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Italiano, come cambia tra paleo, neo e post-tv

Per Carocci una Bussola a due mani scritta da Gabriella Alfieri e Ilaria Bonomi

Un’opera, Lingua italiana e televisione, rivista dopo dieci anni, in concomitanza con il “compleanno” di mamma RAI (i suoi settant’anni), e in relazione a un nuovo tipo di televisione, la post-tv, che si è affermata, dopo la paleotv e la neotv, dal 2010, quando la TV di flusso, tipica della neotv, si è frammentata in una miriade di flussi, con l’avvento delle piattaforme. Un italiano che, in questi anni, è passato dal parlato standard o addirittura letterario (soprattutto nella fiction) a uno che in alcuni casi si abbandona a varianti substandard o addirittura a un parlato trascurato. Un parlato serio-semplice che invece tuttora caratterizza i telegiornali, con personaggi di spicco, che danno anche un’impronta linguistica ai loro TG, come fa Enrico Mentana.  Un macrogenere, quello dell’entertainment, che ha subito le maggiori ibridazioni, come si nota anche dal termine ombrello varietà, usato molto spesso per caratterizzare le prime trasmissioni di intrattenimento, e che ha forse più influito, specie con i game show, con tormentoni divenuti virali. Infine, la fiction come “specchio a due raggi”, che da un lato ripropone modelli linguistici, dall’altro li fa propri, riprendendoli dal linguaggio d’uso. Fiction che è passata dai teleromanzi dal tono e dai temi più letterari, a utilizzare, in alcuni casi, l’uso esclusivo del dialetto come finalità espressive. Queste, in sintesi, le principali tematiche affrontate con Gabriella Alfieri, docente di Storia della lingua italiana all’Università di Catania e accademica della Crusca, e con Ilaria Bonomi, ex docente di Linguistica italiana all’Università di Milano, nonché accademica della Crusca, che hanno scritto a due mani questa Bussola per Carocci.

Come viene ripensata quest’opera a dodici anni dalla sua prima uscita?

[Bonomi]: La riedizione, motivata prima di tutto dall’anniversario dei 70 anni della RAI, si è rivelata quanto

Ilaria Bonomi

mai necessaria per i profondi cambiamenti epocali intervenuti nella televisione in questi dodici anni. Per la televisione si prevedeva una rapida fine, e invece, rinnovata e potenziata dalle piattaforme e dalla convergenza con la Rete, e radicalmente modificata nella sua frui­zione, è più viva che mai.

Per le dinamiche produttive e mediatiche, determinante il sovrapporsi di programmazione televisiva nelle reti tradizionali e programmazione sulla Rete tramite canali dedicati o piattaforme digitali. Per le nuove modalità di fruizione, va sottolineato il passaggio da un ruolo passivo a un ruolo attivo da parte dell’utente, che può costruirsi un palinsesto autonomo in base a gusti, interessi o impulsi del momento; può far ripartire un programma con il tasto restart; può addirittura sequenziare intere puntate di serie, o di altri programmi. Fondamentale poi la fruizione condivisa e commentata nei social.

Tra i cambiamenti, non va dimenticato il potenziamento del ruolo informativo della tv durante e dopo la pandemia, che ha generato variazioni sostanziali nei programmi e nei contenuti, ma soprattutto ha rilanciato la televisione come canale autorevole di informazione e di divulgazione scientifica.

Nella nuova edizione, abbiamo rivisto e aggiornato l’intero volume nei singoli capitoli dedicati ai diversi generi, e abbiamo aggiunto un nuovo fondamentale capitolo “La televisione del terzo millennio”, scritto da Daria Motta e Milena Romano, due giovani molto più al passo di noi due autrici ‘storiche’ con le novità intervenute nella tv negli ultimi tempi.

Gabriella Alfieri

Si potrebbe fornire una valutazione linguistica delle tre fasi storiche che ha attraversato la TV, passando da paleotelevisione, a neotelevisione e a post-televisione?

[Alfieri]: Nelle tre fasi della storia della televisione, di cui le prime due individuate da Umberto Eco nel 1983, e la terza introdotta ultimamente per etichettare la tv delle piattaforme web, si rispecchiano le effettive trasformazioni determinatesi nelle modalità di emittenza e ricezione, e di conseguenza nel linguaggio. La paleotv o tv delle origini (1954-75) coincide col monopolio pubblico, caratterizzato da intenti pedagogici e da un italiano aulico e normativo, ma adeguatamente variato in funzione dei diversi generi di programmi. La neotv (1976-2010) nasce con la famosa sentenza della Corte Costituzionale che liberalizzava le emittenti commerciali, ed è caratterizzata da due tendenze di fondo: flusso ininterrotto di trasmissioni e fidelizzazione del pubblico. I telespettatori, che la paleotv mirava a educare e a orientare con attitudine paternalistica, vanno ora blanditi, assecondati anche nei gusti meno elevati. Inoltre hanno la possibilità di interagire nelle trasmissioni, in presenza o, a distanza, con telefonate o chat. Dal punto di vista linguistico si passa da un italiano sorvegliato anche nella pronuncia, e vicino allo standard letterario che all’epoca costituiva anche il modello dell’insegnamento scolastico, a un italiano fluido, vicino al neostandard anche nei generi più ‘impegnati’ (come informazione e divulgazione), e interferito da tratti regionali, con aperture al dialetto, e slittamenti nell’italiano substandard, gergale e trascurato, nei reality e nei talk show più improvvisati. Con la post-televisione l’abbondanza di generi e linguaggi, che già si era profilata con la neo-tv, è diventata quasi caotica. Con lo streaming la tv di flusso si è diversificata in una miriade di flussi: ogni telespettatore può fruire del contenuto televisivo in ogni momento, da qualsiasi tipo di device (computer, i-pad, telefono), interrompendo e riprendendo la trasmissione a proprio piacimento. Ognuno, quindi, può creare il proprio palinsesto, immergendosi completamente nel tipo di linguaggio che caratterizza il genere scelto (si pensi alla pratica del binge watching, che consiste nel guardare in pochissimi giorni tutti gli episodi di una serie tv). La post-tv, però, non è la televisione dell’isolamento, ma quella in cui si sono affermate nuove pratiche di fruizione e di condivisione, specie attraverso i social network: gli spettatori condividono immagini, meme e clip dei loro programmi preferiti, che diventano occasioni di dialoghi virtuali sui social e determinano un nuovo e più intenso riuso di linguaggi e tormentoni televisivi.  Basti pensare al fraseggio diffuso dai nuovi factual come “Sì, chef!” o “Che voto diamo alla location?”

Si può dire, che tra i macrogeneri televisivi, quello informativo sia il più “aulico”, al di là delle differenziazioni tra i programmi. In proposito, quale conduttore sembra più emblematico, e quale trasmissione?

[Bonomi]: Non userei l’aggettivo “aulico”, inadatto anche per i programmi in cui l’italiano informativo dei giornalisti è più sorvegliato, in particolare i telegiornali, ai quali si addice la definizione di “parlato serio-semplice”, coniata alcuni decenni fa da Francesco Sabatini per l’informazione radiofonica. Questo parlato (o trasmesso) serio-semplice, aderente alla norma dell’italiano standard, che calzava a pennello per i telegiornali e per altri programmi informativi della paleotv (un po’ meno della neotv), si è progressivamente vivacizzato in una lingua più espressiva, più aperta al neostandard e alla colloquialità. Sulla media dell’italiano dell’informazione spiccano alcuni stili personali di conduttori, sia nel vasto campo del talk-show, sia nei telegiornali. L’esempio più evidente e significativo è quello di Enrico Mentana, che con il suo tg La7 ha innovato radicalmente il modello comunicativo-linguistico del telegiornale, superando la frammentazione delle notizie in un flusso coeso, in cui larga parte hanno l’interpretazione e il commento dei fatti: una conduzione interpretativa che porta a una maggiore ampiezza argomentativa e periodale e a una più evidente ricerca stilistica, in cui anche il lessico, ricco e variato, gioca una parte importante.

L’entertainment è il genere che forse ha registrato, nel tempo, più ibridazioni. Quali sono i programmi che hanno esercitato maggior influsso sugli usi linguistici del pubblico e come?

[Alfieri] Tra le quattro macroaree televisive (fiction, intrattenimento, informazione, cultura-educazione) l’intrattenimento registra una maggiore ibridazione nel percorso ideale dalla paleo- alla neo- e alla post-televisione. Già il termine varietà, che individua le prime trasmissioni d’intrattenimento (p. es. Canzonissima), rivela la contaminazione di fondo tra generi e formati: Portobello, negli anni Settanta e poi i programmi contenitore (Domenica in e Unomattina)e i reality show.  La reality television degli anni Novanta culmina nel Grande Fratello, archetipo del factual, macrogenere ibrido della postv, che mescola il registro realistico del documentario anni Ottanta e Novanta e quello sentimentale della soap opera.

Sul fronte linguistico l’intrattenimento ha avuto sin dalla paleo-tv un impatto immediato sui telespettatori, con tormentoni come il nientepopodimenoché di Mario Riva o Allegria! di Mike Bongiorno. Con la neotv, e le sue modalità di rispecchiamento e riuso, si stimola l’identificazione e quindi la fidelizzazione del pubblico, proponendo nel contempo modelli alternativi, che a loro volta generano nuovi usi. In tal senso i game show giocano un ruolo fondamentale: dalla domanda fulcro La accendiamo? in Chi vuol essere milionario?, si è passati ai “tormentoni” contemporanei, comel’incontro ravvicinato con il  parente misterioso, la fotona e il binocolone.  Questo circuito linguistico televisione-spettatore si accentua con la postv, influenzando ancor di più l’uso dei parlanti. In particolare, il factual game basa la propria riconoscibilità sulla ricorsività di moduli frasali (manca ancora il mio voto che potrebbe confermare o ribaltare il risultato). L’iterazione di formule testuali e linguistiche, così frequente nella post-tv, ripropone pertanto da un lato la ciclicità del rito della televisione, dall’altro si configura come strumento di fidelizzazione per il telespettatore e di eco pubblicitaria per il programma attraverso i social network.

La fiction si presenta come “uno specchio a due raggi”, che da un lato assorbe i modelli linguistici, dall’altro li ripropone. Il suo registro è stato definito come un parlato “oralizzato”. In che modo esso si è evoluto nel corso di questi settant’anni, e che sembianze ha assunto nella post-televisione?

[Alfieri] La dinamica comunicativa della teleletteratura, come veniva denominata nella paleotv quella che oggi chiamiamo fiction, è forse la modalità più tipica di quella che Andrea Masini ha etichettato con la metafora dello “specchio a due raggi”: mentre nei teleromanzi si trasformavano in copioni i testi letterari, rispettandone filologicamente la veste originaria, anche a costo di qualche artificiosità, nella fiction di neo- e postv, per riprodurre attendibilmente il parlato si attinge al linguaggio reale, che  a sua volta però imiterà il linguaggio delle serie più famose. Si crea così un circuito parlato-parlato reale > parlato delle sceneggiature scritto per essere recitato > parlato recitato delle fiction > parlato dei telespettatori, che rende il parlato delle fiction un parlato oralizzato.

Nel corso del tempo la lingua di quello che prima era lo sceneggiato – che metteva in scena, con un linguaggio letterario e aulicizzante, soprattutto i grandi classici della letteratura italiana ed europea – e che poi è diventata la fiction si è avvicinato all’oralità media, riproducendo ed esibendo tutti i tratti del parlato più sciolto e colloquiale. Negli anni Ottanta, con le soap operas e i telefilm, e poi a partire dagli anni Novanta, con il doppiaggio delle prime serie americane “di qualità”, come E.R. Medici in prima linea o Doctor House, l’influsso dell’angloamericano è diventato sempre più importante, contribuendo a diffondere calchi sintattici e nuovi idiomatismi, come qual è il problema; si rilassi; il mio nome è…

Negli ultimi anni le serie tv, ormai assimilabili per qualità ai prodotti cinematografici, sono andate incontro a un ulteriore cambiamento, caratterizzando l’offerta di piattaforme quali Netflix, Sky e Amazon Prime. Le serie della post-televisione, specie quelle dei canali in streaming, rappresentano la realtà in ogni suo aspetto, anche il più scabroso, e gli sceneggiatori attingono a un bacino assai ampio di varietà e stili comunicativi. Anche il dialetto e le varietà regionali molto marcate hanno fatto registrare una presenza prima impensabile, come ad esempio in serie quali Gomorra o L’amica geniale. Il linguaggio, inoltre, si è ibridato al massimo grado, entrando in contatto con stili tipici di generi paraletterari come il fantasy o il fumetto e proponendo agli spettatori modelli sempre più variegati.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“Media, non teorie ma una ventina di parole chiave”

Ruggero Eugeni, dell’Unicatt, ha curato per Einaudi un primer per un primo sguardo sui punti chiave della mediologia

Ruggero Eugeni

Un libro strutturato in una serie di parole chiave, un manuale che non è una storia dei media, ma un lavoro fondativo sui temi più importanti della ricerca massmediologica, come le teorie degli effetti sui pubblici, su testi e discorsi, sul digitale. Un lavoro che parte da un’introduzione sulle quattro teorie più importanti che hanno attraversato la ricerca (mediologia classica, critica, discorsivista, filosofica), per applicarle ai nuovi media, i cui effetti, dopo entusiasmi iniziali a favore della rete, sembrano orientati verso scenari ben più pessimistici. Infine, uno sguardo su mass media e magia che, per l’autore, secondo una forma di neopaganesimo, avrebbe informato di sé i rapporti tra il magico e i media di massa, passando dalle pratiche magiche di fine Ottocento ai fenomeni di stregoneria su TikTok. Sono questi i temi portanti di Il primo libro di teoria dei media, curato per Einaudi da Ruggero Eugeni, docente di Semiotica dei media presso l’Università Cattolica di Milano.

Come nasce quest’opera e in che modo si struttura per parole chiave?

Essa nasce per volontà dell’editore Einaudi che ha in cantiere una serie di opere dal titolo “Il primo libro di”. Sono quei testi che in linguaggio editoriale internazionale si chiamano i primer, cioè opere di base da leggere per prime al fine di introdursi a un certo argomento. In particolare, mi sono ispirato all’opera analoga “Il primo libro di estetica” curato dal collega Andrea Pinotti, che aveva avuto l’idea di presentare l’estetica non per grandi temi o per grandi autori, ma per una serie di nodi e di problemi. Da qui appunto l’idea di individuare alcune parole chiave che nel nostro caso sono state soprattutto termini corrispondenti a questioni anche attuali che ci interessava approfondire.

A chi non è rivolta e comunque, pur non essendolo compiutamente, si può definire come un manuale?

È un manuale di teorie dei media, e deve quindi escludere un approccio di storia dei media come pure una attenzione alle teorie della comunicazione in generale. Attenzione: questi aspetti non vengono esclusi ma relegati sullo sfondo. Anzi, se l’Editore intendesse varare “primi libri” su questi argomenti noi siamo a disposizione!

Si può definire comunque come un manuale?

Si, in un duplice senso. L’introduzione è “manualistica” in senso tradizionale perché disegna alcune questioni epistemologiche e metodologiche e costruisce una mappa delle grandi famiglie di teorie dei media segnalando al loro interno gli autori e le opere più significative. La seconda parte cambia marcia e propone un approfondimento di una ventina parole chiave, ognuna delle quali parte da un esempio concreto e attuale per rivelare il background teorico (da “Arte” a “Virtualità”, passando per “Effetti”, “Pubblici”, “Reti”, “Sorveglianza”, etc.); un sistema di rimandi interni consente di collegare tra loro le voci come pure di situarle nella “mappa” disegnata della introduzione. Peraltro vorrei ricordare i nomi dei giovani colleghi che hanno lavorato con passione e competenza alle varie voci: Simone Carlo, Alice Cati, Anna Caterina Dalmasso, Elisabetta Locatelli, Massimo Locatelli, Elisabetta Modena e Francesco Toniolo.

In che modo il libro offre una definizione di medium e di teoria dei media?

Tenendo conto del dibattito che si è svolto tra la teoria dell’arte, l’estetica e la teoria dei media si è convenuto di definire medium il dispositivo o l’insieme dei dispositivi materiali che producono parole, suoni, immagini, mentre i media sono istituzioni sociali, culturali e quindi hanno un aspetto più generale. Ovviamente c’è un legame tra le due entità: i medium con i vincoli e i condizionamenti dovuti alla loro natura materiale hanno sempre contribuito a plasmare le esperienze mediali e quindi la percezione sociale e culturale dei media.

Cosa intende quindi per teoria dei media?

La riflessione sui media (e sui medium) è decollata abbastanza presto. Inizialmente essa si è espressa in forme più frammentate: tra Ottocento e Novecento, alcuni interventi sono stati più occasionali (si parla in questo caso di una riflessione pre-teorica). In seguito, i discorsi dedicati ai media e ai medium si sono organizzati in forme più coerenti, e hanno anche incominciato a dialogare con delle impostazioni disciplinari consolidate. Per esempio, quando Walter Benjamin negli anni Trenta ragiona sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e quindi riflette in particolare su medium e media quali la fotografia e il cinema, svolge una riflessione coerente e la collega al tempo stesso al territorio dell’estetica. Analogamente, quando Adorno e Horkheimer nel 1947 scrivono Dialettica dell’Illuminismo, ragionano sui media nell’ottica di una sociologia di taglio critico. Quindi, negli anni Venti e Trenta in poi, si assiste ad un passaggio dalle teorie pre-teoriche a una organizzazione di veri e propri discorsi teorici. La teoria dei media, quindi, cercando di offrire una definizione, è un tipo di discorso che parte dall’esame di una serie di fenomeni empirici concreti e anche talvolta rilevati sistematicamente mediante sperimentazione o ricerca sul campo, ma che nello stesso tempo cerca di individuare dei modelli di più ampia portata e applicabilità, i quali vengono descritti in maniera coerente, unitaria, eventualmente ispirandosi a discorsi teorici filosofici, sociali, antropologici, ecc..

Le chiederei di ripetermi la differenza tra medium e media perché nel suo testo mi pare non compaia, ma mi sembra che ci sia soltanto il concetto di media

Il medium è l’insieme di condizionamenti materiali che presiedono all’apparizione di stimoli sensoriali: questa definizione deriva soprattutto dalla teoria dell’arte perché negli anni Sessanta,  all’interno della critica modernista, si parla di una medium specifity, cioè il valore di un’opera d’arte secondo alcuni teorici dipende dalla capacità di esibire alcuni aspetti concreti, materiali del medium, come per esempio la pittura astratta esibisce la piattezza della tela piuttosto che la pittura concreta esibisce il colore e la pennellata. Da qui è nata poi una dialettica tra la teoria dell’arte e quella dei media, perché nel momento in cui gli artisti hanno cominciato a usare dei veri e propri media come il video, inizialmente il video poi l’arte digitale, gli strumenti digitali e così via, il problema si è fatto più complesso. Allora, c’è una serie di vincoli materiali, ma poi (come argomenta per esempio Rosalind Krauss) anche una capacità di reinventare il medium, cioè personalizzarlo, dargli nuove valenze. Questo dibattito lavora soprattutto appunto sul medium, ma già apre, come ho detto, ai media, perché se il medium è il mezzo concreto, i media sono invece delle istituzioni sociali.

Da un punto di vista storico ed evolutivo c’è sempre stato un medium, ma non sempre ci sono stati dei media: c’è sempre stato un medium perché un qualunque atto espressivo si serve di uno strumento materiale a cominciare dall’uso del corpo per proferire parole, per esprimere attraverso la mimica alcune intenzioni, e quindi sostanzialmente per comunicare, per trasmettere informazioni. Poi, mano a mano, i medium sono stati le incisioni, le pitture rupestri, i vari volumen, codex, ecc. Il medium ha rivestito un’importanza notevole nella storia della comunicazione, perché gli aspetti concreti e materiali hanno sempre determinato il tipo di comunicazione che si voleva offrire. Per esempio, l’invenzione prima della scrittura e poi della stampa, modifica le regole e il significato stesso del termine “comunicazione”. I media non ci sono sempre stati, sono un’invenzione sostanzialmente ottocentesca, sono legati all’avvento della seconda rivoluzione industriale, all’industrializzazione della cultura, come dicevano Adorno e Horkheimer, e quindi alla costruzione di grandi apparati. I media in quanto apparati hanno un aspetto economico-produttivo e anche di potere politico, ma anche un aspetto di attese, conoscenze da parte dei soggetti sociali e precomprensioni, orizzonti di attese, per cui se io vado al cinema ho una serie di aspettative del tipo di esperienza che sto per affrontare, che è diversa rispetto, per esempio, a quando navigo su Internet.

