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“Media, non teorie ma una ventina di parole chiave”

Ruggero Eugeni, dell’Unicatt, ha curato per Einaudi un primer per un primo sguardo sui punti chiave della mediologia

Ruggero Eugeni

Un libro strutturato in una serie di parole chiave, un manuale che non è una storia dei media, ma un lavoro fondativo sui temi più importanti della ricerca massmediologica, come le teorie degli effetti sui pubblici, su testi e discorsi, sul digitale. Un lavoro che parte da un’introduzione sulle quattro teorie più importanti che hanno attraversato la ricerca (mediologia classica, critica, discorsivista, filosofica), per applicarle ai nuovi media, i cui effetti, dopo entusiasmi iniziali a favore della rete, sembrano orientati verso scenari ben più pessimistici. Infine, uno sguardo su mass media e magia che, per l’autore, secondo una forma di neopaganesimo, avrebbe informato di sé i rapporti tra il magico e i media di massa, passando dalle pratiche magiche di fine Ottocento ai fenomeni di stregoneria su TikTok. Sono questi i temi portanti di Il primo libro di teoria dei media, curato per Einaudi da Ruggero Eugeni, docente di Semiotica dei media presso l’Università Cattolica di Milano.

Come nasce quest’opera e in che modo si struttura per parole chiave?

Essa nasce per volontà dell’editore Einaudi che ha in cantiere una serie di opere dal titolo “Il primo libro di”. Sono quei testi che in linguaggio editoriale internazionale si chiamano i primer, cioè opere di base da leggere per prime al fine di introdursi a un certo argomento. In particolare, mi sono ispirato all’opera analoga “Il primo libro di estetica” curato dal collega Andrea Pinotti, che aveva avuto l’idea di presentare l’estetica non per grandi temi o per grandi autori, ma per una serie di nodi e di problemi. Da qui appunto l’idea di individuare alcune parole chiave che nel nostro caso sono state soprattutto termini corrispondenti a questioni anche attuali che ci interessava approfondire.

A chi non è rivolta e comunque, pur non essendolo compiutamente, si può definire come un manuale?

È un manuale di teorie dei media, e deve quindi escludere un approccio di storia dei media come pure una attenzione alle teorie della comunicazione in generale. Attenzione: questi aspetti non vengono esclusi ma relegati sullo sfondo. Anzi, se l’Editore intendesse varare “primi libri” su questi argomenti noi siamo a disposizione!

Si può definire comunque come un manuale?

Si, in un duplice senso. L’introduzione è “manualistica” in senso tradizionale perché disegna alcune questioni epistemologiche e metodologiche e costruisce una mappa delle grandi famiglie di teorie dei media segnalando al loro interno gli autori e le opere più significative. La seconda parte cambia marcia e propone un approfondimento di una ventina parole chiave, ognuna delle quali parte da un esempio concreto e attuale per rivelare il background teorico (da “Arte” a “Virtualità”, passando per “Effetti”, “Pubblici”, “Reti”, “Sorveglianza”, etc.); un sistema di rimandi interni consente di collegare tra loro le voci come pure di situarle nella “mappa” disegnata della introduzione. Peraltro vorrei ricordare i nomi dei giovani colleghi che hanno lavorato con passione e competenza alle varie voci: Simone Carlo, Alice Cati, Anna Caterina Dalmasso, Elisabetta Locatelli, Massimo Locatelli, Elisabetta Modena e Francesco Toniolo.

In che modo il libro offre una definizione di medium e di teoria dei media?

Tenendo conto del dibattito che si è svolto tra la teoria dell’arte, l’estetica e la teoria dei media si è convenuto di definire medium il dispositivo o l’insieme dei dispositivi materiali che producono parole, suoni, immagini, mentre i media sono istituzioni sociali, culturali e quindi hanno un aspetto più generale. Ovviamente c’è un legame tra le due entità: i medium con i vincoli e i condizionamenti dovuti alla loro natura materiale hanno sempre contribuito a plasmare le esperienze mediali e quindi la percezione sociale e culturale dei media.

