appresa dalla grande serie Sky, ma anche il focus sui giovani. Quindi, in un momento in cui il teen drama in Italia sta avendo un grandissimo momento di revival, credo sia assolutamente vincente focalizzarsi proprio su un insieme di personaggi giovani. E infatti, credo che il pubblico abbia risposto molto bene proprio per l’unione di questi diversi motivi.

I protagonisti di Mare fuori sono pertanto personaggi individualizzati?

Sì, credo proprio che i personaggi di Mare fuori siano forse, anche più di quelli di Gomorra – La serie, ascrivibili all’idea di personaggio individualizzato, perché la struttura di questa fiction è molto più prototipica. Infatti, noi abbiamo dei personaggi, soprattutto nella prima stagione, che conosciamo pian piano: c’è un fortissimo uso di flashback e di backstory in Mare fuori, per cui in ogni episodio sappiamo un pezzettino in più della vita di questi personaggi, che magari a primo acchito ci sembrano antipatici, cattivi, però, nel momento in cui andiamo a conoscere le loro storie, le motivazioni che li hanno spinti, i loro traumi, siamo indotti a conoscerli meglio e anche soprattutto a non giudicarli.

Una delle caratteristiche, dei motivi di fascino del personaggio individualizzato è proprio che sono personaggi con cui tutti noi riusciamo a entrare in simpatia, in empatia, perché non sono mai né completamente buoni né completamente cattivi, sono figure ambigue da un punto di vista morale, e più le conosciamo, più ci rendiamo conto che non riusciamo mai veramente a giudicarle.

Pertanto, c’è sempre un atteggiamento quasi di sospensione del giudizio che li rende estremamente affascinanti e credo che sia sintomatico il fatto che, nella serialità televisiva italiana, sia sempre più frequente questo tipo di personaggio, che io ho definito individualizzato, ma che per essere ancora più generici potremmo dire complesso, meno stereotipato, meno definito, meno statico, in grado appunto di approfondirsi nella sua costruzione identitaria e al contempo anche approfondire questioni e tematiche più generali, di tipo socio-culturale. Questa, ancora una volta, è la dimostrazione che la serialità televisiva italiana, per fortuna, si sta muovendo in una direzione che va verso la complessità.

Qui il sistema relazionale è a costellazione, ovviamente…

Nonostante i personaggi siano individualizzati, il sistema di relazioni è più vicino a quello “a costellazione” che non a sistema solare perché è una serie corale, in cui è molto difficile riuscire a individuare il cosiddetto “sole” della situazione. È pur vero che abbiamo dei personaggi che sono più sentiti da parte del pubblico: soprattutto nella prima stagione, la coppia Filippo-Carmine è costruita proprio per essere protagonista, ma non lo rimane a lungo. Mare fuori è una serie che punta molto sulla coralità, proprio sul fatto che le sue figure tra di loro intrecciano relazioni in un modo quasi paritetico.

MARIA GRAZIA FALÀ