Quanto detto, vale per riproporre la questione della distinzione tra la materialità del medium e l’insieme di caratteristiche sociali, economiche e politiche dei media, ma al tempo stesso, a partire da questa differenza, anche della loro connessione.

Quali sono i nuclei portanti del testo, al di là delle singole voci? La mediologia classica? Quella critica? Quella discorsivista? Quella filosofica?

Tutte e quattro queste “gambe” servono a sostenere lo stesso tavolo. Nell’introduzione cerco di ordinare il vasto campo delle teorie dedicate ai media ordinandole in queste quattro grandi famiglie, per poi comprendere in che modo le singole voci, i singoli problemi che costituiscono il nucleo del libro attraversano maggiormente l’una o l’altra di queste.

La scelta è quella di rendere conto di diversi approcci al mondo dei media: la mediologia classica è attenta soprattutto alla questione degli effetti, e quindi al tipo di impatto che i media hanno sulla società. Quella critica parte dal presupposto che i media abbiano un effetto spesso considerato negativo sulla società, in quanto sono il veicolo per la perpetuazione e per la riproduzione di nuclei ideologici e concorrono a mantenere un certo sistema di potere politico-economico. Al tempo stesso, la mediologia critica cerca delle risposte a questa situazione, sia mediante delle pratiche di media dal basso, sia tramite delle pratiche di resistenza allo strapotere mediale.

La mediologia discorsivista si concentra sul testo, sul discorso, anche in chiave critica, però con una particolare attenzione ai modi concreti mediante i quali i testi, i vari discorsi mediali veicolano delle ideologie o si rivolgono a certi settori del pubblico, ricostituendone l’esperienza di consumo.

Infine, la mediologia filosofica si concentra soprattutto sul tipo di esperienza che i media procurano a partire dall’aspetto soprattutto estesico-estetico, cioè dal tipo di percezioni, di sensazioni, che i media procurano ai loro consumatori. Da questa intuizione sviluppano anche un’attenzione differenziata ai diversi tipi di media, che vanno dalle prime manifestazioni di quelli otto-novecenteschi a quelli più recenti. Si procede così da Walter Benjamin, che affronta la fotografia e il cinema come una nuova condizione esperienziale che innerva tutta la vita sociale basata sulla velocità, sulla frammentazione, sullo shock, fino a colleghi come Andrea Pinotti che, studiando oggi la realtà virtuale, si rendono conto che le condizioni percettive di sensazione alla base di questo nuovo tipo di esperienza ci immergono in una serie di ambienti virtuali che rimettono in questione il nostro esperire, il nostro sentire il mondo e gli altri soggetti.

In che senso assumono nuova importanza le teorie sugli effetti e quelle sul pubblico, alla luce dei nuovi media?

Possiamo distinguere differenti ondate di teorie sugli effetti e sul pubblico in relazione ai nuovi media. In alcuni casi si lamentano effetti immediati e profondi, come avveniva negli anni Venti e Trenta con osservatori quali Lippmann e Lasswell a proposito della propaganda; in altri casi si pensa a effetti che lavorano sull’accumulo e quindi richiedono più tempo, come in molte teorie degli anni Sessanta e Settanta. In altri casi ancora si assiste a un certo entusiasmo per gli effetti positivi dei media: è quanto accade negli anni Ottanta e Novanta, quando è sembrato che i nuovi media digitali e telematici cambiassero le regole del gioco rispetto infatti ai vecchi media, cioè i mass media (cinema, radio, televisione), fornendo ai pubblici nuovi strumenti di intervento, dando la possibilità a tutti di produrre e distribuire prodotti mediali in maniera non più verticistica come nel caso dei mass media, ma in modo paritetico e reticolare.

Come dice Jenkins in Cultura convergente

Sì, esatto: è un po’ anche l’idea della società delle reti, è un momento di ritorno dell’utopia. Per esempio, Felix Guattari, filosofo francese, parlò a quell’epoca di post media, di superamento dei mass media grazie appunto alle nuove possibilità: già all’inizio degli anni Settanta guardava al fenomeno delle radio libere, e poi al Minitel francese, un’anticipazione del web, di Internet, che ebbe un buon successo in Francia tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.

Oggi invece assistiamo a un nuovo momento di pessimismo circa gli influssi spesso negativi dei media sulla vita psicologica, sociale e politica dei soggetti. I nuovi media, cioè i media di rete sono diventati a questo punto delle piattaforme: esse hanno riportato il potere nelle mani di pochi grandi players, grazie soprattutto ai nuovi meccanismi di datificazione. Pertanto, la nuova ondata di studi sui nuovi media comincia a essere sempre più critica, comincia a recuperare per esempio l’idea che essi abbiano degli effetti “forti” sui consumatori. Oggi peraltro (non mi sembra di parlarne nel libro), tendono a essere applicate anche delle tecniche di analisi di tipo neurologico sui consumatori di media, per capire in che modo il nostro cervello viene plasmato dall’intenso, coinvolgente e immersivo consumo di social media e di piattaforme.

Quali voci del libro (alludo soprattutto alla mediologia classica) ritiene siano da aggiornare in seguito alla svolta digitale?

Più che aggiornare delle voci, direi che ci sono diverse aree della riflessione mediologica che sono state più o meno coinvolte dalla svolta digitale, anche se in modo diverso. La mediologia classica ha dovuto fare i conti con i tipi di effetti che i nuovi media hanno; quella critica ha dovuto confrontarsi con i nuovi meccanismi di potere che passano attraverso i media (pensiamo per esempio al grande tema della sorveglianza), quella discorsivista si è trovata di fronte a nuovi modelli di discorso molto frammentati (per esempio l’analisi di un meme, di un post rispetto a quella di un film, oppure di una serie televisiva, che è molto ampia, o di un ciclo di film come quelli del Marvel Cinematic Universe). Infine, la mediologia filosofica si è trovata di fronte a nuovi tipi di esperienze anche sensoriali offerte dai nuovi media, e quindi ha dovuto porsi delle questioni relative alla relazione tra esperienza ecologica ed esperienza mediale che oggi sono centrali: in questo momento l’idea che i media facciano parte di ambienti complessi, cioè di ecosistemi, e che il soggetto che interagisce con essi debba negoziare un’interazione con il proprio ambiente è molto forte e ritorna in molte opere contemporanee.

È vero che la magia è stata un elemento che da sempre ha attraversato il discorso sui media e non è solo un qualcosa venuto alla luce negli anni Settanta del Novecento?

Sì, è così, anche se il versante magico è stato spesso lasciato nell’ombra dalla riflessione teorica (ma ci sono esempi importanti: per esempio Edgar Morin). Per questo ho scritto personalmente il capitolo “Magia” del libro. Bisogna tener conto di due aspetti: da un lato le pratiche magiche si sono sempre infiltrate nei comportamenti mediali: dai fantasmi della lanterna magica a Giucas Casella; ma dall’altro le pratiche magiche sono state anche all’origine dei media: penso per esempio al collegamento che nell’ Ottocento era molto forte, tra il telegrafo e la comunicazione psichica, la comunicazione mentale, la telepatia; o alle origini della telematica basate su movimenti e tendenze mistiche, neopagane e new age (chi ne volesse sapere di più può leggere Techgnosis di Erik Davis, un libro degli anni ottanta ripubblicato in italiano da pochi mesi).

Tutto questo mostra come il pensiero magico abbia sempre accompagnato i media: sotto questo aspetto allora che non è casuale che i media di rete portino ad una rinascita e ad una nuova visibilità di movimenti pseudoreligiosi, del cosiddetto nuovo paganesimo, cioè di tutti quei movimenti legati ai culti di entità naturali, al ritorno della magia, della stregoneria, tutti movimenti che trovano all’interno dei nuovi media occasioni di manifestazione ma anche di rilancio in nuove forme. Allora, fenomeni come #Witchtok, una un’area di TikTok dedicata alla stregoneria, oppure i vari culti per propiziarsi gli algoritmi dei vari social media perché forniscano i contenuti desiderati, mostrano come queste tendenze si aggiornino al presente…

Quindi per lei la magia è nata con i media, non si è solo manifestata negli anni Settanta del Novecento…

Esatto, è proprio costitutiva dei media, non ci sono molte voci al riguardo, però ce ne sono alcune sintomatiche: ho citato prima velocemente Edgar Morin, che scrive negli anni Cinquanta e Sessanta, e parla del cinema come di un mezzo magico. Egli sottolineava come esso racchiudesse una serie di tensioni e di pratiche sociali proprie della magia, soprattutto l’ombra, il rapporto con i morti e il doppio.  Questo modo di pensare che troviamo in Morin, oggi sta ritornando alla luce con diversi autori, ma è molto interessante perché i media sono stati collegati molto spesso alla cosiddetta modernità, cioè a quell’epoca dello sviluppo umano che parte dalla fine del Quattrocento, però si concretizza nella sua versione più recente a partire dalla metà dell’Ottocento. Essa è legata a doppio filo allo sviluppo dei media, che nascono alla metà dell’Ottocento e lo è perché è connessa allo sviluppo della tecnologia, e i media sono una forte espressione delle innovazioni tecnologiche.

Nel pensiero sociologico classico (per esempio in Max Weber), la modernità è anche l’età del disincanto, cioè grazie soprattutto alla tecnologia e alle scienze pure, alle scienze dure, la modernità ha fatto piazza pulita delle vecchie credenze, considerandole superstizioni, e quindi il nuovo mondo della modernità è un mondo ripulito dagli dei, dalle credenze, dalle pratiche magiche.

Tuttavia, in realtà, oggi stiamo comprendendo sempre meglio come questo non è vero, e come la stessa tecnologia, soprattutto attraverso gli utilizzi e le manifestazioni mediali, sia servita a prolungare, a far rinascere, a perpetuare la presenza del pensiero magico, delle pratiche magiche, all’interno delle società contemporanee.  Da qui appunto l’idea che i media possano anche essere letti come sia dei luoghi e sia degli strumenti della magia contemporanea, di questa nuova magia che sa essere al tempo stesso arcaica e aggiornata, perché in realtà è una forma di pensiero, un modo di vedere il mondo che trascende una distinzione ieri/oggi, ma è piuttosto una sorta di costante antropologica.

Quindi la magia verrebbe praticata anche su TikTok…

Certo, #Witchtok è un hashtag che identifica una serie di video su TikTok e di risposte a quei video fatte da un enorme numero (centinaia di migliaia) di giovani streghe che insegnano rituali di vario genere, insegnano a confezionare degli amuleti, ma con un dibattito interno molto acceso. Per esempio, se una strega propone un certo tipo di amuleto o di incantesimo, può darsi che un’altra intervenga dicendo “Questo non si può fare per ragioni di cultura etnica”, per cui solo, non so, una brasiliana può eseguire questo rituale che è ispirato alla magia del suo paese.  Questo è un settore molto interessante, perché attraverso tali dinamiche passano sia un modo di relazionarsi alle tecnologie e ai social media, sia un’individuazione delle proprie identità di genere, delle proprie identità culturali, etniche, eccetera.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“Meme, un’anima social dallo sport, alla politica, alla grammatica”

Una chiacchierata a tre voci con Debora de Fazio e Pierluigi Ortolano sul loro La lingua dei meme, edito da Carocci

Debora de Fazio e Pierluigi Ortolano

Una forma comunicativa, i meme, ampiamente diffusa sui social, ma che è stata chiamata così non da un linguista o da un informatico, bensì da un biologo evolutivo, Richard Dawkins. Un’accurata tipologia con cui possono essere classificati (meme dialogici, muti, ecc.); una diffusione ampiamente attestata in ambito sportivo e politico, per cui uno tra i personaggi italiani più “memati”, è stato senz’altro Berlusconi. Quanto c’entrano poi le fake news con i meme? Relativamente poco, in quanto essi sono tendenzialmente umoristici, scherzosi e satirici. Infine, i meme utilizzati per “curare” gli errori grammaticali: è quanto stanno facendo illustri istituzioni italiane come l’Accademia della Crusca e Treccani. Di questo si è parlato, in un’intervista a tre voci, con Debora de Fazio, docente di Linguistica italiana all’Università della Basilicata, e con Pierluigi Ortolano, sempre docente di Linguistica italiana all’Università di Chieti-Pescara, a proposito del loro La lingua dei meme, edito di recente per Carocci.

Quando è nato il termine meme?

P.O. e D.d.F. Il termine meme ha un papà d’eccezione, che non è né un linguista né un informatico. Si tratta infatti di Richard Dawkins, biologo evolutivo e docente di Comunicazione della scienza all’Università di Oxford. Lo scienziato nel 1976 pubblicò un libro dal titolo “The Selfish Gene” (tradotto in italiano nel 1979 con il titolo “Il gene egoista”) e concentrò la definizione del termine in queste considerazioni: “Il nuovo brodo è quello della cultura umana. Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore, un nome che dia l’idea di un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. “Mimeme” deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono affine a “gene”: spero perciò che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in meme. Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a “memoria” o alla parola francese même. (Dawkins, 1976/1992, pp. 186-187).

Si può fornire una sua tipologia?

P.O. Indubbiamente il meme rappresenta il tratto evolutivo e digitale della vignetta; si pensi alle vignette di Forattini, tanto per fare un esempio: un’immagine con una didascalia o una battuta pronta a far sorridere ma anche a far riflettere sull’essenza del messaggio.

D.d.F. Ce ne sono tante: meme dialogico (che vede interagire più personaggi; con varie “soluzioni”, anche grafiche), meme cartello (in cui manca un’immagine vera e propria e il fulcro comunicativo è rappresentato dalla parte verbale), meme muto (costituiti dalla sola immagine, fortemente iconica), meme striscia (che richiama la struttura del fumetto), e varie altre.

Qual è il rapporto tra meme e sport?

P.O. e D.d.F. Il meme trova campo fertile nell’àmbito dello sport; le motivazioni sono scontate, perché si tratta di attività che favoriscono il dibattito, lo scherzo, spesso l’insulto e comunque l’interazione fra sportivi, tifosi e utenti della rete. Basta sfogliare una qualsiasi edizione online di un quotidiano del settore per imbattersi in meme che commentano sconfitte, eventi particolari o dibattiti sul weekend calcistico.

Se consideriamo il linguaggio sportivo come un collettore di «diversi generi di discorso orale o scritto finalizzati al resoconto e al commento di eventi e personaggi», esso risulta caratterizzato da frequenti interazioni con altri mondi comunicativi come la politica, il giornalismo, il gossip e la cultura sportiva in genere.

Proprio per la sua natura comunicativa e per il fatto che il coinvolgimento riguarda una fetta significativa degli utenti della rete, lo sport entra a pieno titolo tra i settori memabili.

Quanto sono usati in ambito politico i meme, e quali sono i personaggi istituzionali più bersagliati?

P.O. Così come per lo sport, anche la politica ha i suoi personaggi “memabili” e nel nostro libro il campionario è molto vasto. Ho capito che più un politico è “memato” e più si sente conosciuto al grande pubblico. È sufficiente che accada un evento che coinvolge un politico di punta e subito, in rete, scatta la gara al meme per rendere più simpatico uno scivolone linguistico, una battuta fuori luogo o il mettere in risalto una peculiarità umoristica del politico stesso.

D.d.F. È proprio come dice il mio collega. Anche la politica ha alcuni personaggi che si prestano particolarmente. Per dire una banalità: soltanto con i meme relativi a Silvio Berlusconi si potrebbe scrivere un intero libro…

I meme rappresentano, in qualche caso, un rischio per la democrazia, come dimostra la connessione tra meme e fake news, che talvolta contribuiscono ad alimentare…

P.O. Sinceramente non credo che i meme possano rappresentare un rischio per la democrazia; così come la satira rende allegra ma nello stesso tempo riflessiva la comunicazione di tutti i giorni, anche i meme, nella loro peculiarità, possono portare a riflettere su alcuni spunti interessanti come quello di migliorare le proprie conoscenze linguistiche o grammaticali.

D.d.F. Si tratta senz’altro di un aspetto interessante, più che altro dal punto di vista delle tecniche retoriche impiegate per progettare meme del genere. Ma si tratta di un fenomeno complesso che andrebbe studiato a largo raggio.

I meme, che tendono verso un italiano standard improntato, assai spesso per fini umoristici, verso il romanesco, sono però, in molti casi, sgrammaticati…

P.O. In parte è vero, ma è la comunicazione dei nostri tempi e va accettata. Piuttosto, è importante poter vedere il bicchiere mezzo pieno in questa circostanza e il linguista ha il dovere di credere che da questa forma di comunicazione possa nascere qualcosa di buono. Il libro nasce proprio con questo intento: insegnare la grammatica partendo dal meme, anche dall’errore di grammatica, perché siamo certi che l’errore rimanga più impresso nella mente dello studente. Il fine da cui nasce questa pubblicazione, e per questo ringraziamo il nostro editore Carocci che ha creduto sin dall’inizio a questo progetto, prende spunto dall’umorismo pirandelliano: l’umorismo è il sentimento del contrario; sul momento il meme crea ilarità, divertimento. Poi, attraverso una sana riflessione, potrebbe diventare uno spunto per capire meglio come modulare la lingua italiana ed evitare strafalcioni linguistici.

D.d.F. Sì, è vero, ci sono alcuni “meme sgrammaticati”, ma, come mostriamo nel libro, nella maggior parte dei casi, la distanza dall’italiano medio non è poi così siderale. Piuttosto, alcuni prodotti sono costruiti “a tavolino”: l’evasione dalla norma linguistica serve da ingrediente comico-umoristico.

I meme sgrammaticati, i meme che aiutano ad apprendere l’italiano… Come potrebbe essere usata a fini didattici questa forma comunicativa, insegnando anche le corrette norme grammaticali, in particolare l’ortografia?

P.O. La scelta del meme come forma di comunicazione “social/ grammaticale” non si indirizza solo a campi diafasicamente o diastraticamente bassi, né si può pensare che essi si possano rivolgere solo alla generazione millenial o a quella Z. Da qualche anno anche autorevoli portali digitali come Devoto-Oli, Treccani e Accademia della Crusca scelgono i meme per interagire con i loro lettori. L’intento è di avvicinare la grammatica partendo da un dato semplice: l’errore che crea ilarità e suscita il sorriso ma permette la riflessione, così come ricordava il Maestro Luca Serianni. Da qui la novità didattica del meme, e i grandi dizionari online stanno già lavorando in questa direzione. Prendiamo ad esempio il sito https://www.devoto-oli.it/ e la sezione del “Pronto soccorso linguistico”; all’interno di questa rubrica si forniscono suggerimenti per «orientarsi nelle insidie della comunicazione». Ebbene, tra le insidie della comunicazione ce ne sono alcune che possono arrivare anche ai lettori più giovani o inesperti attraverso il meme. È in atto, dunque, un nuovo modo di comunicare e una nuova forma di insegnare l’italiano: meme e grammatica potrebbero essere la nuova frontiera della didattica 2.0. Considerando tutto questo e interagendo con i principali campi dell’analisi linguistica (la grafia, la fonetica e la fonologia, la morfologia, la sintassi, il lessico e le varietà dell’italiano) si può insegnare la grammatica partendo non dalla definizione ma dall’errore, ricavando poi la definizione. Proviamo quindi a rovesciare la medaglia applicando un metodo deduttivo: un errore resta ben radicato nella nostra mente.

D.d.F. Esatto! D’altronde sia io sia Pierluigi abbiamo cominciato a “testare” l’approccio sui nostri studenti negli atenei in cui lavoriamo. E, al momento, abbiamo ricevuto feedback positivi.