Cosa intende quindi per teoria dei media?

La riflessione sui media (e sui medium) è decollata abbastanza presto. Inizialmente essa si è espressa in forme più frammentate: tra Ottocento e Novecento, alcuni interventi sono stati più occasionali (si parla in questo caso di una riflessione pre-teorica). In seguito, i discorsi dedicati ai media e ai medium si sono organizzati in forme più coerenti, e hanno anche incominciato a dialogare con delle impostazioni disciplinari consolidate. Per esempio, quando Walter Benjamin negli anni Trenta ragiona sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e quindi riflette in particolare su medium e media quali la fotografia e il cinema, svolge una riflessione coerente e la collega al tempo stesso al territorio dell’estetica. Analogamente, quando Adorno e Horkheimer nel 1947 scrivono Dialettica dell’Illuminismo, ragionano sui media nell’ottica di una sociologia di taglio critico. Quindi, negli anni Venti e Trenta in poi, si assiste ad un passaggio dalle teorie pre-teoriche a una organizzazione di veri e propri discorsi teorici. La teoria dei media, quindi, cercando di offrire una definizione, è un tipo di discorso che parte dall’esame di una serie di fenomeni empirici concreti e anche talvolta rilevati sistematicamente mediante sperimentazione o ricerca sul campo, ma che nello stesso tempo cerca di individuare dei modelli di più ampia portata e applicabilità, i quali vengono descritti in maniera coerente, unitaria, eventualmente ispirandosi a discorsi teorici filosofici, sociali, antropologici, ecc..

Le chiederei di ripetermi la differenza tra medium e media perché nel suo testo mi pare non compaia, ma mi sembra che ci sia soltanto il concetto di media

Il medium è l’insieme di condizionamenti materiali che presiedono all’apparizione di stimoli sensoriali: questa definizione deriva soprattutto dalla teoria dell’arte perché negli anni Sessanta,  all’interno della critica modernista, si parla di una medium specifity, cioè il valore di un’opera d’arte secondo alcuni teorici dipende dalla capacità di esibire alcuni aspetti concreti, materiali del medium, come per esempio la pittura astratta esibisce la piattezza della tela piuttosto che la pittura concreta esibisce il colore e la pennellata. Da qui è nata poi una dialettica tra la teoria dell’arte e quella dei media, perché nel momento in cui gli artisti hanno cominciato a usare dei veri e propri media come il video, inizialmente il video poi l’arte digitale, gli strumenti digitali e così via, il problema si è fatto più complesso. Allora, c’è una serie di vincoli materiali, ma poi (come argomenta per esempio Rosalind Krauss) anche una capacità di reinventare il medium, cioè personalizzarlo, dargli nuove valenze. Questo dibattito lavora soprattutto appunto sul medium, ma già apre, come ho detto, ai media, perché se il medium è il mezzo concreto, i media sono invece delle istituzioni sociali.

Da un punto di vista storico ed evolutivo c’è sempre stato un medium, ma non sempre ci sono stati dei media: c’è sempre stato un medium perché un qualunque atto espressivo si serve di uno strumento materiale a cominciare dall’uso del corpo per proferire parole, per esprimere attraverso la mimica alcune intenzioni, e quindi sostanzialmente per comunicare, per trasmettere informazioni. Poi, mano a mano, i medium sono stati le incisioni, le pitture rupestri, i vari volumen, codex, ecc. Il medium ha rivestito un’importanza notevole nella storia della comunicazione, perché gli aspetti concreti e materiali hanno sempre determinato il tipo di comunicazione che si voleva offrire. Per esempio, l’invenzione prima della scrittura e poi della stampa, modifica le regole e il significato stesso del termine “comunicazione”. I media non ci sono sempre stati, sono un’invenzione sostanzialmente ottocentesca, sono legati all’avvento della seconda rivoluzione industriale, all’industrializzazione della cultura, come dicevano Adorno e Horkheimer, e quindi alla costruzione di grandi apparati. I media in quanto apparati hanno un aspetto economico-produttivo e anche di potere politico, ma anche un aspetto di attese, conoscenze da parte dei soggetti sociali e precomprensioni, orizzonti di attese, per cui se io vado al cinema ho una serie di aspettative del tipo di esperienza che sto per affrontare, che è diversa rispetto, per esempio, a quando navigo su Internet.