MARIA GRAZIA FALÀ

“Neoformalismo, per una tipologia del personaggio”

Da un testo di Sara Casoli, dell’Unifi, una discussione su Esterno notte, Gomorra – La serie Mare fuori

Una rivalutazione del personaggio in chiave neoformalista, nel senso, come diceva Edgar Morin, di unitas multiplex, con la creazione di una tipologia in personaggio stereotipato, individualizzato, popolare e stereotipato. Una tassonomia creata a partire dagli studi di Caroline Levine, che ha impiegato il concetto di forma in maniera flessibile, applicandola ai personaggi letterari. Un concetto di forma, appunto, che prende spunto anche da Goethe, che la concepiva sia come Gostalt (forma pura e semplice), sia come Bildung, ovvero come “costruzione”. Inoltre, un’analisi tipologica del personaggio applicata a tre iconiche serie TV italiane, ossia Esterno notte, di Marco Bellocchio, nota per la sua impronta autoriale, Gomorra – La serie, famosa sia, anch’essa, per la sua forma autoriale ma anche per il suo grande successo di pubblico, e Mare fuori, il teen drama/prison drama significativo per la sua grande popolarità e per il fatto che mescola elementi à la Gomorra al melodramma. Sono questi i temi trattati in una conversazione avuta con Sara Casoli, docente di Storia del cinema all’Università di Firenze, in merito al suo libro Le forme del personaggio, edito da Mimesis nel 2021.

Quando si afferma di nuovo la centralità del personaggio dopo la grande parenti strutturalista, (soprattutto) francese?

Quella di personaggio è una nozione che ha conosciuto fortune avverse nella teoria critica, oscillando in continuazione da una concezione che vede il personaggio come un insieme di segni e di motivi, la cosiddetta prospettiva disumanizzante, ed è il personaggio-funzione, come è stato poi anche ribattezzato, a una che vede invece il personaggio come una persona, quindi in un’idea più umanizzante del personaggio, visto come un individuo, ancorché finzionale. Pertanto, tale concetto ha sempre sofferto di questo moto ondivago a partire dalle origini. Da Aristotele, che lo aveva relegato in una posizione di subalternità rispetto all’azione, si è passati poi, con il Romanticismo, ad una direzione opposta, quando, grazie alla centralità del concetto di individuo nel dibattito storico-critico, l’idea di personaggio, inteso come persona, acquista enorme fortuna proprio perché diventa incarnazione ed espressione di una soggettività.

A partire però già dagli anni ‘20 del ‘900, in particolare con l’affermazione del formalismo russo, quindi con Vladimir Propp e successivamente con la semiotica greimasiana e lo strutturalismo francese in generale, il pendolo del personaggio ha compiuto un altro movimento, spostandosi decisamente sul polo della dimensione testuale, cioè decomponendolo, raschiandone via ogni elemento di soggettivazione, per ridurlo appunto alla mera funzione.

È in questo stato che invece la narratologia, soprattutto quella di stampo postclassico, negli anni’ 80 torna nuovamente ad occuparsi di esso. La cosa interessante è che questa nasce, proprio in quel periodo, da una costola della semiotica, ma su posizioni teoriche decisamente meno nette e universalistiche. Cioè, non c’è mai stata l’idea programmatica, nei dibattiti narratologici, di costruire questa grammatica universale della narrazione che invece era uno degli obiettivi soprattutto della semiotica generativa di Greimas.

In questo contesto, appunto, grazie allo sviluppo delle correnti narratologiche, il personaggio riacquista una sua centralità: infatti, grazie alla narratologia, ci si rende conto che esso non deve per forza schiacciarsi su un polo piuttosto che un altro, cioè non deve essere considerato o un insieme di segni o una persona finzionale, ma le due idee di personaggio, le sue due facce possono coesistere, anzi compenetrarsi a vicenda. Si vede, appunto, che il personaggio è da intendersi sia come una costruzione testuale che come un soggetto.

È proprio questo riconoscimento del personaggio come entità fondamentalmente complessa che riporta in auge il suo studio. Lo dicono gli stessi narratologi delle origini, che questo concetto è sempre stato qualcosa a cui lo studioso di letteratura, soprattutto, si approcciava un po’ con sospetto, proprio perché non si riusciva mai fino in fondo a rendere conto della sua ricchezza e complessità.

Quindi, questo oggetto non si sapeva mai bene come prenderlo e, grazie appunto allo sviluppo delle ricerche narratologiche, ci si rende conto che il personaggio può essere affrontato come unitas multiplex. Questa è una felicissima espressione di Edgar Morin che mi permette di rendere conto di come il personaggio si presenta all’apparenza come un’entità unitaria, un individuo simil-umano, che partecipa a un mondo narrativo sotto cui però si cela tutta una rete di elementi sia testuali, e qui per “testuali” intendo, ovviamente in senso lato, elementi narrativi, figurativi e mediali, ma anche elementi di tipo tematico, semantico e, ovviamente, contestuale.

E credo proprio che l’idea di personaggio, composta da facce tra di loro complementari, sia una conditio sine qua non per affrontare poi il personaggio seriale, non solo televisivo (io mi occupo di questo perché il mio campo è quello dei television studies), ma anche di qualsiasi altro genere, indipendentemente dal medium (quindi letterario, cinematografico). Ovviamente si tratta di personaggi costitutivamente diversi: ad esempio, quello letterario lo è soprattutto perché si dà tramite un’altra forma, cioè noi non lo vediamo, ma lo ricostruiamo nella nostra mente grazie alle parole dello scrittore. Tuttavia, il personaggio seriale è innanzitutto un personaggio che si forma in una narrazione seriale, quindi il fattore della serialità è quello definitorio per andare a costruire e comprendere queste figure, indipendentemente dal fatto che siano figure letterarie piuttosto che cinematografiche, televisive o di un qualche videogame e graphic novel.

Lei intende, seguendo Caroline Levine, che lo usa per i personaggi letterari, il concetto di forma, applicandolo ai personaggi seriali televisivi, come qualcosa di “flessibile”, come una “costruzione” (Bildung), oltre che come “forma” (Gestalt) pura e semplice. Ce ne potrebbe parlare?

Decidere se utilizzare il concetto di forma è stata per me una bella sfida, perché, occupandomi di narratologia, so benissimo che l’idea stessa rischiava di essere un po’ compromettente: questo perché quando noi pensiamo alla forma molto facilmente ci viene alla mente la contrapposizione aristotelica con il contenuto, cioè l’idea che da una parte esiste il contenuto e da un’altra la forma. Del resto, sono il formalismo russo e lo strutturalismo francese che hanno proprio giocato pesante su questa contrapposizione, e cioè appunto sul concetto di grammatica universale che menzionavo prima, per cui lo scopo è individuare la forma testuale narrativa, separandola da tutto quello che invece è contenuto più specifico e più soggettivizzato.

Tuttavia, credo che, al di là della brutta reputazione che il concetto di forma un po’ si porta dietro, e del suo essere “compromesso” con lo strutturalismo, di fatto si è rivelato però un validissimo strumento da avere nella nostra cassetta degli attrezzi. Infatti non è un concetto banale, e lo dice anche Foucault nel suo Archeologia del sapere, la forma è un oggetto molto particolare perché contemporaneamente oggetto e strumento di ricerca.

Semplificando, possiamo individuare, tra le mille accezioni, due particolari che credo siano significative. Tradizionalmente, infatti, seguendo il paradigma aristotelico da cui poi lo strutturalismo ha preso buona parte della sua riflessione, possiamo intendere forma come Gestalt, cioè forma cristallizzata, astratta, astorica, che esiste di per sé fuori dalla storia del mondo. Tale concezione di forma è ovviamente inutile per studiare i personaggi seriali, perché essi sono costitutivamente mutevoli. Infatti, l’andamento proprio della narrazione seriale costringe l’identità dei personaggi a costruirsi sempre con un procedimento in fieri: essi non sono mai oggetti statici, di conseguenza, nemmeno il concetto di forma che vorrei utilizzare per spiegarli può essere statico.

A questo punto, mi sono proprio chiesta quali altre possibili concezioni di forma possiamo andare a individuare che siano più utili per affrontare la questione del personaggio e qui, come dire, ho chiamato in causa Goethe che, nonostante sia noto più come poeta, è un filosofo molto fine che si è occupato anche di questa questione. Appunto, secondo lui le forme non possono essere intese come entità ideali sulla scorta di Platone, cioè una forma platonica stabile, assoluta che esiste fuori dalla storia, ma dovrebbero essere considerate come qualcosa di metamorfico, che cambia, che è in evoluzione, quasi come un’entità organica.

Qui ho scoperto questa frase meravigliosa di Goethe, che definisce la forma non come immutabile, ma “eternamente nuova”. Ecco, questo “eternamente nuovo” mi ha colpito molto perché ho trovato fin da subito un’assonanza proprio con la narrazione seriale, che è un qualcosa che si ripete, che è sì stabile, ma anche sempre nuova, sempre diversa. E qui, appunto, Goethe fa riferimento alla forma, non intesa come Gestalt, ma piuttosto come Bildung: il poeta aveva il vantaggio di scrivere in tedesco, e questa lingua ha una precisione semantica molto maggiore, da questo punto di vista, rispetto a quella italiana. Infatti, per noi esiste solo la parola “forma”, ma nella lingua tedesca c’è questa distinzione che io credo molto utile, per distinguere queste diverse accezioni dello stesso concetto, a ulteriore dimostrazione che il concetto di forma è estremamente complesso e ricco.

La forma, la Bildung di cui parla il poeta, è letteralmente una forma che trapassa in un’altra, cioè c’è un elemento di costruzione, di qualcosa che si modifica nel tempo, che cresce, che cambia. Questa, credo, è stata la rivelazione di quando mi sono imbattuta in questi studi, perché l’idea di forma come Bildung si prestava molto bene ad uno studio delle forme del personaggio seriale.

Da questo punto di vista, una svolta ulteriore che mi ha portato ancora di più a convincermi dell’uso di tale concetto per il mio libro è stato lo studio del lavoro di Caroline Levine. Questa studiosa, professoressa di letteratura inglese alla Cornell University, che nel 2015 ha pubblicato Forms, nel suo libro affronta il concetto di forma. Lei non si occupa in modo diretto del personaggio, ma fa un discorso più ampio legato proprio alla letteratura, e si pone il problema di come proporre uno studio di stampo neoformalista in un contesto che è molto diverso rispetto al formalismo precedente.

Per la Levine la forma è sì un ordinamento astratto, un principio organizzatore, ma che può cambiare nel tempo, che si modifica nel tempo sulla base degli elementi che lo compongono. Ma la parte che più mi ha affascinato del suo libro è che il concetto di forma riguarda tanto il campo testuale quanto quello culturale e sociale: cioè esso esce dalla fede canonica, nella quale era stato relegato, cioè il testo, e può essere utile anche per capire meglio il contesto nel quale l’opera letteraria o comunque l’opera artistica nasce e viene esperita.

Pertanto, il testo della Levine è stato per me uno strumento molto importante proprio nell’affinare il concetto teorico di forma al fine di applicarlo al personaggio, tant’è che io, nel mio libro, intendo le forme del personaggio in una duplice accezione, cioè sia le forme che creano i personaggi, ovvero tutte quelle componenti che plasmano e conformano il personaggio, la sua caratterizzazione, la sua identità, tanto da un punto di vista testuale che contestuale; sia nel mio lavoro intendo per forme anche quelle create dai vari personaggi, cioè la possibilità di individuare delle categorie, delle tipologie entro cui racchiudere le loro manifestazioni. Pertanto, ho voluto giocare proprio con la polisemia del concetto di forma, vedere in che modo si poteva applicare allo studio del personaggio seriale televisivo.

Seguendo la corrente teorica del neoformalismo, lei ha proposto la seguente tipologia: personaggio televisivo stereotipato, individualizzato, personaggio popolare, replicante. Quale di questi tipi è più frequente nella serialità televisiva italiana contemporanea?

Prima di rispondere dovrei fare due premesse: la prima, è che i sistemi mediali, appunto nelle forme quanto nei contenuti, sono diversi da paese a paese. Nonostante oggi ci sia un dialogo sempre più fitto, sempre più costante, dobbiamo sempre ricordarci le specificità culturali e mediali, quindi specificità di tipo produttivo, estetico e di pubblico. Il modello di studio dei personaggi che io propongo è legato ad un contesto specifico che è quello statunitense: infatti, non era pensabile fare un’analisi che tenesse insieme serie televisive provenienti da diversi contesti, perché sarebbe risultato uno studio “schizofrenico”. Pertanto, ho dovuto recintare in qualche modo la mia ricerca, per creare una sorta di habitat specifico dal quale poi prelevare i personaggi e le figure finzionali da esaminare. La scelta è ricaduta sulla serialità statunitense proprio perché mi permetteva da un punto di vista della quantità, qualità e varietà della casistica di affrontare al meglio la teorizzazione del personaggio seriale televisivo.

La seconda premessa riguarda il fatto che questa modellizzazione e tipologia che io propongo non vuole essere un casellario entro cui catalogare ed etichettare questo o quel personaggio: ciò vorrebbe dire ricadere nella supposta universalità in cui volevano muoversi i semiotici strutturalisti degli anni ’70. Io non propongo pertanto categorie che intendono essere universali, né che vogliono in un qualche modo essere uniche. Se si volesse a tutti i costi archiviare i vari personaggi seriali televisivi entro l’una o l’altra, sarebbe, oltre che impossibile (perché si trova sempre quel personaggio, quell’elemento che fa impazzire il sistema), anche profondamente sbagliato da un punto di vista metodologico. La mia tipologia vuole essere innanzitutto uno strumento euristico, conoscitivo, per affrontare la questione del personaggio da un punto di vista teorico, cioè per mettere sotto la lente d’ingrandimento, analizzare e problematizzare un’entità a lungo lasciata in secondo piano perché, lo abbiamo detto prima, troppo complessa da analizzare. Essa è esattamente questo, cioè un tentativo di affrontare questa complessità, cercare di ridurla e quindi individuare macrotipologie, che mi permettessero, di volta in volta, di affrontare in modo fattibile la grande complessità del personaggio seriale televisivo.

Una volta fatte queste premesse teoriche, credo che la serialità televisiva italiana contemporanea si stia in parte allineando con il trend internazionale della quality television americana, ma anche europea.

Lei intende per quality television una televisione di qualità, di cui la complex TV sarebbe, per così dire, un sottoinsieme, o quality e complex TV sono due categorie completamente opposte?

Sono altamente interrelate: la quality television costituisce una sorta di paradigma estetico, cioè una tendenza culturale della serialità televisiva contemporanea che si basa sulla TV complessa. Cioè, una serie televisiva, per essere quality, deve rispondere ad una serie di parametri che solitamente sono proprio quelli della complessità narrativa, cioè avere una struttura narrativa di un certo tipo, uno stile visivo cinematografico curato e autoriale, ecc. Pertanto, quality TV e complex TV sono categorie critiche assolutamente interrelate, e anche nel dibattito accademico non c’è una netta differenza. C’è chi preferisce parlare di quality television, chi di complex TV: sono categorie un po’ diverse tra di loro, nel senso che si focalizzano su aspetti diversi, ma tuttavia servono per descrivere lo stesso fenomeno. Soprattutto l’espressione quality ha fortune avverse, alcuni studiosi la sopportano malvolentieri, per la sua accezione valutativa, altri la utilizzano come quasi sostituto dell’idea di televisione complessa, etichetta che viene utilizzata a partire dalla seconda metà degli anni 2000, quando Jason Mittell scrisse il suo Complex TV. Entrambe però, di fatto descrivono questa generale complessificazione della serialità televisiva, che porta le serie contemporanee ad essere valutate dal pubblico come migliori rispetto alle precedenti. Quindi, insomma, è un po’ un serpente che si mangia la coda, tentare di individuare quale di queste due categorie utilizzare.

Le chiederei brevemente una definizione di ciò che intende per personaggio televisivo stereotipato, individualizzato, ecc.

Ho individuato queste quattro categorie incrociando due assi, quello della morfologia del personaggio, cioè andando a capire in che modo è composto, cioè quali sono gli elementi, le storie, i tratti che ne incidono e conformano l’identità, e invece il modo in cui questo si inserisce entro un sistema relazionale, quindi all’interno del mondo narrativo, ma anche di una relazione con altri personaggi.

Il personaggio stereotipato ha una morfologia piuttosto semplice, cioè i cui tratti, sia narrativi che figurativi, si ripetono quasi immutati nel corso della narrazione: non c’è una dinamica di variazione interna, esso è semplicemente la riproposizione di un carattere. In proposito possiamo citare come esempio le serie classiche americane, in cui ogni episodio ha personaggi di questa tipologia, succedono sempre avventure diverse, quindi la storia va avanti, ma di fatto essi sono sempre gli stessi (stiamo parlando di esempi alla Colombo, per intenderci), e anche il sistema relazionale in cui sono inseriti è molto semplice. Pertanto, c’è un personaggio protagonista e attorno ad esso si sviluppa tutta una serie di altre relazioni, ma l’importante è che ci sia sempre questo personaggio che caratterizza l’intera narrazione.

E il sistema relazionale è a sistema solare…

Esattamente sì, proprio con questa idea di protagonista centrale, come se fosse proprio un sole: al massimo c’è un nucleo molto ristretto di protagonisti intorno a cui ruotano tutti gli altri che sono personaggi di contorno, non indipendenti, cioè che non hanno un vero sviluppo, un vero arco narrativo, ma dipendono sostanzialmente dal protagonista. Per fare qualche esempio, possiamo citare Law & Order, questo enorme universo narrativo lunghissimo, ma anche diversi crime più contemporanei, come per esempio Bones, altra serie di grande successo anche in Italia.

Come funziona, invece, il personaggio individualizzato?

Esso è un personaggio che, per quanto riguarda la morfologia, è opposto al personaggio stereotipato, in quanto ha una morfologia complessa, caratterizzata da tratti unici e irripetibili. Qui l’andamento della narrazione seriale agisce su questi personaggi, che evolvono nel corso del tempo: quella del personaggio individualizzato, infatti, è un’entità che si costruisce un po’ alla volta, cioè in ogni puntata lo spettatore conosce un po’ della loro personalità. Jason Mittell parla proprio di complessità centripeta quando parla di queste figure, cioè di una narrazione che indaga sempre di più all’interno della psiche di questo personaggio.

Anche la trama è complessa però…

Anche la trama diventa più complessa, e al centro della narrazione c’è proprio la costruzione del personaggio come individuo, cioè un personaggio che non è pensabile fuori da essa e che noi conosciamo man mano che la storia procede. Il caso credo più emblematico è Breaking Bad: noi conosciamo Walter White nel primo episodio, sappiamo che è un certo tipo di personaggio e pian piano la storia, andando avanti, ci mostra lati del suo carattere che noi all’inizio non potevamo conoscere: forse nemmeno lui, in quanto personaggio, lo sapeva.

Quindi c’è questa idea di scoperta progressiva, potremmo dire. La narrazione diventa sempre più complessa, anche perché molto spesso, proprio per svelare sempre di più la complessità di questo personaggio, si fa ricorso, per esempio, all’uso di flashback che raccontano le backstory di questi personaggi, cioè ci raccontano come sono arrivati lì, che cosa hanno fatto, oppure si aggiungono personaggi che servono per evidenziare alcuni lati del carattere del nostro protagonista, verso il quale noi non abbiamo più una certezza morale, cioè non sappiamo più se è il buono della situazione, per usare un termine un po’ semplicistico, ma al contrario noi spettatori siamo disposti a pensare che sia un personaggio molto sfaccettato, anche da un punto di vista morale. Per quanto riguarda invece il mondo narrativo, in questo caso, proprio perché il centro di queste serie televisive è il personaggio, si parla di character centered stories, cioè proprio la serie televisiva in cui lo scopo è mettere in evidenza il personaggio è un mondo narrativo che tutto sommato possiamo definire semplice, perché di nuovo al centro c’è solitamente una figura, è più raro che ci siano diverse figure, nel caso di personaggi individualizzati, c’è al massimo qualche figura che cattura l’attenzione.

Quindi il sistema relazionale è a sistema solare?

Sì, tuttavia in modo meno evidente rispetto al caso del personaggio stereotipato, proprio perché la narrazione diventa molto più complessa: pensiamo al caso di Westworld, per esempio, in cui ci sono tanti protagonisti, ma anche a quello del Trono di spade, dove ci sono molti protagonisti ed è difficilissimo individuare quello principale, proprio perché c’è una coralità di personaggi, anche se di ciascuno di essi, almeno di quelli più iconici, noi pian piano sappiamo sempre qualcosa di più.

Poi c’è il personaggio popolare e quello replicante…

Il personaggio popolare è caratterizzato da una morfologia semplice, cioè si basa su tratti iconici altamente caratterizzanti che vengono sempre ripetuti, quindi con una morfologia molto statica: ciò perché, in questo caso, ad essere interessante è proprio il mondo narrativo che va a costruire, mondo narrativo estremamente complesso, perché questo tipo di personaggio è quel personaggio che, come dire, “salta” da un medium all’altro e va a costruire un mondo narrativo transmediale anche molto vasto. Pertanto, il suo fruitore è l’utente, perché non è più solo uno spettatore, ma può essere anche il giocatore del videogioco, il lettore della saga, ecc.; esso, però, deve sempre riuscire a individuare questi personaggi, che infatti si basano su un’identità estremamente forte, molto statica, assai poco incline al cambiamento. In proposito, possiamo citare i vari personaggi degli universi Marvel e DC, cioè tutti quei supereroi che fuoriescono con molta facilità dal proprio medium originale: noi li abbiamo conosciuti come protagonisti di un fumetto, ma non ci stupisce più di tanto che finiscano in una serie televisiva, un film, un videogioco, un graphic novel, ecc.

Pertanto, sono proprio personaggi in grado di uscire con estrema facilità dal medium nel quale sono stati concepiti, ma non escono però dall’universo narrativo di riferimento: sono quei tipi, cioè, che possono allargare la propria storia, ma entro certi confini, quelli dello storyworld.

Il personaggio replicante e quello popolare si differenziano esattamente in base alla capacità che hanno di uscire o meno dal proprio storyworld. Ad esempio, un supereroe che a un certo punto combatte contro Dracula o comunque contro un vampiro: quindi è quest’ultimo che entra nel mondo del primo, ma in nessun film di vampiri noi vediamo un supereroe, e questo perché il personaggio “vampiro” è, appunto, quello che io definisco un personaggio replicante.

La parola “replicante” è un termine che ho “rubato” ad Omar Calabrese che, in un saggio molto importante per la storia della serialità, ovvero “i replicanti” (1984), parla di questi replicanti, cioè personaggi che nascono come prodotto classico della serialità, ma che poi sviluppano un’identità propria talmente forte da perdere i confini del loro universo narrativo, uscirne, essere liberi di entrare in qualsiasi storia. Sono quei personaggi che si basano su tratti ripetuti, altamente codificati e altamente sedimentati nel profondo dell’immaginario collettivo.

Che però sono più complessi rispetto al personaggio popolare…

Esatto, sono complessi perché a livello morfologico sono quasi più semplici, nel senso che i tratti caratterizzanti sono pochi: nel caso del vampiro, i denti a punta, il fatto che succhi il sangue e che alla luce del sole muoia. Si tratta pertanto di elementi molto scarsi da un punto di vista narrativo e figurativo, ma talmente impressi nell’immaginario collettivo, che la loro presenza garantisce la riconoscibilità del personaggio. Infatti, nel momento in cui vedo un personaggio che ha i canini appuntiti, che succhia il sangue, non ho bisogno di sapere che si chiama Dracula, so già che è un vampiro.

È proprio una questione di riconoscibilità di questi personaggi, che quindi hanno una morfologia estremamente da un lato semplice, dall’altro estremamente complessa perché poi di fatto ognuno di loro sviluppa una storia a sé stante: di nuovo, il caso del vampiro è molto evidente. Ci sono tantissimi vampiri diversi nella serialità televisiva, non legati tra di loro: il vampiro di Buffy è diverso da quello di The Vampire Diaries, hanno proprio una genealogia, una storia, un comportamento diverso, fanno parte di universi narrativi diversi, ma il punto è che rimangono però sempre dei vampiri, cioè funzionano sempre come tali.

Perciò, la morfologia del personaggio replicante è molto particolare perché da un lato è estremamente semplice, basata su pochissimi tratti, dall’altro però è estremamente complessa, che può di volta in volta svilupparsi in modo autonomo in personaggi diversi tra di loro. Ovviamente, anche il mondo narrativo di questi personaggi è molto complesso perché sono personaggi veramente ubiqui, cioè sforano da ogni parte, possono invadere qualsiasi narrazione senza che questo abbia un particolare peso sulla loro costruzione.

Ora vorrei applicare la sua tipologia a tre serie: Esterno notte di Marco Bellocchio, Mare fuori e Gomorra – La serie. Partendo da Esterno notte, importante perché dotato di una forte identità autoriale, si potrebbe dire che i suoi protagonisti rientrano nella tipologia del personaggio individualizzato?

Esterno notte è un caso molto interessante, ed è un esempio lampante della grande vitalità della scena seriale italiana contemporanea proprio in relazione a quello che dicevamo prima, cioè del fatto che anche essa si sta allineando con il trend internazionale della quality TV o della TV della complessità che dir si voglia. Innanzitutto Esterno notte è un oggetto di difficile definizione, non si sa nemmeno bene se definirlo una serie televisiva o un film (i confini di queste etichette, del resto si slabbrano molto facilmente davanti a simili oggetti), e questa poi è una delle caratteristiche dell’estetica quality. Questa serie risponde molto bene a tutte quelle caratteristiche che ci indicano un prodotto come complesso, come quality. Infatti, c’è uno showrunner autoriale dall’evidentissimo pedigree cinematografico, Marco Bellocchio, affiancato anche da una writing room di tutto rispetto, perché tra gli sceneggiatori di Esterno notte, tra gli altri, ci sono Stefano Bises, che viene da Gomorra – La serie, The New Pope, La mafia uccide solo d’estate e anche Ludovica Rampoldi, che ha sceneggiato 1992-1993-1994, Gomorra – La serie, In Treatment, The Bad Guy. Quindi, si tratta veramente di una writing room di prim’ordine da tantissimi punti di vista, ma ovviamente a caratterizzare Esterno notte come un prodotto assolutamente allineato all’estetica della TV della complessità c’è anche il tipo di narrazione, estremamente cinematografica e ovviamente il fatto che sia una serie che tratti temi forti e politicamente scottanti nel nostro Paese.

Pertanto, questa fiction è un oggetto che allinea la produzione italiana a quella statunitense ed europea di questo tipo. Per questo motivo, i personaggi di Esterno notte sono, evidentemente, dei personaggi complessi, anche se non sono del tutto convinta di etichettarli come individualizzati, sempre in relazione al fatto che è molto difficile cercare di etichettare queste figure e inserirle in una categoria piuttosto che un’altra. È vero che si tratta di personaggi antieroici, senz’altro personaggi pieni di dubbi, pieni di incertezze e di cui sono spesso messi in scena i lati oscuri, le emotività anche più esasperate. Del resto, proprio lo stile, anche di ripresa, di Bellocchio, fa di tutto per rappresentare le emozioni di queste figure e anche la loro ambiguità. Credo che memorabili, da questo punto di vista, più di Moro stesso, siano i personaggi di Andreotti e Cossiga, che appaiono veramente come eroi tragici di matrice shakespeariana. Quello che mi rende prudente nell’etichettarli come individualizzati è che questi personaggi sono figure insondabili, cioè, non sono mai figure veramente conoscibili da parte dello spettatore. La narrazione, da questo punto di vista, non lo aiuta a conoscere meglio questi personaggi, che rimangono sempre molto misteriosi.

Quindi in che tipologia li inserirebbe?

Per certi versi, sono sì personaggi individualizzati, perché rispondono a questa idea di complessificazione centripeta, ma da un altro punto di vista non lo sono, proprio perché la storia, la narrazione non mette mai lo spettatore nella possibilità di conoscerli veramente, anche perché, cosa molto affascinante, la serie riflette proprio sul rapporto tra immagine pubblica e privata di questi personaggi, quindi tra un’immagine che anche la storia ha tramandato e invece un tentare di offrire uno scorcio sull’immagine privata di queste figure. Di conseguenza, credo che manchi un po’ quell’idea di conoscenza, cioè Esterno notte non è una serie che permette al pubblico di conoscere il suo personaggio in modo progressivo. Questi protagonisti alla fine della storia non mi sento di averli veramente conosciuti, per questo sono un po’ prudente nel considerarli individualizzati, anche se è pur vero che è la categoria, tra quelle che io individuo, a cui essi si avvicinano di più, proprio in virtù della loro evidente complessità.

Cosa si potrebbe dire invece di Gomorra – La serie che, pur avendo un fortissimo fandom, non si può considerare un esempio di compiuta espansione transmediale, in quanto la produzione non ha sfruttato appieno, tranne che per accurati campagne di marketing, le sue possibilità di farsi mondo? Qui, infatti, è solo presente uno spin-off, il film L’immortale (2019), mentre mancano il tutto espansioni come siti web, ARG, (video)giochi o graphic novel

Gomorra credo sia un caso di transmedialità che si basa non tanto sul personaggio, quanto sul mondo narrativo, e ne è una dimostrazione il fatto che il libro di Saviano, il film di Garrone, e soprattutto la serie, non condividono gli stessi personaggi. Piuttosto, questi prodotti sono legati dalla volontà di rappresentare un mondo, un mondo, tra l’altro, in cui i confini tra realtà e finzione si dissolvono, e mettere in scena così un affresco sociale, politico e umano. Per questo, quella di Gomorra è un tipo di transmedialità difficile da portare avanti proprio perché non può, più di tanto, basarsi sulla capacità che hanno alcuni personaggi di sfondare i confini dei testi e colonizzare altri spazi mediali: Gomorra – La serie è basata, tra l’altro, sulle vicende, le relazioni interpersonali di Ciro e Genny che sono i personaggi più importanti, anche quelli a cui la narrazione concede più spazio e più tempo.

Essi sono personaggi sviluppati nel senso di una loro individualizzazione, cioè sono personaggi che vengono approfonditi e scavati al loro interno, e questo rende difficile uscire da questa narrazione. I personaggi individualizzati tendono infatti ad essere sfruttati in un unico oggetto narrativo che prosegue in senso verticale, una storia che prosegue in modo lineare, ma non sono efficaci per una storia invece che si vuole espandere in modo orizzontale, quindi su altre storie e su altri media.

Lei quindi considererebbe i personaggi di Gomorra – La serie come individualizzati… Qual è il loro sistema relazionale, evidentemente complesso?

Sì, essi hanno un sistema relazionale che possiamo definire a metà tra quello “a sistema solare” e quello “a costellazione”: questa è una caratteristica un po’ diversa rispetto alla tipologia del personaggio individualizzato, che invece è solitamente caratterizzato da un sistema relazionale “a sistema solare”,  perché il tratto caratterizzante di Gomorra è che è una serie eminentemente corale, cioè, nonostante ci siano due personaggi in primo piano, questa è una storia che si sviluppa su più linee narrative, anche abbastanza estese, tra l’altro, per essere un prodotto italiano. È vero che Gomorra – La serie ha un ritmo narrativo abbastanza dilatato e presenta diversi personaggi che sviluppano poi delle storyline quasi a sé stanti. Per esempio, una di queste molto significativa, perché non strettamente relazionata a quello che fanno Ciro e Genny, è quella di Patrizia. Però, al di là di questa, le altre mi sembrano sempre molto referenziate verso Ciro e Genny, cioè alla fine sono loro che tengono la narrazione nelle loro mani, come nella configurazione relazionale “a sistema solare”.

Anche perché muoiono tutti gli altri…

Comunque, consideriamo anche che la fine di Gomorra si ha quando muoiono Ciro e Genny.

Personaggi individualizzati, quindi, con un sistema relazionale complesso e quindi scarsamente transmediali…

Al di là di spin-off e approfondimenti come quello che è stato fatto con L’immortale, è difficile pensare di espandere la storia di Genny e Ciro. È chiaro che si potrebbero fare altre espansioni, magari sui personaggi secondari della serie, ma, in questo caso, credo sia importante considerare anche il fattore più propriamente economico e produttivo. Infatti, gli universi transmediali più espansi ed espandibili sono anche quelli che hanno alle spalle delle industrie mediali che sono dei colossi, e che facilmente, quindi, possono progettare a monte più estensioni in comparti diversi dell’industria culturale.

Cosa che Sky non ha…

È evidente: nel caso italiano, con un contesto mediale molto diverso, in assenza di questi colossi mediali che detengono i diritti di sfruttamento e possono quindi pensare di espandersi su più piattaforme, è costitutivamente più difficile pensare ad una transmedialità in senso così vasto. Inoltre, credo che l’idea di voler approfondire la psiche e l’identità di due personaggi in qualche modo penalizzi la possibilità di espansione su altri media. Infatti, se noi consideriamo molti esempi di universi transmediali più noti, i loro personaggi sono più che altro personaggi popolari, cioè poco sviluppati da un punto di vista emotivo, e che proprio per questo possono spostarsi molto agevolmente in diverse storie.

Inoltre, sempre parlando di espansioni transmediali, i personaggi di Gomorra – La serie hanno una pagina wiki incompleta e anche dove, nelle poche pagine presenti, sono contenuti pure errori di battitura ed errori ortografici…

Ciò dipende molto dal tipo di fandom, che è legato a Gomorra, nel senso che le serie transmediali stile Marvel, per capirci, hanno un fandom molto giovane, che quindi è nativo digitale ed è sicuramente a proprio agio nel costruire espansioni fandom su Internet, appunto, creando pagine wiki, ecc.

La pagina wiki di Gomorra – La serie, come dicevo, è infatti molto imperfetta…

Questo credo che sia un sintomo di un tipo di fandom diverso, cioè non un fandom che arricchirebbe l’universo narrativo come nel caso invece della Marvel. Se si guarda infatti i wiki dei vari personaggi della Marvel, sono curatissimi, cercano tutti di ricostruire la genealogia dei personaggi, sono molto precisi, ed è evidente che c’è una forte dedizione da parte del pubblico nei confronti di queste figure.

Nel caso di Gomorra -La serie credo che il fandom sia proprio costitutivamente diverso, anche anagraficamente. Penso che questa serie – non ho dati certi alla mano, quindi bisognerebbe fare una ricerca più approfondita in merito – abbia un tipo di fandom meno attivo, che non è, per usare una categoria di Henry Jenkins, quello dei prosumer, cioè consumatori che sono anche produttori di contenuti. Il pubblico di Gomorra – La serie mi sembra un pubblico più “tradizionale”, nel senso che guarda la fiction, ne segue le vicende, ma poi non agisce in modo attivo nei confronti del testo seriale.

Comunque, il fandom di Gomorra – La serie si basa soprattutto sui video, cioè su social come YouTube oppure anche come Facebook e TikTok, mente a livello di scrittura, di fanfiction, su Gomorra non c’è praticamente nulla, c’è qualche crossover, ma niente di più…

Infatti è un tipo di fandom che è più ricettivo, nei confronti dei contenuti, ma meno incline a rielaborarli in modo evidente. C’è una celebrazione del contenuto, ma le vere creazioni sulla base di Gomorra – La serie sono poche: infatti, quelle poche hanno avuto enorme successo, come il caso dei de The Jackal, con le loro parodie di Gomorra – La serie.

E poi alcuni studiosi dicevano anche che il fandom di Gomorra è soprattutto napoletano, perlomeno fino alla prima stagione, e che la produzione è costituita da mashup, remix tutti video, comunque. Tra l’altro, la produzione Sky Italia ha anche “tagliato” qualche attività degli utenti. In due gruppi Facebook, Gomorra Fans, e Gomorra La serie, è infatti attivo un certo @DinoMinucci che inseriva delle clip di Gomorra – La serie, che sono state appunto bannate. Questo attesta una forte chiusura di Sky Italia di fronte al fandom, una cosa veramente grave…

È molto interessante notare come queste chiusure delle major davanti al fandom, negli Stati Uniti siano state risolte nei primi anni 2000, da noi invece ancora no, c’è Sky che tutela in questo modo il proprio prodotto, rinunciando tra l’altro ad una pubblicità gratuita che si basa sul word of mouth, che invece è fondamentale per attivare l’audience. In proposito, abbiamo ancora della strada da fare.

Parlando sempre di Sky Italia, a livello di YouTube, ha soltanto un canale per quanto riguarda tutte le sue serie televisive, e a Gomorra – La serie dedica soltanto una piccolissima sezione, con una quindicina di video. Forse ciò accade perché è passato del tempo da quando questa fiction è andata in onda, però è pur sempre sintomo che le sue espansioni transmediali non sono poi così diffuse a livello di produzione!

Certo, e questo soprattutto in Italia: in questo senso, Gomorra – La serie non è un titolo che lavora in questa direzione. Invece, è differente, per esempio, il caso di Skam Italia, proprio per perché fa riferimento ad un pubblico diverso, che si trova molto più a suo agio nell’entrare in una relazione diretta con il testo filmico. Pertanto, le pagine social dei vari attori di Skam Italia sono molto più curate, proprio nell’ottica di creare una rete di contenuti attorno al titolo.

Come valuta invece un prodotto come Mare fuori, un teen drama/prison drama che si tinge di sfumature melodrammatiche, scelto come esempio per il suo enorme successo di pubblico? In che tipologia inserirebbe i suoi personaggi?

Credo che Mare fuori sia il caso più evidente del coraggio del teen drama italiano. Infatti, questo è un genere che più di altri, o meglio, con cui più di altri la serialità italiana sta veramente sperimentando. A rompere il ghiaccio è stato proprio Skam Italia che nasce come una sorta di rifacimento locale di un successo straniero, ma che ha mostrato innanzitutto ai produttori e alle reti che è possibile fare dei teen drama di qualità e che hanno anche un enorme successo di pubblico. Infatti, sulla scorta di Skam Italia, sono venuti fuori prodotti estremamente coraggiosi, soprattutto per le tematiche che affrontano, tematiche presentate, tra l’altro, con grande sensibilità, come l’omosessualità, la fluidità di genere, il bullismo – pensiamo a Prisma – ma anche alla malattia mentale come in Mental e Tutto chiede salvezza. Questi sono prodotti che forse non si sarebbero avuti anche solo una decina di anni fa, che dimostrano come la televisione italiana sia in una sorta di periodo d’oro per quanto riguarda ricettività e innovazione.

Mare fuori credo si iscriva appieno in questa logica e ha ancora più successo delle serie che ho citato, perché fonde benissimo diversi fattori: è una fiction che funziona perché inserisce una nota di realismo sociale partendo dall’immaginario di Gomorra – La serie, mescolandolo però con il melodramma. C’è questa tensione, anche quasi un lieto fine, cioè sempre questa nota di speranza. Come dire, il fatto che in tutta la serie questi personaggi, tramite varie peripezie, alla fine arrivino a vedere finalmente questo “mare fuori”, lo avvicina ad aspetti radicati nel melodramma ottocentesco, cioè nel feuilleton, in cui c’è il male, ma anche una via di fuga, una possibilità, appunto, come qui, di uscire dalla situazione in cui questi giovani si trovano.

Pertanto, Mare fuori è un prodotto molto consapevole nel mettere insieme quelli che sono i grandi elementi del successo nel panorama italiano, perché c’è la componente melodrammatica che da sempre è una costante dell’immaginario nazionale, ma c’è anche il realismo sociale alla Gomorra. Come dire quindi, la lezione appresa dalla grande serie Sky, ma anche il focus sui giovani. Quindi, in un momento in cui il teen drama in Italia sta avendo un grandissimo momento di revival, credo sia assolutamente vincente focalizzarsi proprio su un insieme di personaggi giovani. E infatti, credo che il pubblico abbia risposto molto bene proprio per l’unione di questi diversi motivi.

I protagonisti di Mare fuori sono pertanto personaggi individualizzati?