Quanto detto, vale per riproporre la questione della distinzione tra la materialità del medium e l’insieme di caratteristiche sociali, economiche e politiche dei media, ma al tempo stesso, a partire da questa differenza, anche della loro connessione.

Quali sono i nuclei portanti del testo, al di là delle singole voci? La mediologia classica? Quella critica? Quella discorsivista? Quella filosofica?

Tutte e quattro queste “gambe” servono a sostenere lo stesso tavolo. Nell’introduzione cerco di ordinare il vasto campo delle teorie dedicate ai media ordinandole in queste quattro grandi famiglie, per poi comprendere in che modo le singole voci, i singoli problemi che costituiscono il nucleo del libro attraversano maggiormente l’una o l’altra di queste.

La scelta è quella di rendere conto di diversi approcci al mondo dei media: la mediologia classica è attenta soprattutto alla questione degli effetti, e quindi al tipo di impatto che i media hanno sulla società. Quella critica parte dal presupposto che i media abbiano un effetto spesso considerato negativo sulla società, in quanto sono il veicolo per la perpetuazione e per la riproduzione di nuclei ideologici e concorrono a mantenere un certo sistema di potere politico-economico. Al tempo stesso, la mediologia critica cerca delle risposte a questa situazione, sia mediante delle pratiche di media dal basso, sia tramite delle pratiche di resistenza allo strapotere mediale.

La mediologia discorsivista si concentra sul testo, sul discorso, anche in chiave critica, però con una particolare attenzione ai modi concreti mediante i quali i testi, i vari discorsi mediali veicolano delle ideologie o si rivolgono a certi settori del pubblico, ricostituendone l’esperienza di consumo.

Infine, la mediologia filosofica si concentra soprattutto sul tipo di esperienza che i media procurano a partire dall’aspetto soprattutto estesico-estetico, cioè dal tipo di percezioni, di sensazioni, che i media procurano ai loro consumatori. Da questa intuizione sviluppano anche un’attenzione differenziata ai diversi tipi di media, che vanno dalle prime manifestazioni di quelli otto-novecenteschi a quelli più recenti. Si procede così da Walter Benjamin, che affronta la fotografia e il cinema come una nuova condizione esperienziale che innerva tutta la vita sociale basata sulla velocità, sulla frammentazione, sullo shock, fino a colleghi come Andrea Pinotti che, studiando oggi la realtà virtuale, si rendono conto che le condizioni percettive di sensazione alla base di questo nuovo tipo di esperienza ci immergono in una serie di ambienti virtuali che rimettono in questione il nostro esperire, il nostro sentire il mondo e gli altri soggetti.

In che senso assumono nuova importanza le teorie sugli effetti e quelle sul pubblico, alla luce dei nuovi media?

Possiamo distinguere differenti ondate di teorie sugli effetti e sul pubblico in relazione ai nuovi media. In alcuni casi si lamentano effetti immediati e profondi, come avveniva negli anni Venti e Trenta con osservatori quali Lippmann e Lasswell a proposito della propaganda; in altri casi si pensa a effetti che lavorano sull’accumulo e quindi richiedono più tempo, come in molte teorie degli anni Sessanta e Settanta. In altri casi ancora si assiste a un certo entusiasmo per gli effetti positivi dei media: è quanto accade negli anni Ottanta e Novanta, quando è sembrato che i nuovi media digitali e telematici cambiassero le regole del gioco rispetto infatti ai vecchi media, cioè i mass media (cinema, radio, televisione), fornendo ai pubblici nuovi strumenti di intervento, dando la possibilità a tutti di produrre e distribuire prodotti mediali in maniera non più verticistica come nel caso dei mass media, ma in modo paritetico e reticolare.