Sì, credo proprio che i personaggi di Mare fuori siano forse, anche più di quelli di Gomorra – La serie, ascrivibili all’idea di personaggio individualizzato, perché la struttura di questa fiction è molto più prototipica. Infatti, noi abbiamo dei personaggi, soprattutto nella prima stagione, che conosciamo pian piano: c’è un fortissimo uso di flashback e di backstory in Mare fuori, per cui in ogni episodio sappiamo un pezzettino in più della vita di questi personaggi, che magari a primo acchito ci sembrano antipatici, cattivi, però, nel momento in cui andiamo a conoscere le loro storie, le motivazioni che li hanno spinti, i loro traumi, siamo indotti a conoscerli meglio e anche soprattutto a non giudicarli.

Una delle caratteristiche, dei motivi di fascino del personaggio individualizzato è proprio che sono personaggi con cui tutti noi riusciamo a entrare in simpatia, in empatia, perché non sono mai né completamente buoni né completamente cattivi, sono figure ambigue da un punto di vista morale, e più le conosciamo, più ci rendiamo conto che non riusciamo mai veramente a giudicarle.

Pertanto, c’è sempre un atteggiamento quasi di sospensione del giudizio che li rende estremamente affascinanti e credo che sia sintomatico il fatto che, nella serialità televisiva italiana, sia sempre più frequente questo tipo di personaggio, che io ho definito individualizzato, ma che per essere ancora più generici potremmo dire complesso, meno stereotipato, meno definito, meno statico, in grado appunto di approfondirsi nella sua costruzione identitaria e al contempo anche approfondire questioni e tematiche più generali, di tipo socio-culturale. Questa, ancora una volta, è la dimostrazione che la serialità televisiva italiana, per fortuna, si sta muovendo in una direzione che va verso la complessità.

Qui il sistema relazionale è a costellazione, ovviamente…

Nonostante i personaggi siano individualizzati, il sistema di relazioni è più vicino a quello “a costellazione” che non a sistema solare perché è una serie corale, in cui è molto difficile riuscire a individuare il cosiddetto “sole” della situazione. È pur vero che abbiamo dei personaggi che sono più sentiti da parte del pubblico: soprattutto nella prima stagione, la coppia Filippo-Carmine è costruita proprio per essere protagonista, ma non lo rimane a lungo. Mare fuori è una serie che punta molto sulla coralità, proprio sul fatto che le sue figure tra di loro intrecciano relazioni in un modo quasi paritetico.

MARIA GRAZIA FALÀ

“Franchise Gomorra, non brand ma mondo”

Angela Maiello, dell’Unical, riflette sull’universo transmediale di Gomorra. La serie

Tutto il mondo escluso da Gomorra. La serie, declinato poi attraverso la partecipazione dell’utente, anche se forse questa attività, con il prosieguo delle stagioni, è andata un po’ scemando. Sky Italia che, a livello di produzione, oltre ad aver creato per esempio giochi interattivi online, e aver fatto altre promozioni, ha dato origine a uno spin-off, il film L’Immortale di Marco D’Amore (Ciro Di Marzio nella serie), che opera un’efficace espansione transmediale. Espansione transmediale che non si può dire esista pienamente, anche se è normale il cortocircuito tra esposizione mediale delle celebrity sui social e fandom, nel caso delle attività social di Salvatore Esposito (Genny Savastano), che sul web si presenta pure come attore di altri film e romanziere. Poi, esistenza del brand Gomorra, anche se preferibilmente si potrebbe parlare di mondo Gomorra. Queste sono le ipotesi formulate da Angela Maiello, docente di Web e nuovi media all’Università della Calabria, a proposito di un suo libro e due saggi su Gomorra. La serie.

Lei ha studiato a più riprese il fenomeno Gomorra, e nel suo articolo del 2017, Fuoricampo transmediale, ha sottolineato come la serie si presenti come un sistema chiuso, dove la decodifica parodica che in qualche modo “spezza” il coinvolgimento empatico che essa potrebbe suscitare, proviene proprio dal fandom, ovvero da una prospettiva dal basso egregiamente espressa da The Jackal, come “prodotto illustre”, appunto, del fandom. È così?

Più o meno è così. L’idea di cui parto in quell’articolo, e che ho ripreso più volte, è che vi sia una ibridazione tra la struttura narrativa che la serie propone e quello che eccede la narrazione stessa e che appunto avviene nell’ambito della partecipazione online e delle forme espressive intermediali o transmediali. A quell’articolo davo appunto il titolo di Fuoricampo Transmediale, perché da un lato la caratteristica di Gomorra. La serie è quella di creare un mondo particolarmente chiuso, impermeabile; tanto è vero che la cosa su cui più si è dibattuto, soprattutto all’inizio, era il fatto che non venisse rappresentato ciò che c’è oltre il Sistema (inteso come sistema camorristico), ovvero la società civile, la lotta alla criminalità organizzata, lo Stato. Dall’altro, però, Gomorra è stata forse la prima serie, o senza forse, è stata la prima serie italiana (o la seconda, se la prima è Romanzo criminale) a generare una grande partecipazione da parte dei fan e anche molto dibattito culturale in senso ampio in relazione proprio alla narrazione.

Quindi, è come se si fosse aperta, a partire dalla narrazione appunto, una partecipazione degli utenti che, più che spezzare il coinvolgimento empatico, è come se lo declinasse attraverso anche altre modalità. Questa non è una specificità solo di Gomorra. La serie, anzi, forse la specificità del formato seriale tout court è proprio quello di riuscire a coinvolgere e a sollecitare questo tipo di partecipazione dello spettatore. Quello che colpisce in Gomorra è che tutto ciò che è escluso dalla narrazione ritorna, o quantomeno viene declinato poi attraverso la partecipazione dell’utente.

Poi c’è anche da dire che cinque stagioni sono tante, e che pertanto la partecipazione magari col tempo è andata in parte scemando rispetto alle prime stagioni, ma questo è un po’ fisiologico nella modalità di produzione e distribuzione di una serie. Comunque, l’universo Gomorra è sicuramente un universo capace di dialogare in questo modo con il fuori, cioè con quello che c’è fuori dalla narrazione stessa.

A questo punto le anticipo una domanda: rispetto alla vivace attività di fandom, Sky invece non ha fatto molto per promuovere, alla fine della messa in onda di tutte le stagioni, il brand Gomorra 5, escludendo qualche campagna di marketing… Infatti, su YouTube, Sky Italia ha solo una playlist dedicata a tutte le serie che manda in onda, e non esclusivamente a Gomorra, e a questa dedica soltanto una quindicina di video, di cui circa dieci relativi a Gomorra 5. Lei cosa ne pensa?

Lei si riferisce soprattutto a Gomorra 5?

Sì, a Gomorra 5, perché mi sembra che la produzione abbia tralasciato la promozione transmediale, cioè non si sia creato uno storyworld transmediale da parte del produttore, a differenza invece del forte fandom generato, che ancora adesso è notevole…

Non sono un’esperta di marketing, quindi non ho studiato nello specifico le azioni messe in campo da Sky. Sicuramente però, in occasione della terza stagione, Sky aveva realizzato, ad esempio, un contenuto interattivo online per cui era possibile chiedere ad uno dei protagonisti di Gomorra di mandare una sorta di messaggio intimidatorio ad un altro utente perché non facesse spoiler, che sicuramente rientra in questa logica transmediale.

Nello specifico, non ho informazioni sulla quinta stagione, naturalmente è la stagione di una serie che volge al termine, che magari anche in termini economici richiede un investimento minore. Faccio presente però che la grande promozione delle ultime stagioni è costituita dal film L’immortale (2019), che rientra perfettamente nella logica della transmedialità, e credo che questa sia una delle operazioni più interessanti, in termini di produzione e distribuzione, fatte da Sky. A cui si aggiungono le varie occasioni di rilocazione del racconto seriale, per promuovere sia la terza che la quarta stagione, che hanno portato la serie sul grande schermo. Trovo molto interessante questo tipo di operazione: se la visione delle serie infatti è sempre più diventata qualcosa di privato, che forse non arriva neanche più al salotto di casa – si pensi alle piattaforme, al binge watching, ecc- –nel portare una serie al cinema si vuole ricreare proprio l’evento collettivo. Si tratta di operazione che vanno ad alimentare proprio quel fandom di cui lei parlava e che trova espressione principalmente online.

Certo, quindi lei non è d’accordo con Paolo Bertetti che, un’intervista che gli ho fatto, ha parlato in pratica di Gomorra. La serie come un caso mancato di espansione transmediale…

L‘operazione del film rientra perfettamente nella logica transmediale e per certi versi è paradigmatica: la terza stagione si chiude con la morte di Ciro, che ha rappresentato un vero e proprio shock per i fan – si ricorderanno in proposito i commenti online alla notizia della morte di questo personaggio. Dopodiché, però, quasi in segreto, perché il dubbio un po’ si insinuava, il film fa rinascere Ciro con quell’espediente narrativo di raccontare la sua nascita, avvenuta appena prima dall’evento catastrofico del terremoto in Irpinia, sfruttando anche in questo caso un riferimento all’immaginario nazionale, e locale, enorme. E lo fa con un altro formato mediale, cioè il film, per poi ricollegarsi narrativamente alla serie da cui riparte la stagione successiva.

Quindi, certo, mancano i videogame o altri formati del racconto, però ripeto, tenendo conto che anche di promozioni Sky fatte attraverso delle estensioni interattive della narrazione, il caso Gomorra in Italia,  in termini di transmedialità resta esemplificativo e paradigmatico. Non possiamo sempre parlare di transmedialità in senso stretto, ma sicuramente lo possiamo fare nel rapporto serie-film (L’immortale). Pertanto, secondo me questo rapporto tra serie e cinema è stato molto ben sfruttato nella dinamica, nella logica di produzione e creazione della serie.

Poi bisognerebbe fare pure un ragionamento sul sistema produttivo italiano, sulla sua capacità di attivare creatività e competenze diverse intorno ad un medesimo mondo narrativo… In ogni caso, però mi sembra che non c’è una serie italiana che ha fatto quello che ha fatto Gomorra. Quindi, da questo punto di vista, quantomeno nel rapporto serie-film, non quello di Garrone, ma quello di D’Amore, mi sembra che sia un’operazione transmediale riuscitissima, innanzitutto narrativamente. Infatti, ripeto, la terza stagione della serie si conclude generando quella forte partecipazione degli utenti, a cui la narrazione risponde con il film, per poi riprendere la struttura seriale.

In un altro suo saggio, contenuto nel volume Universo Gomorra (2018, a cura di Guerra, Martin e Rimini), lei afferma che la morte di Ciro Di Marzio, alla fine della terza stagione, conclude un’epoca. La totale chiusura verso il bene che caratterizza la serie, esemplificata da molti personaggi e in particolare appunto da Ciro, sembra finire con la sua uccisione, aprendo gli utenti/ spettatori la possibilità “di essere protagonisti e autori di un racconto alternativo nelle forme ludiche o ironiche che principalmente la rete contempla.” (Maiello 2018, p. 39) Ce ne potrebbe parlare?

In parte ho già risposto a questa domanda. Diciamo così, Ciro è il Saviano mancato del libro. Nel libro, Saviano stesso rappresentava quello sguardo dentro il sistema camorristico, ovviamente, pur restandone fuori (quindi proprio il corpo di Saviano è diventato lo spazio di confine tra il dentro e fuori del sistema camorristico). Analogamente, il personaggio di Ciro sembrerebbe, proprio all’inizio della prima stagione, voler svolgere lo stesso ruolo, salvo poi -e da lì poi parte la tragedia della narrazione-decidere di non svolgerlo ed essere risucchiato dentro il Sistema. Quindi, Ciro rappresenta quel fuori che non si vede mai nella serie. Paradossalmente, tra l’altro ho scritto quell’articolo quando appunto non sapevo che Ciro in realtà era vivo.

La morte di Ciro, Io dico in quell’articolo, è il vero finale di Gomorra e questo lo sottoscriverei, tanto è vero che sappiamo, le serie hanno una fine che non necessariamente coincide con il loro finale, come dice Jason Mittell. La fine è quando, anche per ragioni produttive, la serie termina, mentre il finale potrebbe essere il momento in cui la narrazione si chiude, trova un senso, una configurazione. Sicuramente la morte di Ciro è il vero finale di Gomorra. La serie, per tante ragioni: per il suo essere sempre appunto dentro, ma anche fuori, perché lui non è figlio del boss, ma viene in qualche modo adottato e perché si sacrifica per questo fratello putativo, Genny, e perché, per ragioni sia narrative che mediali, dalla morte di Ciro in poi il racconto ricomincia. Tant’è vero, come dicevo prima, che ricomincia con un film in cui vediamo la nascita di Ciro, per poi riproporre la stessa dinamica di potere e di lotta di nuovo con Genny che sappiamo arriverà in seguito alla fine della serie con l’ultima stagione.

Quindi in quel momento, se veramente quella fosse stata la fine della serie, appunto, essa sarebbe stata restituita in questo modo agli utenti e agli spettatori.

Però, il fatto che Ciro non sia morto, ma che, da un punto di vista narrativo e mediale, sopravviva in quel modo, è la conferma che quello fosse il vero punto di fine della serie, perché poi essa è costituita da un nucleo tematico che deve essere reiterato, che nel caso di Gomorra è la lotta per il potere, che riprende uguale e diversa, anche se il nucleo resta lo stesso.

Partendo da una prospettiva top down, emerge per esempio che Salvatore Esposito (Genny Savastano) ha un gruppo Facebook Salvatore Esposito & Friends, un sito web www.salvatore-esposito.com, e un account ufficiale TikTok. In tutti questi casi però, compare soprattutto la sua figura attoriale e di romanziere. Qui, come affermava Umberto Eco ne L’innovazione nel seriale (1994), si tratta di una serialità basata sul personaggio dell’attore, quindi non di una transmedialità dal punto di vista della produzione di Sky, ma soprattutto da parte del singolo personaggio…

Io svincolerei questa questione dell’attore sia dal tema della transmedialità sia anche da quello, appunto, che affronta Eco sulla serialità basata sul personaggio dell’attore, che ha a che fare più che altro con quei tipi di racconti seriali dove la reiterazione dell’identico è rappresentata appunto dall’iconicità del personaggio, pensiamo a Colombo. In casi come questi la serialità si dispiega e si organizza a partire da quell’identico che è appunto il personaggio che dà continuità e stabilità alla narrazione. Questa è una serialità tra l’altro molto diversa da quella contemporanea, perché appunto si basa principalmente sulla verticalità degli episodi.

Quindi io svincolerei questa riflessione sull’esposizione mediale sui social media degli attori come Salvatore Esposito da un discorso transmediale. È normale per il sistema mediale contemporaneo che gli attori abbiano i propri profili social, e quindi ciò significa anche una maggiore immediatezza nel rapporto con i fan. Tuttavia, questo non ha a che fare con le strategie transmediali o di appropriazione del racconto da parte degli utenti, cioè è un elemento che concorre pure a quel processo, ma che in ogni caso ha anche una logica propria, che ha a che fare più che altro con le forme del divismo nei media contemporanei.

Paolo Bertetti collegava questo aspetto a quanto sosteneva Eco, cioè il fatto che Salvatore Esposito fosse legato alla sua persona attoriale tout court, e quindi diceva che era importante non tanto in quanto Genny Savastano, ma in quanto Salvatore Esposito, cioè come attore che scrive romanzi, fa altri film, e che quindi non entrava a pieno titolo nell’espansione transmediale…

Sì, su questo concordo.

In pratica allora Salvatore Esposito non concorre all’espansione transmediale, anche se, per esempio sul sito, parla pure di Gomorra 5

Non concorre direttamente: naturalmente c’è una contiguità degli spazi mediali e degli immaginari, ma non è una logica ascrivibile a quella della transmedialità, quella che porta un attore ad avere una propria fanbase sui social.

In conclusione per lei, insomma, non è una logica transmediale…

No, non è transmediale: però non è che stiamo parlando di stanze ermetiche che non si parlano tra loro, è normale che il mito di Genny Savastano si alimenta anche attraverso il profilo social di Salvatore Esposito, però questa cosa non rientra nella logica della transmedialità.

Si può parlare di brand Gomorra, anche se le espansioni transmediali più significative non sembrano provenire da Sky Italia ma dagli utenti?

Non essendo un’esperta di marketing, personalmente non utilizzerei il termine brand, perché non è una categoria che mi appartiene teoricamente. Invece parlerei, perché quella è sì una categoria che ho utilizzato molto, di un mondo Gomorra, e qui, davvero, bisogna includere Saviano, il film di Garrone, la serie, e il film di Marco D’Amore. Come vede, è un mondo molto ricco che ha dato vita a molte narrazioni, alcune delle quali collegate, messe in relazione attraverso una logica transmediale. Sicuramente partecipa a questo mondo Gomorra anche Gli effetti di Gomorra sulla gente, dei The Jackal; cioè si è creato un immaginario che ovviamente è anche un brand, tanto è vero che forse la parodia più riuscita, più efficace, proprio di questo fenomeno di brandizzazione di Gomorra, è quella operata dai Manetti Bros nel loro film Amore e malavita, quando, all’inizio del film, si vedono i turisti che vanno a Scampia per un tour, realistico e autentico. Pertanto, quella mi sembra forse l’occasione audiovisiva cinematografica in cui effettivamente ci si fa carico del fatto che Gomorra, nel bene o nel male, sia anche diventato un brand, e tuttavia ci si ironizza. Detto ciò, per quanto mi riguarda, a me interessa più parlare appunto di mondo Gomorra e delle sue declinazioni che acquistano quindi una specificità mediale e narrativa in tutte le sue versioni e che comunque rappresentano un caso unico e molto significativo nell’ambito della serialità italiana. A parte Romanzo criminale, che ha avuto un percorso simile, ma non paragonabile per tante ragioni, innanzitutto storiche – dove con storico mi riferisco ad uno specifico stato di sviluppo della narrazione seriale complessa e del gusto e delle abitudini spettatoriali – sicuramente Gomorra rappresenta il prodotto audiovisivo narrativo su cui più è stato possibile esercitare una logica seriale. Quindi il mondo Gomorra resta un mondo narrativo molto forte, molto riconoscibile, che non è detto non possa portare ad ulteriori declinazioni.

MARIA GRAZIA FALÀ

“Transmedia storytelling, tra brand ed entertainment”

Due libri che riflettono sulla transmedialità passando per un caso mancato, quello di Gomorra. La serie

Transmedialità, per Jenkins, come processo dove una narrazione “passa” da un medium all’altro secondo un processo unitario e coerente, dove ogni testo offre un contributo distinto e importante alla narrazione stessa. Transmedialità come concetto ulteriormente ampliato e rivisto da Scolari, che esce fuori dall’idealtipo fornito da Jenkins. Franchise transmediali compatti e coerenti come quello di Matrix, mentre franchise transmediali più sfilacciati e meno coerenti come quello di Harry Potter. Ancora, franchise transmediali meno compiuti e in un certo senso incompleti come quello di Gomorra. La serie, che anche nel sito del suo protagonista, l’attore Salvatore Esposito (Genny Savastano), parla sì di Gomorra 5, ma pure dei suoi due romanzi e delle sue altre attività, per cui si può parlare, come affermava Eco, di serialità basata sul personaggio dell’attore, e non di espansioni transmediali di Gomorra. La serie. Infine, transmedialità applicata non solo all’entertainment, ma anche alle marche, per cui si può parlare di transmedia branding, ad esempio, per la Barilla, seppure questa creazione di storyworld da parte delle imprese non è molto diffusa, neanche negli USA.

Di ciò si è parlato con Paolo Bertetti, semiologo e studioso dei media dell’Università di Torino – dove partecipa attualmente al progetto ERC NeMoSancti – in relazione a due suoi volumi, Che cos’è la transmedialità, edito da Carocci nel 2020, e Transmedia branding. Narrazione, esperienza, partecipazione, pubblicato per Edizioni ETS nello stesso anno.

Cosa si intende per transmedialità e come è cambiato il significato di questo termine dopo la classica definizione data Jenkins nel 2006 nel suo Convergent Culture?