Come dice Jenkins in Cultura convergente

Sì, esatto: è un po’ anche l’idea della società delle reti, è un momento di ritorno dell’utopia. Per esempio, Felix Guattari, filosofo francese, parlò a quell’epoca di post media, di superamento dei mass media grazie appunto alle nuove possibilità: già all’inizio degli anni Settanta guardava al fenomeno delle radio libere, e poi al Minitel francese, un’anticipazione del web, di Internet, che ebbe un buon successo in Francia tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.

Oggi invece assistiamo a un nuovo momento di pessimismo circa gli influssi spesso negativi dei media sulla vita psicologica, sociale e politica dei soggetti. I nuovi media, cioè i media di rete sono diventati a questo punto delle piattaforme: esse hanno riportato il potere nelle mani di pochi grandi players, grazie soprattutto ai nuovi meccanismi di datificazione. Pertanto, la nuova ondata di studi sui nuovi media comincia a essere sempre più critica, comincia a recuperare per esempio l’idea che essi abbiano degli effetti “forti” sui consumatori. Oggi peraltro (non mi sembra di parlarne nel libro), tendono a essere applicate anche delle tecniche di analisi di tipo neurologico sui consumatori di media, per capire in che modo il nostro cervello viene plasmato dall’intenso, coinvolgente e immersivo consumo di social media e di piattaforme.

Quali voci del libro (alludo soprattutto alla mediologia classica) ritiene siano da aggiornare in seguito alla svolta digitale?

Più che aggiornare delle voci, direi che ci sono diverse aree della riflessione mediologica che sono state più o meno coinvolte dalla svolta digitale, anche se in modo diverso. La mediologia classica ha dovuto fare i conti con i tipi di effetti che i nuovi media hanno; quella critica ha dovuto confrontarsi con i nuovi meccanismi di potere che passano attraverso i media (pensiamo per esempio al grande tema della sorveglianza), quella discorsivista si è trovata di fronte a nuovi modelli di discorso molto frammentati (per esempio l’analisi di un meme, di un post rispetto a quella di un film, oppure di una serie televisiva, che è molto ampia, o di un ciclo di film come quelli del Marvel Cinematic Universe). Infine, la mediologia filosofica si è trovata di fronte a nuovi tipi di esperienze anche sensoriali offerte dai nuovi media, e quindi ha dovuto porsi delle questioni relative alla relazione tra esperienza ecologica ed esperienza mediale che oggi sono centrali: in questo momento l’idea che i media facciano parte di ambienti complessi, cioè di ecosistemi, e che il soggetto che interagisce con essi debba negoziare un’interazione con il proprio ambiente è molto forte e ritorna in molte opere contemporanee.

È vero che la magia è stata un elemento che da sempre ha attraversato il discorso sui media e non è solo un qualcosa venuto alla luce negli anni Settanta del Novecento?

Sì, è così, anche se il versante magico è stato spesso lasciato nell’ombra dalla riflessione teorica (ma ci sono esempi importanti: per esempio Edgar Morin). Per questo ho scritto personalmente il capitolo “Magia” del libro. Bisogna tener conto di due aspetti: da un lato le pratiche magiche si sono sempre infiltrate nei comportamenti mediali: dai fantasmi della lanterna magica a Giucas Casella; ma dall’altro le pratiche magiche sono state anche all’origine dei media: penso per esempio al collegamento che nell’ Ottocento era molto forte, tra il telegrafo e la comunicazione psichica, la comunicazione mentale, la telepatia; o alle origini della telematica basate su movimenti e tendenze mistiche, neopagane e new age (chi ne volesse sapere di più può leggere Techgnosis di Erik Davis, un libro degli anni ottanta ripubblicato in italiano da pochi mesi).