Partirei proprio da Henry Jenkins, il quale è tornato più volte sulla definizione di transmedialità e con formulazioni più o meno analoghe, anche se diverse. Una classica è quella che la definiva “un processo dove elementi integrati di una narrazione vengono dispersi sistematicamente attraverso molteplici canali, con lo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata. Ogni testo offre un contributo distinto e importante all’intero complesso narrativo.” La prima volta in cui è comparsa la definizione di transmedia storytelling è stata in un articolo di Jenkins pubblicato sulla rivista online del Massachusetts Institute of Technology, dove lui allora lavorava, poi è stata ripresa nel suo libro, molto noto anche in Italia, Cultura convergente, e via via ripresa più volte in scritti ulteriori, con ulteriori precisazioni. Jenkins tiene da sempre un blog molto interessante dedicato alle novità della cultura di massa, non soltanto della cultura digitale, dove è ritornato spesso anche sul tema della transmedialità, arricchendolo di ulteriori declinazioni. Questa definizione era appunto in uno dei post pubblicati sul suo blog, ed è particolarmente interessante perché ci evidenzia due aspetti fondamentali: che si tratta di elementi di una narrazione (quindi noi siamo di fronte a un racconto), declinata però attraverso testi diversi, su canali diversi, su media diversi. Quindi ecco che qui rientrano tutti i grandi franchise transmediali. Ad esempio, pensiamo a Star Wars, che ti racconta questa grande storia della caduta della vecchia Repubblica galattica, la nascita dell’impero malvagio, e poi la lotta dei ribelli per sconfiggere il nuovo impero e instaurare nuovamente la Repubblica nella galassia. Tutta questa grande vicenda viene declinata non soltanto attraverso i vari film – quelli della trilogia classica, quelli della seconda trilogia di film degli anni ‘90, e quelli più recenti prodotti dalla Disney – ma attraverso tutta una serie di altri testi che vanno dai fumetti ai disegni animati, alle serie televisive – pensiamo ad esempio alla recente serie di The Mandalorian e un mucchio di altre che la Disney ha sviluppato negli ultimi anni: ogni testo racconta una porzione diversa di questa grande storia. Quindi, Star Wars è diventato, a partire dagli anni ‘90, un vero e proprio franchise transmediale, una vera e propria narrazione transmediale, dove noi abbiamo un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata, nel senso che ognuno di questi testi offre, come dice Jenkins, un contributo distinto al grande affresco generale e si rivolge a pubblici del tutto o in parte diversi, per cui ad esempio, i disegni animati saranno rivolti a un pubblico più giovane, quello delle serie televisive sarà in parte quello dei film, ma non necessariamente (potrebbe essere più ampio o comunque diverso). Ovviamente nessuno, vista la vastità di questo universo, potrà seguire tutti i film, tutte le serie televisive e non parliamo poi dei romanzi dedicati alla saga. Però, se uno frequenta l’universo di Star Wars attraverso i diversi testi e i diversi media  ecco che entra comunque in un’esperienza immersiva di intrattenimento che è più grande di quella delle singole parti.

Altra cosa importante dell’idea di Jenkins è che ci sono, dietro ai franchise transmediali, forti motivazioni economiche (in questo senso qualcuno dice in realtà Jenkins è un po’ un uomo di marketing e non soltanto uno studioso di media). Con la transmedialità si tratta da un lato di rivendere un universo creativo, un contenuto narrativo a pubblici differenti che fruiscono di media diversi, dall’altro c’è anche quest’idea della cosiddetta cross promotion, cioè il fatto che pubblici diversi possono approcciarsi partendo da media differenti all’universo di Star Wars.

Quindi c’è chi ovviamente, e sembrerebbe la cosa la più classica, vede questa saga al cinema, poi incomincia a leggere i romanzi e va infine a vedersi le serie televisive, ma potrebbe capitare benissimo l’opposto, cioè uno incrocia l’universo di Star Wars nelle serie televisive e poi da lì incomincia a consumare il prodotto acquistando anche testi su media diversi (potrebbe ad esempio decidere di comprarsi tutta la trilogia classica in DVD, perché ha visto The Mandalorian e gli è piaciuto, potrebbe poi passare a leggere i fumetti, e quant’altro). Ecco pertanto quest’idea di cross promotion, di promozione incrociata tra i vari media.

Dopo la classica definizione di Jenkins, c’è stata quella di Scolari, che diceva, riprendendo Quintiliano, che una narrazione transmediale può procedere per addizione, omissione, permutazione, trasposizione…

Quella di Scolari è un po’ più ampia perché voleva classificare i vari modi in cui dei contenuti mediali passano da un medium all’altro. La definizione di Jenkins dice che ogni testo offre un contributo distinto e importante all’intero complesso narrativo. Questo significa che al centro della concezione di Jenkins c’è non solo l’idea di coerenza dell’intero universo narrativo – dove tutti gli elementi devono essere coerenti tra loro, evitando quindi le contraddizioni – ma anche, come diceva lui, quella di evitare la ridondanza di contenuti. È chiaro che in una trasposizione, cioè nel passaggio da un romanzo che viene tradotto/trasposto nelle immagini di un film, vi è invece una ridondanza di contenuti. Però Scolari ha i suoi motivi per dire questo, perché quello di Jenkins è un modello ideale, mentre in realtà nessuno dei franchise transmediali – o pochissimi – hanno effettivamente un’assoluta coerenza, una non ridondanza dei contenuti e quindi una non sovrapposizione. Pensiamo a un franchise transmediale come Harry Potter, che un è un caso piuttosto incongruo se lo vediamo dal punto di vista del modello ideale di Jenkins, perché nasce come serie di romanzi per ragazzi che vengono trasposti in film – abbiamo quindi una ridondanza – e da lì poi si amplia in maniera a ulteriori testi su media diversi . La stessa cosa si può dire di tanti altri franchise transmediali.

Il discorso della coerenza è ancora più spinoso, perché via via che si estende il franchise transmediale, e quindi c’è un numero sempre più diversificato di testi, diventa difficile riuscire a mantenere un’assoluta coerenza; pertanto, ecco che di fatto quello di Jenkins è solo un modello ideale a cui tendere. Se si guardano anche gli esempi classici che faceva Henry Jenkins… sì, Matrix, per esempio, è coerente come progetto transmediale e non è ridondante, ma si tratta di progetti tutto sommato abbastanza limitati come numero di testi che afferiscono ad essi. Se, invece, andiamo su franchise che si estendono su universi narrativi molto più ampi, tutto diventa più complicato. Questo è il problema.

Quindi, già con Scolari la parola “transmedia” assume un significato leggermente diverso, perché include anche le trasposizioni, le parodie, i mashup e quant’altro, che non sempre rientrano nella definizione di Jenkins. Il concetto di transmedia è stato poi ulteriormente ampliato: ovviamente, via via che un termine si diffonde viene sempre più applicato a cose diverse, a proposito e a sproposito, e finisce di diventare un termine ombrello. Nella vulgata all’interno della transmedialità vengono spesso inserite tutta una serie di cose che hanno a che vedere, in maniera molto più generale, con il semplice trasferimento di contenuti da un medium all’altro.

Senza pensare all’aspetto di coinvolgimento e di partecipazione, quindi del fandom…

Questo è un altro aspetto che per Jenkins è centrale, e qui, in qualche maniera, iniziano i problemi, perché da un lato Jenkins parla di progetti che sono coordinati, unificati e quindi costruiti dall’alto, dall’altro Jenkins, che ricordiamo viene dalla tradizione dei Fandom Studies (studi sui fan), parla di produzioni dal basso (fandom). Non a caso il blog di cui parlavo prima si intitola appunto Le confessioni di un aca-fan, cioè academic fan: Jenkins si considera un fan che studia accademicamente i fan e quindi anche sé stesso, con una dichiarata circolarità in questo. In effetti, è un po’ quello che fanno numerosi studiosi, che a volte non fanno soltanto un’osservazione partecipata del fandom, ma sono effettivamente fan, partecipando e a volte promuovendo le iniziative di quest’ultimo. Direi più in generale che si tratta di un’attitudine che abbiamo un po’ tutti noi che ci occupiamo di quella che una volta sarebbe stata detta cultura di massa, popular culture: in qualche maniera siamo noi i primi fan di queste produzioni, ne siamo coinvolti, e quindi c’è questo coinvolgimento dell’osservatore.

Jenkins proviene dal fandom, e pertanto ritiene importante appunto il coinvolgimento dei fan sia nella costruzione dell’universo narrativo – il fan scrive fanfiction, realizza video, produce tutta una serie di produzioni testuali che vanno ad arricchire l’universo narrativo – sia perché è anche quello a cui si rivolge, come consumatore ideale, la produzione. Jenkins vede dunque in maniera molto dinamica queste interazioni fra le produzioni top down e quelle bottom up. Certo, ciò ovviamente crea tutta una serie di frizioni tra industrie produttive e fans (io ne parlo in Che cos’è la transmedialità), legate proprio al fatto che da un lato c’è lo sviluppo degli universi narrativi che deve essere coerente, non ridondante ecc., dall’altro c’è il fan che rivendica la sua libertà di poter costruire narrazioni che vanno anche al di là di quello che è considerato il canone. Sorge pertanto il problema controllare questa deriva, anche perché, a volte, è capitato che si sono avute produzioni del fandom che potevano essere alquanto imbarazzanti per le case di produzione (come ad esempio una versione erotica e iperviolenta dei Power Rangers), o comunque andare contro i loro interessi, anche economici.

Per me, che ho un’impostazione di tipo semiotico, la transmedialità si può avere indipendentemente dalla partecipazione dei fan, e dal loro contributo produttivo. D’altro canto questo coinvolgimento, seppur non necessario, è qualcosa certamente presente, se vogliamo anche uno degli scopi che si hanno quando si fa una traduzione transmediale: ad esempio il fatto di coinvolgere il fandom nella promozione, o anche soltanto di stimolare i fan attraverso i social, produce un fenomeno di dialettica, di dinamica tra produttore e consumatore.

Si può parlare di adattamento/trasposizione da Gomorra, iI romanzo di Saviano, al film omonimo di Garrone e a Gomorra. La serie, che per le prime tre stagioni ha avuto come showrunner Stefano Sollima, oppure di vero e proprio franchise transmediale?

Premesso che non ho seguito Gomorra. La serie in tutte le sue declinazioni e in tutte le sue stagioni, però in linea di massima posso dire che sicuramente c’è una componente transmediale. Intanto c’è il romanzo. Sappiamo tutti che Gomorra nasce come un libro, diventa poi un film… e prima ancora un’opera teatrale. Quindi in questi due casi… non ho visto l’opera teatrale, ma quantomeno tra libro e film si tratta di un caso di adattamento/trasposizione: ovviamente c’è una semplificazione delle linee narrative, ma anche nel film si ricrea un insieme, un patchwork, di più storie. Per la serie televisiva, invece, ci troviamo di fronte sicuramente a un’espansione: di fatto la fiction presenta del nuovo materiale narrativo. In Gomorra. La serie abbiamo dei testi che espandono l’universo narrativo, raccontando le storie dei diversi personaggi, ampliandole, raccontando i retroscena e aggiungendo anche materiali narrativi nuovi, a volte anche ripresi da altre fonti, da altre indagini che nel frattempo aveva fatto Saviano. Quindi, da questo punto di vista, siamo sicuramente di fronte a un caso di espansione narrativa su media diversi…

Pertanto qui si ha un caso di transmedialità?

Sì, questo è sicuramente un caso di transmedialità, che presenta in un media diverso nuovi materiali narrativi, coerenti e non ridondanti. Oltre al resto c’è anche un’altra caratteristica individuata da Jenkins, cioè il fatto che questi materiali sono assolutamente fruibili anche da chi non ha letto il libro, o non ha visto il film; quindi la serie è un altro punto di accesso possibile – e anzi lo è stato sicuramente per molti – all’universo narrativo di Gomorra…

Allora lei parla di trasposizione da Gomorra libro a Gomorra film e a Gomorra teatrale, mentre parla di espansione transmediale per quanto riguarda la serie…

Sì, è un’operazione che può essere vista come transmediale, proprio perché espande in maniera coerente e non ridondante in un altro medium l’universo narrativo di Gomorra. Diciamo però che quella di Gomorra. La serie è una transmedialità alquanto limitata, perché abbiamo sì l’espansione del romanzo (e del film) in una serie televisiva, ma manca un po’ tutto il resto. Invece, nelle produzioni americane, c’è tutta un’altra serie di testi narrativi che può accompagnare la serie televisiva: webisode, mobisode, videogiochi, fino ad arrivare ai fumetti o alle action figure. Ora, tutto quello che si diceva prima, cioè l’idea di sfruttare questi contenuti narrativi per rivederli sotto forme diverse o per promuoverli su media diversi e presso pubblici diversi, per il prodotto Gomorra non c’è. Fondamentalmente la serie è stata promossa da Sky in maniera abbastanza tradizionale. E dire che si sarebbe pure prestata, è facile pensare a come si sarebbero potute fare delle espansioni transmediali. Ad esempio, sarebbe stato interessante fare delle espansioni giornalistiche, con approfondimenti su determinate tematiche…

L’ha fatto un po’ Rai Tre quando ha messo in onda la prima stagione di Gomorra. La serie.

E anche Saviano sul suo sito ha portato avanti un po’ queste espansioni, però fondamentalmente questo è un elemento che manca, come manca qualsiasi coinvolgimento della fan base. Dico ciò in base a quello che conosco io, che come dicevo non ho approfondito molto il caso Gomorra. Ma mi sono fatto quest’idea. Per certi versi è transmediale, per altri sfrutta poco la possibilità della transmedialità.

Infatti, anche a livello di Sky, lo sfruttamento transmediale di questa fiction non coinvolge più di tanto. Io ho guardato il canale YouTube Sky Italia, ma Gomorra. La serie viene posta sotto la playlist Serie TV, che contiene solo undici video della stagione finale, più qualcuno delle altre stagioni. Invece, per quanto riguarda Mad Men, la AMC al 2021 aveva un canale YouTube con una playlist dedicata alla serie di 175 video: si tratta di una politica editoriale, tra i due network, molto diversa.

Sì, sì, ma è una cosa che è abbastanza comune: in genere nelle produzioni italiane non siamo ancora entrati del tutto in quest’idea qui; probabilmente è diverso proprio tutto il panorama produttivo.

In che senso il franchise di Gomorra si può dire transmediale, che storyworld ha creato Sky, produttrice della serie, che ha dato origine alla produzione dall’alto (top down), non sempre coerente, in questo senso, come abbiamo appena detto? In proposito, si può parlare, come diceva Nuno Bernardo, di brand extension e non di organic transmedia?

Sicuramente Gomorra è un brand. Nuno Bernardo fa vedere bene nel suo modello come da una narrazione centrale possano svilupparsi tutta una serie di testi su supporti diversi. Qui però non c’è brand extension: abbiamo una serie televisiva che è sì transmediale, perché comunque espande la narrazione originaria, ma a sua volta non si espande ulteriormente o si espande pochissimo. C’è un’eccezione significativa, il film del 2019 L’immortale, che è una sorta di spin-off  rispetto alla serie televisiva: questo potrebbe dare origine  a ulteriori produzioni in medium ulteriormente diversi, ma non mi pare che ciò sia finora successo. Anche qui mi sembra che si tratti di un tentativo piuttosto estemporaneo.

Sembra esserci però un’eccezione: Salvatore Esposito, il famoso Genny Savastano, protagonista della serie, ha un sito web (www.salvatore-esposito.com), dove ospita anche una vivace attività di merchandising, promuove due suoi romanzi e propone dei quiz sulle sue attività… Quella, forse, si può considerare un’espansione transmediale?

Vedo che sul sito lui vende anche borracce, tazze… Però, i romanzi, ad esempio, sono del tutto eterodossi, non relativi a Gomorra. Poi, questo è un sito che non ha nemmeno a che vedere con una qualche sorta di produzione di fan: è incentrato più su Salvatore Esposito come autore, attore e personaggio, che richiama sì anche Gomorra. La serie, ma senza rifarsi in modo diretto ed esplicito al suo universo transmediale. Infatti, Esposito parla di Gomorra 5, che è la serie TV, ma anche di Rosanero, altro film che ha interpretato, e di altre sue attività. Questo sito, pertanto, non è un’espansione transmediale tipica della serie, ricorda semmai quella che Eco a suo tempo aveva definito una serialità basata sul personaggio dell’attore, per cui il fatto di ripresentare lo stesso attore in film diversi, anche indipendenti tra loro, creava una sorta di effetto di serialità…

Però del personaggio, dell’attore, e non dell’”attore Gomorra”!

Sì, esatto, come poteva essere il caso di Humphrey Bogart. oppure di Schwarzenegger che, oltre a Conan il Barbaro, ha interpretato altri personaggi in cui faceva il barbaro muscoloso, armato di spada, personaggi che non erano Conan, ma che in qualche maniera lo richiamavano.

Secondo un’ottica di cultura partecipativa come funzionano le produzioni dal basso (bottom up), e quanta parte hanno avuto nel contribuire allo storyworld di Gomorra (mi riferisco soprattutto alla serie)? Ad esempio, www.archiveofourown.org contiene alcune fanfiction dedicata al film Gomorra, mentre su www.fandom.com, sito che ospita numerosi wiki, quello dedicato a Gomorra. La serie, risulta ancora in costruzione, e tra l’altro è veramente fatto malissimo perché in alcune pagine ci sono addirittura degli errori marchiani, sia di ortografia che di battitura.

Ma anche in www.archiveofourown.org (mi son divertito a cercare), per Gomorra mi dava 89 entry, ovvero 89 testi di fanfiction, un numero piuttosto limitato rispetto a quelle di altre narrazioni: se invece uno scrive Harry Potter, si trova di fronte a qualche decina di migliaia di lavori. In un convegno sulla serialità tenuto otto anni fa a Urbino, Mario Tirino e Antonella Napoli hanno lavorato insieme sul fandom di Gomorra, a proposito del quale notavano che era molto limitato e perlopiù fortemente regionalizzato, circoscritto alla Campania. È vero che hanno detto questo alcuni anni fa, poi nel frattempo magari la cosa si sarà evoluta, ma comunque il fandom di Gomorra è veramente limitato rispetto al numero di fanfiction veramente impressionante di certi media franchise. Alcune fanfiction di Gomorra tra l’altro sono mashup: per esempio, uno metteva insieme Gomorra e X Files (era indicizzato così), poi c’era addirittura Gomorra e Star Trek

Esistono, per uscire dal semplice entertainment, altri casi di transmedia branding, per esempio rifacendosi a delle marche di prodotti come la Barilla?

Mi fa piacere ricordare il volume Transmedia branding, curato da me e da Giuseppe Segreto, dove ho parlato di transmedialità applicata ai beni di consumo. Il testo era frutto di un incontro fatto all’interno delle attività del Master in Comunicazione d’Impresa di Siena, che ha organizzato questa giornata di studi,  che si è poi trasformata in un libro. In esso si parlava dell’importanza, per la comunicazione delle imprese, di una visione transmediale: perché in una comunicazione di brand è ormai necessario lavorare anche sulla tale dimensione, fare soltanto uno spot pubblicitario non basta più, occorrono operazioni più articolate di coinvolgimento dei destinatari, dei clienti, che in quest’ottica non sono più soltanto consumatori, ma fan, promotori della marca, del brand. Essi diventano sempre più brand ambassador, ambasciatori della marca, che diffondono il marchio parlandone bene, per esempio sui social, condividendo i materiali delle campagne pubblicitarie, le immagini dei prodotti e quant’altro. Via via si è sempre più avvertita l’importanza di avere degli universi narrativi di marca: questo l’aveva già capito Barilla tanti anni fa, costruendo un vero e proprio mondo narrativo , uno storyworld, come quello del Mulino Bianco. Un mondo narrativo che non nasce nell’entertainment, ma è appunto un mondo di marca.