Tutto questo mostra come il pensiero magico abbia sempre accompagnato i media: sotto questo aspetto allora che non è casuale che i media di rete portino ad una rinascita e ad una nuova visibilità di movimenti pseudoreligiosi, del cosiddetto nuovo paganesimo, cioè di tutti quei movimenti legati ai culti di entità naturali, al ritorno della magia, della stregoneria, tutti movimenti che trovano all’interno dei nuovi media occasioni di manifestazione ma anche di rilancio in nuove forme. Allora, fenomeni come #Witchtok, una un’area di TikTok dedicata alla stregoneria, oppure i vari culti per propiziarsi gli algoritmi dei vari social media perché forniscano i contenuti desiderati, mostrano come queste tendenze si aggiornino al presente…

Quindi per lei la magia è nata con i media, non si è solo manifestata negli anni Settanta del Novecento…

Esatto, è proprio costitutiva dei media, non ci sono molte voci al riguardo, però ce ne sono alcune sintomatiche: ho citato prima velocemente Edgar Morin, che scrive negli anni Cinquanta e Sessanta, e parla del cinema come di un mezzo magico. Egli sottolineava come esso racchiudesse una serie di tensioni e di pratiche sociali proprie della magia, soprattutto l’ombra, il rapporto con i morti e il doppio.  Questo modo di pensare che troviamo in Morin, oggi sta ritornando alla luce con diversi autori, ma è molto interessante perché i media sono stati collegati molto spesso alla cosiddetta modernità, cioè a quell’epoca dello sviluppo umano che parte dalla fine del Quattrocento, però si concretizza nella sua versione più recente a partire dalla metà dell’Ottocento. Essa è legata a doppio filo allo sviluppo dei media, che nascono alla metà dell’Ottocento e lo è perché è connessa allo sviluppo della tecnologia, e i media sono una forte espressione delle innovazioni tecnologiche.

Nel pensiero sociologico classico (per esempio in Max Weber), la modernità è anche l’età del disincanto, cioè grazie soprattutto alla tecnologia e alle scienze pure, alle scienze dure, la modernità ha fatto piazza pulita delle vecchie credenze, considerandole superstizioni, e quindi il nuovo mondo della modernità è un mondo ripulito dagli dei, dalle credenze, dalle pratiche magiche.

Tuttavia, in realtà, oggi stiamo comprendendo sempre meglio come questo non è vero, e come la stessa tecnologia, soprattutto attraverso gli utilizzi e le manifestazioni mediali, sia servita a prolungare, a far rinascere, a perpetuare la presenza del pensiero magico, delle pratiche magiche, all’interno delle società contemporanee.  Da qui appunto l’idea che i media possano anche essere letti come sia dei luoghi e sia degli strumenti della magia contemporanea, di questa nuova magia che sa essere al tempo stesso arcaica e aggiornata, perché in realtà è una forma di pensiero, un modo di vedere il mondo che trascende una distinzione ieri/oggi, ma è piuttosto una sorta di costante antropologica.

Quindi la magia verrebbe praticata anche su TikTok…

Certo, #Witchtok è un hashtag che identifica una serie di video su TikTok e di risposte a quei video fatte da un enorme numero (centinaia di migliaia) di giovani streghe che insegnano rituali di vario genere, insegnano a confezionare degli amuleti, ma con un dibattito interno molto acceso. Per esempio, se una strega propone un certo tipo di amuleto o di incantesimo, può darsi che un’altra intervenga dicendo “Questo non si può fare per ragioni di cultura etnica”, per cui solo, non so, una brasiliana può eseguire questo rituale che è ispirato alla magia del suo paese.  Questo è un settore molto interessante, perché attraverso tali dinamiche passano sia un modo di relazionarsi alle tecnologie e ai social media, sia un’individuazione delle proprie identità di genere, delle proprie identità culturali, etniche, eccetera.

MARIA GRAZIA FALÀ