Da qui si arriva alla costruzione di un branding transmediale, di una promozione del brand attraverso azioni narrative su media diversi, che sollecitino anche il coinvolgimento la partecipazione attiva dei destinatari. E’ una cosa ormai sempre più diffusa, anche se dominano ancora campagne di promozione abbastanza tradizionali, e non solo in Italia. L’altro giorno ho letto un’analisi, uscita sul Sole 24 ore, sugli spot apparsi sulla televisione americana in occasione del Super Bowl, dove si lamentava appunto il fatto che molte di queste campagne ragionavano ancora in termini tradizionali di spot, diffuso in occasione del Super Bowl, ma spesso senza un apparato che potesse coinvolgere a livello di social (per es., con giochi e premi), con ulteriori narrazioni via web, espansioni di vario tipo fatte per poter essere divulgate e diffuse e coinvolgere anche i fan; senza quindi un’ottica transmediale, nella quale lo spot diventa soltanto un momento di una strategia più ampia che coinvolge media e canali diversi. Purtroppo, quella transmediale è una logica che non solo in Italia gran parte delle aziende ancora non segue.

Se non ho capito male, sarebbe la vecchia logica da Poltronesofà quella che lei critica, cioè inondare di spot senza creare un mondo…

Sì, senza creare un mondo e senza coinvolgere appunto i pubblici di riferimento, i fan, che poi diventano brand ambassador. Non sono solo io che faccio questa critica, ma anche l’estensore dell’articolo; mi consola sapere che non è solo in Italia che tale politica di transmedia branding non è ancora diffusa, ma che questo succede negli States, mentre continuano a imperare e a mantenersi logiche più antiche.

MARIA GRAZIA FALÀ

“Gomorra. La serie, tra fictional relieves e reality checks”

Gomorra. La serie, tra fictional relieves e reality checks

A un anno dalla messa in onda dell’ultima stagione, Andrea Bernardelli riflette sugli antieroi della fiction

Andrea Bernardelli

Antieroe come personaggio sfocato, a metà strada tra il buono e il cattivo, che però diventa anche, nella serialità televisiva contemporanea, bad guy, cioè dotato di un vero e proprio istinto criminale. Empatia verso i rough heroes, gli eroi “crudeli”, ma che per alcuni tratti umanizzanti ci fanno, in una certa misura, parteggiare per loro. Reality checks, ovvero bruschi risvegli verso la realtà criminale dei personaggi dei gangster movies, e fictional relieves, cioè momenti di rilassamento dello spettatore che fanno propendere verso questi personaggi, portando lo spettatore a empatizzare con loro, come in Gomorra. La serie. A circa un anno dalla messa in onda su Sky della sua quinta stagione, e a qualche mese dalla sua messa in onda su TV 8, Andrea Bernardelli, docente di Semiotica all’Università di Ferrara, riflette su questa fiction e sui suoi antieroi a partire dal suo libro Cattivi seriali. Personaggio atipici nelle produzioni televisive contemporanee, edito nel 2016 da Carocci.

Come definisce la figura dell’antieroe?

L’antieroe è semplicemente un personaggio, spesso il protagonista della storia narrata, che ha caratteristiche che negano la sua eroicità. Non è un eroe senza macchia e senza paura, come si dice, ma è invece dotato di qualche caratteristica negativa. L’antieroe può essere un personaggio incapace di essere eroico, perché inetto o inadatto, come Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno, o perché non vuole esserlo, oppure può anche essere un eroe ma con qualche difetto, una qualche incapacità che lo limita nei suoi compiti, come anche la malattia, come il detective Monk (2002-09), pieno di fobie ma che risolve genialmente i casi che gli vengono affidati.

Esiste poi una figura in un certo senso speculare che è quella del cattivo, il classico villain, che però viene rappresentato come in parte o in fondo buono o positivo. Si tratta di quello che potremmo chiamare l’anti-villain, un cattivo “sporcato” di bontà, che in fondo in fondo ha qualcosa di positivo che ci convince a seguirne le vicende comunque, anche se si manifesta come malvagio.

Quando si afferma, nella serialità televisiva, tale figura intesa come bad guy?

Il cattivo di cui innamorarsi nella serialità televisiva trova il proprio prototipo o modello in Tony Soprano della serie The Sopranos (HBO, 1999-2007). Tony è il capo di un clan mafioso italo-americano di NY. Ci viene presentato con una serie di tratti positivi: è un buon padre di famiglia, è leale anche se in senso criminale, ed è fragile, va da una psicanalista per curarsi da crisi d’ansia. È uno di noi anche se uccide e gestisce un gruppo criminale. È una sorta di bilanciamento di aspetti positivi e negativi che gli sceneggiatori mettono in gioco per renderle sopportabile, se non amabile, il personaggio per lo spettatore.

Diverso il caso dell’altro famoso antieroe delle serialità televisiva, Walter White, protagonista di Breaking Bad. Nel caso di Tony abbiamo un villain apprezzato da noi spettatori per alcune sue fragilità o caratteristiche umane di fondo, ma che resta sempre un cattivo nella sostanza, non ha uno sviluppo, semplicemente lo conosciamo nel profondo sempre meglio di puntata in puntata. Nel caso di BB seguiamo invece la caduta di un personaggio inizialmente ritratto come eticamente positivo, buono, verso la ferocia, la trasformazione in un criminale di una persona buona. White diventa sempre più cattivo, e noi siamo focalizzati fin dall’inizio su di lui in quanto cerca una sorta di rivincita (è un professore, frustrato, di chimica), e quindi accettiamo ogni suo atto, anche quello di lasciar morire la fidanzata del suo socio per overdose perché disturbava i suoi affari. C’è un altro momento significativo in Walter White, ed è quando la moglie gli chiede perché è diventato una sorta di signore della droga, e lui le risponde “Io sono sempre stato così”. Noi spettatori pensiamo che cucini metanfetamine per lasciare i soldi alla famiglia (è infatti malato terminale di cancro), ma non è vero, forse era un cattivo dentro, che alla fine ha tirato fuori quella cattiveria. Forse qui si tratta di esperimenti etici, nel senso che parliamo di filosofia morale, disciplina un po’ accantonata in ambito filosofico, ma che nella serialità televisiva salta fuori da tutte le parti.

Diverso arco narrativo, ma figure, Tony Soprano e Walter White, comunque rilevanti nell’immaginario contemporaneo.

In che modo Gomorra. La serie ha rappresentato i suoi antieroi? Si può dire che lo spettatore empatizzi con loro?

I protagonisti di Gomorra sono in realtà veri e propri antivillain. Dei rough heroes, come li ha definiti una studiosa americana, eroi rividi o duri. Sono personaggi che nel profondo sono eticamente negativi, ma che ci vengono descritti come dotati di sentimenti e di paure che noi spettatori finiamo per condividere. Non è un caso se in Gomorra non esiste il contraltare di personaggi buoni o positivi che si contrappongano ai protagonisti. La polizia quando è presente è solo un disturbo o un intralcio ai piani dei nostri personaggi focali. Come spettatori siamo completamente focalizzati su quei personaggi negativi e non abbiamo scampo se non di seguirli e parteggiare per loro, anche per i loro piani criminali.

Come si presentavano in questa fiction quelli che Magrethe Bruun Vaage definiva fictional relieves e reality checks?

Secondo la studiosa norvegese, ma che insegna in Inghilterra alla University of Kent, questo genere di narrazione riesce a rendersi accettabile se non gradevole allo spettatore nonostante un messaggio eticamente disturbante grazie ad una alternanza, un moto pendolare, tra momenti di rilassamento per lo spettatore che si rene conto che è tutto finto, i fictional relieves (relief è qui “sollievo”), a momenti in cui il crudo realismo delle scene gli dà un  pugno nello stomaco, i reality checks (check in questo caso sta per verifica, controllo). E Gomorra non sfugge a questo moto pendolare tra cruda realtà e momenti di evidente finzionalità.

In un saggio posteriore a Cattivi seriali lei afferma che i reality checks di Gomorra. La serie sono costituiti dall’estremo realismo, temperato dai fictional relieves rappresentati dalla teatralità con cui recitano i personaggi. Ce ne potrebbe parlare?

L’idea è che il contesto culturale in cui la serie è collocata ma anche prodotta abbia un’influenza sulle sue caratteristiche e strutture narrative. La recitazione in molti casi è enfatica e eccessiva, molto teatrale, e ricorda la tradizionale sceneggiata napoletana, nota anche per trasposizioni cinematografiche (Mario Merola, attore famoso negli anni ’70). Tornando a noi, questa forma di recitazione riporta lo spettatore alla teatralità del contesto in cui le azioni si svolgono dandogli la sensazione di un fictional relif, si dice “ok, è tutto finto”. Poi ecco subito dopo il duro impatto con la realtà, un omicidio o un atto di violenza. Per esempio, nella prima stagione c’è una scena, l’incontro tra Donna Imma Savastano, donna di mafia che ha preso in mano la famiglia, nel senso camorrista, e Ciro di Marzio, il giovane che sta cercando di farle le scarpe. In questa scena c’è un incontro tra i due che sembra una sceneggiata napoletana, e che, se non fosse che si tratta di due criminali, sembrerebbe quasi una soap opera. Il dialogo tra i due costituirebbe quindi un fictional relief, nel senso che è qualcosa di molto finto, ma poi, quando Donna Imma e Ciro escono dal bar dove stavano parlando, si vedono due moto che si avvicinano, quelle dei killer, e questo è il reality check, l’impatto con la realtà, perché uno dei due (Donna Imma) viene ucciso: siamo a Scampia, dove, se si vede un uomo incappucciato, si deve avere paura.

In che modo il cronotopo ha rilievo nella fiction? Si può dire che la location in Gomorra. La serie costituisca un personaggio, oltre che uno sfondo?

Certamente, riguardo a quello che dicevo prima sulla teatralità molto napoletana della recitazione in Gomorra, a questo non è estranea la realtà teatrale napoletana che è molto attiva, ogni quartiere o rione ha un teatro e da lì si formano molti attori locali. E certo Scampia offre un immaginario di origine giornalistica ben assodato per lo spettatore. Per quanto riguarda il fatto che se si parla di camorra per forza si debba collocare la narrazione a Napoli o se si parla di ndrangheta allora in Calabria, questo non però è del tutto vero. La bella serie Amazon, Bang Bang Baby, parla di ‘ndrangheta negli anni ’80, ma colloca l’azione nel nord Italia, nella Lombardia di quegli anni, quella della “Milano da bere” come si diceva allora in piena euforia anni ’80. Ma poi c’erano storie, vere tra l’altro, come quella di “nonna eroina” o quella della ragazza che ha ispirato la figura della protagonista della storia che venne coinvolta dal padre nelle vicende criminali di quegli anni. Quindi lo spazio-tempo, il cronotopo, è certamente come un personaggio, ma non è necessariamente stereotipato o vincolato ad un immaginario popolare, si può giocare con i cronotopi per sorprendere lo spettatore.

MARIA GRAZIA FALÀ

“Pulp Fiction, di superficie ma non superficiale”

Pulp Fiction, di superficie ma non superficiale”

Per le Bussole di Carocci una monografia sul capolavoro di Tarantino

Leonardo Gandini

Un film, Pulp Fiction, caratterizzato dalla narrazione multipla e dalla temporalità non lineare, che si può definire postmoderno per il suo gusto per la citazione, che non è citazionismo, per il frammento, e per l’ironia, con i gangster di mezza tacca e che sono permeati dalla pop culture, per cui anche la violenza è un oggetto di consumo. Una pellicola che ha precorso i tempi, soprattutto nel sottolineare la costruzione visiva del campo sociale, che preannuncia i social media, e anche nel tratteggiare rapporti interraziali tra bianchi e neri dove il nero “predomina” per la sua arguzia, autorevolezza e senso dell’ironia. Sono questi i tratti portanti dell’analisi che Leonardo Gandini, docente di Storia del cinema all’Università di Modena e Reggio Emilia e Iconografia del cinema all’Università di Bologna, ha fatto nel suo testo Tarantino: Pulp Fiction, edito di recente per Carocci.

Quali sarebbero le parole chiave per definire Pulp Fiction? Lei ha parlato in primis di narrazione multipla e di costruzione cronologica degli eventi…

Sì, direi che sono due parole chiave abbastanza efficaci per descrivere il film. Narrazione multipla, perché ci sono un sacco di storie che vengono raccontate: da questo punto di vista direi anche che il film anticipa un po’ una tendenza della serialità contemporanea, no? a prendersi carico di un numero cospicuo di personaggi. Per quanto riguarda la costruzione cronologica degli eventi, parlerei piuttosto di decostruzione cronologica degli stessi, cioè la modalità attraverso la quale, con estrema disinvoltura, Tarantino salta avanti e indietro nel tempo dandoci dei piccoli segnali su come poi ricomporre mentalmente la storia secondo principio di conseguenzialità. Io credo che questo sia tato uno degli ingredienti del suo successo, nel senso che il pubblico si è sentito stimolato, coinvolto in una storia nella quale bisogna stare attenti…Se uno non è attento, non capisce perché dei personaggi che ha visto uccidere, ha visto morire in una sequenza, ricompaiono sette-otto sequenze dopo. Naturalmente, tutto questo va commisurato al grado di consapevolezza di uno spettatore dei primi anni ’90, oggi certe dinamiche di ricezione sono un po’ più conosciute.

Un fenomeno importante per la sua ricezione è stata la concomitante diffusione dell’home video, che negli anni ‘80 muoveva i suoi primi passi. Ce ne potrebbe parlare?

La diffusione dell’home video è importante in quanto attraverso questo la fruizione di cinema cambia in profondità, perché è possibile rivedere le scene preferite di un film e non è necessario rivederlo tutto come avveniva una volta, dove, se ti piaceva un film, tornavi al cinema e te lo rivedevi tutto. Con l’home video si possono selezionare delle scene: ciò avveniva già con le videocassette, poi col DVD la selezione delle scene diventa uno dei punti di forza nella diffusione di un film.

Tarantino costruisce un film che rispecchia questo principio perché Pulp Fiction fatto di sequenze forti che anche nel web reggeranno, ciascuna a suo modo, per motivi diversi, e che sul web sono pure fruibili in maniera a sé stante.

In che senso questa pellicola si può considerare rappresentativa del cinema postclassico e postmoderno?

Si può considerare rappresentativo della condizione postmoderna proprio a partire dall’idea di film la cui ricezione può essere frammentata e seguire principi di piacere per la singola sequenza piuttosto che per il film nel suo complesso. Ci sono molte sequenze su Pulp Fiction che possono essere fruite autonomamente anche sul web traendone godimento. Penso a tutta la sequenza, per esempio, del ristorante e poi del ballo tra Mia, la moglie di Marcellus Wallace, e Vincent Vega. Quella è una scena che uno, se la vede per intero sul web e la trova senza difficoltà, dal momento in cui lui la va a prendere al momento in cui finisce il ballo, ecco, è una sequenza godibilissima, anche senza vedere per intero il film. Dunque, la condizione postmoderna è una condizione che valorizza i frammenti in sé per sé nella sua dimensione attrazionale. Lo stesso vale per la sequenza altrettanto celeberrima in cui i due killer entrano nella casa dei ragazzi, si mangiano i loro hamburger, gli sparano e poi vanno via. Quindi, ci sono diverse di sequenze in questo film fruibili senza essere a conoscenza del contesto narrativo che le ospita.

Cosa si potrebbe definire come cinema postmoderno? La definizione per la letteratura è abbastanza semplice. Lei per Pulp Fiction ha parlato di cinema tra virgolette…

È tra virgolette nella misura in cui è un cinema dominato da alcune componenti che caratterizzano tutta la condizione postmoderna, cioè l’amore per la citazione, l’ironia, il distacco dai contenuti. Direi che questi sono i tratti caratterizzanti: l’ironia, la presa di distanza dei contenuti di cui l’ironia è un ingrediente importante, l’amore per la citazione, l’amore per la superficie. E superficie significa il modo in cui i personaggi vestono, parlano, ecc., e non superficialità.

Lei ha affermato che un approccio antropologico permea film come Quei bravi ragazzi e i primi due capitoli della saga de Il padrino. Quanto c’è di analogo e di diverso nel lavoro di Tarantino da gangster movies come questi?

Beh, direi che la diversità è abbastanza evidente. Intanto non c’è nessuna attenzione/attrazione per il tema dell’ascesa criminale, che è fondamentale, sia in Scorsese che in Coppola, cioè la criminalità viene raccontata a partire dall’importanza che i personaggi assumono nell’establishment malavitoso. Invece Tarantino ama il sottobosco della criminalità, la manovalanza da piccolo cabotaggio, per prima cosa, e poi, in lui non c’è il tentativo di trascinare il discorso sul piano shakespeariano del complotto, della lealtà, del tradimento, dove in qualche modo vanno a parare sempre i film di Scorsese e di Coppola, temi che attraversano tutti i loro film sulla malavita fino a Il lupo di Wall Street. Al contrario, Tarantino rimane a un livello fenomenologico, non ha un approccio antropologico: cioè fondamentalmente a lui quello che importa è cosa questi gangster mangiano, come vestono, ecc. Cioè, qui è tutto, ancora una volta, riportato su una dimensione superficiale: Tarantino si chiede quali sono i loro film preferiti, quali sono le loro canzoni preferite: non c’è un tentativo di andare in profondità, ma, se posso aggiungere ancora una cosa, questa scelta di non andare in profondità nel cinema postmoderno non è un limite, è paradossalmente un punto di forza.

Pulp Fiction rappresenta i suoi gangster come persone qualunque, dove la pop culture appartiene alla dimensione sociale, culturale. È così?

A questa domanda che lei mi ha appena fatto, ho praticamente già risposto, cioè i gangster vengono caratterizzati attraverso la loro adesione ai valori e alle icone della pop culture, il che li rende molto più simili ai non gangster, nel senso che sono molto più sorprendenti quando non compiono atti criminali, quando si sbizzarriscono in conversazioni banali che sono del tutto ordinarie, del tutto simili a quelle dei personaggi non criminali, del tipo come si mangia, cosa si beve, cosa si ascolta, cosa si vede, eccetera.

Nel presentare la violenza come consumo, nella costruzione visiva del campo sociale, che anticipa i social media, nel sottolineare la coolness dei neri come fatto fondante dei rapporti interrazziali all’interno del film, Tarantino, secondo lei avrebbe precorso i tempi?

Certamente, li avrebbe precorsi soprattutto sulla questione della costruzione visiva del campo sociale. In proposito cito degli studiosi, soprattutto Mitchell, che si sono soffermati su tale argomento. L’idea di questo autore, che esiste una costruzione visiva del campo sociale, cosa significa? Fondamentalmente che le persone costruiscono la propria socialità in base a quello che vedono e alle loro passioni per ciò che vedono o anche che ascoltano. Questo è un elemento che i social media hanno messo in evidenza. Se per esempio andiamo su Facebook, che fino a poco tempo fa era il social medium per eccellenza, vediamo che le persone postano una serie di cose che possono fungere da carta d’identità della loro personalità, in cerca di persone affini. Ecco, queste piccole spie di socialità, questi piccoli ami per costruire una socialità, non sono fondati su questioni ideologiche, cioè, che ne so, l’ambientalismo, l’opposizione alla guerra in Vietnam piuttosto che la simpatia per il partito democratico rispetto a quello repubblicano, ma sono fondati su pratiche culturali, quindi i cantanti che mi piacciono, le marche di abbigliamento preferite, ecc.

Pertanto, tutto ciò in Pulp Fiction è già chiaro, nel modo in cui le persone si rapportano fra di loro ed è per questo che io dico che Tarantino precorre i tempi, perché il film esce in una data fatidica, il 1994, che è esattamente la data di nascita del web.

Perché per lei la coolness dei neri è un tratto fondamentale dei rapporti interrazziali all’interno del film, e la considera come una cosa che precorre i tempi, uscendo da gangster movies incentrati su rappresentazioni interetniche (Quei bravi ragazzi, Il padrino), o ghetto-centric?

No, precorre i tempi e non solo per ciò che concerne i gangster movies, in quanto Tarantino è uno dei primissimi registi che si pone il problema di raccontare dinamiche sociali interrazziali. Prima i film dei neri erano i film dei neri, e i film dei bianchi erano film dei bianchi, e quando bianchi e neri si ritrovavano a convivere all’interno dello stesso film, questo di solito apparteneva alla categoria del film di denuncia del razzismo, basato sulla beatificazione degli afroamericani e la demonizzazione dei bianchi. E Tarantino è stato il primo negli anni ‘90 a costruire un film americano fatto da bianchi che non sia necessariamente riconducibile ad una logica di condanna del razzismo.

Quale e stata la differenza tra la produzione grassroots del web e invece quello ufficiale, in reazione all’uscita di Pulp Fiction?

La produzione grassroots del web è una produzione che si è soffermata soprattutto su alcune sequenze rielaborandole all’infinito, in chiave ora parodica, ora di semplice omaggio, ora di ricostruzione di quella situazione all’interno di un diverso panorama iconografico, ecc. Quindi è stata accentuata l’idea che il film possa essere fruito a pezzetti, con la predilezione di certi pezzetti su altri, di alcune sequenze su altre.

Lei comunque per la produzione grassroots intendeva anche una continua interazione con il testo…

Sì, ma più che di interazione, parlerei di un riutilizzo, di un riciclaggio di alcune sequenze con funzionalità diverse che possono essere l’omaggio, la parodia, la presa in giro, la stessa ironia, ma anche delle finalità molto pratiche.

Per esempio?

Per esempio, una festa di matrimonio dove la gente balla come ballano Uma Thurman e John Travolta. Si tratta di un processo, potremmo metterla così, di desemantizzazione e di ricontestualizzazione, nel senso che si prende la sequenza, la si toglie dal contesto originale e la si ricolloca in uno completamente differente.

Quanto ha influito il film di Tarantino sui prodotti come Gomorra (alludo al film e alla serie TV) o su molta serialità televisiva successiva (lei ha citato I Soprano, Dexter, Breaking Bad e Fargo, sia film che fiction)?

Per quanto riguarda Gomorra (la serie TV, non il film), c’è appunto questa idea di costruire dei personaggi di criminali pienamente dentro la società dei consumi e quindi ancorati nel modo di vestire e di parlare a questo tipo di società. Per quanto riguarda invece I Soprano, Dexter, cioè la serialità televisiva americana, direi che Tarantino ha aperto una strada insieme al suo film precedente, Le iene, sulla caratterizzazione di personaggi criminali che possono essere però, anche nelle loro estemporaneità, qualche volta fonte di umorismo.

Ritorno su Gomorra. Anche questa serie intende lavorare, insistere sulla società dei consumi (il consumo pacchiano alla famiglia Savastano, il consumo chic di Gennaro, la moglie e il figlio Pietro, sia dal punto di vista degli abiti che dell’appartamento in cui vivono)?   

Alludo a questo, ma io facevo un legame non tanto con Gomorra, che francamente mi sembra debole, ma con la serialità americana, e nella tendenza a caratterizzare i personaggi dei killer come dei personaggi che in qualche caso possono strappare dei sorrisi, non essendo dei personaggi negativi a tutto tondo.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“Medicina narrativa, narrazione come cura”

“Medicina narrativa, narrazione come cura”

Tra medicina e narratologia, per Carocci un lavoro a sei mani su una disciplina recente

Stefano Calabrese

Un testo scritto a sei mani per delineare una nuova disciplina, la medicina narrativa, che viene definita per la prima volta sul finire degli anni Novanta del XX secolo. Narrazione intesa come cura per disagi quali la sindrome da stress post-traumatico o per malattie neurodegenerative come la demenza senile, narrazione che serve a curare e a prevenire disturbi del neurosviluppo quali l’autismo. Infine, digital narrative medicine, che aiuta con i nuovi media a produrre una migliore consapevolezza e condivisione, tra i soggetti interessati (medico, paziente, caregiver, ecc.), nella cura delle malattie. Di questo parlano Stefano Calabrese, ordinario di Comunicazione narrativa all’Università di Modena e Reggio Emilia, Valentina Conti, docente di Narratologia sempre nella stessa università, e Chiara Fioretti, docente di Psicologia clinica all’Università di Salerno, in Che cos’è la medicina narrativa, edito di recente da Carocci.

Quando nasce le medicina narrativa, e quando si afferma in Italia?

Va innanzitutto specificato che la narrative medicine (medicina narrativa) si inserisce nei presupposti di ciò che oggi definiamo medical humanities, un movimento d’opinione della metà degli anni Sessanta del XX secolo nato sotto la spinta di due critiche essenziali: da una parte, la denuncia da parte dei professionisti impegnati in vari ambiti clinico-assistenziali dell’impianto fortemente riduzionistico e medicalizzante della medicina; dall’altra parte, la tenacia della società civile nel far riconoscere il paziente come parte attiva del percorso terapeutico.

Ad ogni modo, il termine narrative-based medicine fa la sua prima comparsa nella letteratura scientifica verso la fine degli anni Novanta, per quanto una delle definizioni di narrative medicine più note a livello internazionale sia stata elaborata all’inizio del XXI secolo da Rita Charon – medico internista e docente di Clinica medica alla Columbia University di New York –, alla quale va anche riconosciuto il merito di aver contribuito alla sua nascita e al suo sviluppo a livello clinico, individuando gli ambiti di riferimento, le potenzialità e i vantaggi d’uso dell’approccio narrativo in ambito medico, e la necessità di una formazione specifica in tale direzione, fondando nel 2000 il Program of Narrative Medicine con l’annesso Master scientifico presso la Columbia University.

A partire da questo momento, la medicina narrativa proveniente dagli Stati Uniti ha acquisito sempre più importanza, diventando parte integrante del sapere medico e riscontrando un grande successo anche a livello europeo – Italia inclusa – a tal proposito sono nate, e tuttora stanno nascendo, molteplici metodologie, associazioni e consorzi con l’intento di portare avanti iniziative di ricerca sperimentale e di formazione sul tema a livello nazionale e internazionale, ad esempio, tra le realtà più attive sul territorio italiano troviamo l’Osservatorio Nazionale per la Medicina Narrativa (OMNI), la Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN) e l’Istituto Change di Torino.

Infine, non si può non ricordare che in Italia è soprattutto grazie alla Conferenza di Consenso svoltasi a Roma nel 2014 nel corso del II Congresso Internazionale Narrative Medicine and Rare Disease, organizzato dall’Istituto Superiore di Sanità con il Centro Nazionale Malattie Rare, che sono stati fissati alcuni punti chiave per la definizione di medicina narrativa ed è emersa l’importanza del suo inserimento nei percorsi di formazione del personale sanitario.

Chiara Fioretti

Quanto conta un approccio al paziente non solo orientato sulle evidenze, cioè su analisi cliniche “oggettive”, come sostiene la EBM (evidence-based medicine), in contrapposizione a quanto invece dice la NBM (narrative-based medicine)?

Dunque, si tratta non di una scelta biunivoca caratterizzata dalla logica disgiuntiva dell’aut-aut, bensì di un composto copulativo sorretto dal principio dell’et: la narrative-based medicine arricchisce le cure mediche tradizionali attraverso l’utilizzo “terapeutico” delle narrazioni del paziente, della famiglia e degli operatori coinvolti, con il risultato che le storie di vita hanno un impatto qualitativo ad personam che si aggiunge alla conoscenza scientifica acquisita attraverso i dati. A differenza della medicina basata sulle prove di efficacia, quella basata sulla narrazione parte dal presupposto che la centralità del paziente è un elemento fondamentale per garantire l’obiettivo della qualità delle cure. Pertanto, la persona malata viene considerata non più solo come oggetto di cura, ma come attivo protagonista del suo percorso terapeutico e riabilitativo, con la sua storia, le sue risorse e le sue capacità. Non a caso lo sviluppo del movimento della medicina narrativa compare sull’onda della contestazione del fatto che la capacità di ascolto dei medici è passata in secondo piano, in seguito allo sviluppo di tecnologie di diagnosi e analisi sempre più sofisticate. Le competenze relazionali e comunicative richieste dalla narrative-based medicine sono pertanto indispensabili per facilitare le narrazioni dei soggetti curati e delle loro famiglie, per raccogliere e integrare le diverse istanze e i diversi punti di vista che emergono dalle narrazioni, e per costruire un percorso di cura efficace e condiviso. In tal modo il soggetto inizia ad essere considerato non più solo come portatore di malattia, a volte come la malattia stessa, ma anche come portatore di storie, valori, significati, inseriti in un particolare contesto storico-sociale.

A parità di covarianti (condizione economica, gender, etnia, ecc.), secondo stime del National Adult Literacy Study (NALS), chi è più alfabetizzato vive di più. Potrebbe spiegare questo fenomeno?

Secondo le stime del NALS (National Adult Literacy Study), che ha creato l’espressione health literacy per riferirsi a tali effetti, circa 90 milioni di americani adulti evidenziano una relazione tra bassi livelli di alfabetizzazione (difficoltà di interpretazione semantica, scarso riconoscimento del lessico, ricorso a testi elementari) e periodi di ricovero nelle strutture sanitarie (a parità di co-varianti quali l’età, il gender, l’etnia, l’assistenza sanitaria e finanziaria ecc.). Non si tratta solo del fatto che gli individui altamente alfabetizzati hanno molte conoscenze in fatto di malattie, rischi di contagio, alimentazione, per cui evitano di ammalarsi perché esercitano una maggiore prevenzione, ma del fatto molto più generalista che chi è meno alfabetizzato ha una probabilità di ammalarsi superiore da una volta e mezzo a tre volte rispetto a chi è altamente alfabetizzato. Questo perché oggi è ormai ben indagata la relazione tra dimensione narrativa e condizioni generali di salute. La lettura porta infatti ad attivare due categorie principali di processi cognitivi capaci di rappresentare un vantaggio in termini di sopravvivenza: (i) il “deep reading”, un processo di lettura lento e immersivo, che avviene quando il lettore traccia connessioni all’interno del testo, trova modi per applicare quanto letto nel mondo al di fuori del testo e si interroga su quanto letto; (ii) l’empatia, la percezione sociale e l’intelligenza emotiva, processi cognitivi che possono condurre alla riduzione dello stress, a comportamenti più consapevoli e a una maggiore attenzione alla propria salute.

Valentina Conti

Come possono essere curati efficacemente i disordini post-traumatici da stress con la medicina narrativa?

Il soggetto affetto da stress post-traumatico risulta incapace di raccontare gli eventi dell’esperienza vissuta con un ordine cronologico e secondo un rapporto consequenziale di cause e effetti; infatti le sue narrazioni presentano numerosi flashback, ma anche effetti dissociativi e amnesie episodiche.

A fronte dell’incapacità di accettare un trauma, le vittime preferiscono affidarsi alla memoria narrativa anziché a quella traumatica, e poichè la memoria narrativa integra le esperienze in schemi mentali preesistenti ed è accompagnata da stati emotivi coerenti con essi, letteralmente il trauma non rientra nei canoni di una narrazione: non fa racconto. Affinché la memoria traumatica sia ripristinata è necessario che venga innescato un elemento dell’esperienza traumatica, cui è probabile seguiranno altri elementi in grado di ricostruire il ricordo reale dell’evento: questo innesco è spesso l’incipit della storia, da cui possono discendere con naturalezza gli episodi successivi, in modo tale che i frammenti della narrazione siano messi in ordine sequenziale. In tal senso, emergono le potenzialità “salvifiche e terapeutiche” della narrazione: essa costituisce uno strumento molto valido che consente al soggetto traumatizzato di svolgere una ri-esecuzione narrativa, che consiste nel raccontare e rielaborare l’evento traumatico più volte in modo da giungere ad una narrazione abbastanza ordinata e lineare, al fine di cercare di “superarlo”.

Quale apporto può portare la narratologia a disturbi come l’autismo? Quali sono gli aspetti della story grammar più deficitari in questi soggetti, e come possono essere migliorati, magari somministrando narrazioni costruite ad hoc?

Da un punto di vista narratologico, gli studi di Jennifer Barnes e Simon Baron-Cohen sullo sviluppo delle capacità narrative nei bambini autistici mostrano che la triade sintomatica tipica dell’autismo (comportamenti ripetitivi; interessi ristretti; difficoltà di comunicazione e disfunzione sociale) si traduce in una predisposizione cognitiva a visionare le scene in termini di parti, piuttosto che dell’intero, che comporta la costituzione di narrazioni intorno a specifici elementi standardizzati della storia, ossia narrazioni concentrate su alcuni dettagli piuttosto che su una visione d’insieme. Relativamente alle quattro componenti narrative essenziali della story grammar (il setting, il personaggio, il conflitto, la risoluzione) emerge che, rispetto a quelli dei normotipici, nei racconti di individui con disturbi dello spettro autistico l’ambientazione è geometrizzante, racchiusa in format spaziali di tipo gerarchico (come una stanza dentro un’altra) o classificatorio (ad esempio, lo spazio buono vs. lo spazio cattivo ecc.); i personaggi agiscono senza manifestare intenzioni o processi decisionali interiori; e la fine il più delle volte rimane “aperta”, nel senso che non chiude una situazione problematica, dato che quest’ultima non viene identificata. Ed è qui che si inserisce il ruolo delle narrazioni intese come uno strumento per il potenziamento di abilità sociali, mind reading e riconoscimento delle emozioni. In altri termini, il supporto di narrazioni ad hoc, dense di contenuti emotivi, relazionali, sociali funge da palestra cognitiva per i soggetti con autismo, aiutandoli a sollecitare e migliore le abilità di cui sono deficitari.

Le malattie neurodegenerative degli anziani (v. demenza senile) stanno diventando sempre di più un problema sociale. Come si potrebbe intervenire tramite la narratologia?

Come è noto, le persone con tali patologie presentano una condizione di disfunzione cronico-progressiva delle funzioni cerebrali che porta a un declino delle facoltà cognitive (come memoria, orientamento spazio-temporale, ragionamento, linguaggio, attenzione ecc.) tale da compromettere il comportamento, la personalità, le attività quotidiane e le relazioni sociali di chi ne è affetto, ossia conduce alla perdita dell’autonomia e dell’autosufficienza con vario grado di disabilità e conseguente dipendenza dagli altri. Ebbene, le demenze sono caratterizzate da un’inesorabile, sebbene lenta, progressione dei deficit cognitivi, rispetto a cui tuttora non esistono terapie farmacologiche efficaci; ed è proprio la scarsità dei risultati degli interventi farmacologici, unitamente all’esiguità delle conoscenze relative ai possibili meccanismi di riorganizzazione e compenso cerebrale, che negli ultimi vent’anni hanno dato un forte impulso alla ricerca di metodologie di riabilitazione cognitiva che potessero rallentare il decadimento cognitivo e psico-fisico. Attualmente, la medicina narrativa rientra in queste ultime metodologie, utilizzando diversi strumenti con finalità di riabilitazione cognitiva per soggetti con demenze, ad esempio, attraverso la scrittura, lo storytelling in modalità one-to-one o di gruppo e la biblioterapia, un aspetto che denota come le narrazioni stiano progressivamente diventando un’attività specifica anche livello clinico. In altri termini, la medicina narrativa cerca di ritardare gli effetti di tali patologie.

Che cos’è la digital narrative medicine, e quali sono i benefici che la narratologia può aggiungere in quest’ambito rispetto all’elaborazione-somministrazione di generi più tradizionali (es., il racconto, il graphic novel e il film)?

I nuovi media (o media digitali) implicano nuovi spazi e forme relazionali, che implicano nuove forme di comunicazione e narrazione mediale basate sul paradigma relazionale many-to-many, che implicano nuove forme di sapere ecc.; tuttavia non si tratta di una trasformazione netta e radicale rispetto al passato, quanto piuttosto di una svolta che ha modificato e continua a modificare i parametri di giudizio tra le diverse categorie culturali, portando in primo piano ciò che stava in secondo piano e viceversa. Ebbene, proprio grazie a tale svolta, da qualche anno si è cominciato a parlare della cosiddetta medicina narrativa digitale (digital narrative medicine), ossia la medicina narrativa declinata attraverso le nuove potenzialità di applicazione generate dalla rivoluzione digitale. Ad esempio, le tecnologie digitali interattive (come forum, gruppi sui social network, community, blog, siti ecc.) mostrano un enorme potenziale nell’ambito della promozione della salute, intesa in termini di consapevolezza, autogestione e cura delle malattie, e di cambiamento comportamentale alla luce di stili di vita salutari e esperienze altrui di malattia, ma anche nei programmi comunitari del settore dell’educazione sanitaria, nell’educazione medica, nell’istruzione infermieristica, nell’educazione del paziente e nell’educazione alle attività socialmente utili ecc. Non solo, alcuni di studi pilota a livello internazionale mostrano che l’utilizzo del digital storytelling – ossia la pratica del racconto che si avvale delle strategie consentite dalle tecnologie digitali per la creazione di narrazioni che possono essere integrate con supporti digitali/multimediali eterogenei come testi, audio, video, immagini, musica ecc.  e che raggiunge il pubblico attraverso i media digitali – può essere un valido strumento di supporto terapeutico per diverse patologie proprio grazie alla sua natura interattiva, multimediale e multisensoriale.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“C.e.R.T.A., la TV nella pandemia”

“C.e.R.T.A., la TV nella pandemia”

Per Carocci una ricerca sulla televisione ai tempi del Covid

Massimo Scaglioni

Un’analisi dei contenuti televisivi nel periodo pandemico, che ha studiato la produzione scripted e unscripted, individuando, per quest’annata TV, una linea di tendenza a favore dell’informazione e dei talk. Tra le reti che hanno fatto più ascolti, quelle, appunto, dove dominavano questo due generi, come Rete4 e La7, mentre Rai1 si è affermata con la fiction e Canale 5 coi reality, che hanno registrato un buon successo. Poi, Total Audience, ovvero ascolto crescente, oltre che sul televisore “canonico”, anche su altri device come smartphone, tablet, pc, ecc., che dovrebbe far riflettere gli editori per le nuove e grandi opportunità che offre. Infine, grande importanza della social TV, che rielabora i contenuti televisivi, “traghettandoli”, arricchendoli e commentandoli su social media come Facebook, Twitter, ecc., rivelandosi così un esempio di convergenza tra TV e, appunto, social media. Di questi temi si è parlato in La televisione nella pandemia. Intrattenimento, fiction, informazione e sport nell’anno del Covid-19. Annuario 2021, volume curato per Carocci editore da Massimo Scaglioni, ordinario di Storia dei media all’Università Cattolica di Milano.

La decisione di analizzare la TV italiana nel periodo pandemico (settembre 2020-maggio 2021) è frutto di uno sforzo congiunto, anche se diretto da lei. Ha intenzione di ripetere l’esperienza per l’annata televisiva che verrà, magari soffermandosi di più su un evento dirompente come la guerra in Ucraina?  

“La televisione nella pandemia”, il volume di cui stiamo parlando, rappresenta il punto d’arrivo di anni di attività di ricerca, e di costruzione di partnership, avviato dal Ce.R.T.A. il Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi della Università Cattolica di Milano. È nato come un “Annuario della televisione”, che copre l’intera “annualità” televisiva da settembre all’estate successiva, secondo il calendario della stagionalità del medium. Da questo punto di vista, già lo scorso settembre ci siamo rimessi in moto, anche coi nostri partner, per arrivare a un “Annuario 2022” che stiamo chiudendo, e che presenteremo a dicembre di quest’anno. Dunque, sì, certamente, pensiamo che l’Annuario rappresenti un importante strumento sia per chi la televisione la fa, per chi vi lavora, sia per chi la studia, e per le istituzioni interessate a monitorare i principali indicatori di questa industria.

Qual è stato il rapporto quantitativo e qualitativo tra l’unscripted, cioè la produzione non narrativa (si esclude lo sport), e lo scripted in questo periodo? Che tendenze si sono delineate nello scenario pandemico?

Domanda molto interessante, perché scripted (fiction) e unscripted (intrattenimento) costituiscono le colonne portanti dell’offerta televisiva, quelle aree su cui si concentra la produzione originale attivata dalle reti e, oggi, sempre più, anche dagli operatori delle piattaforme. Diciamo che in questi anni abbiamo visto molto dinamismo soprattutto nello scripted, nella fiction. L’investimento per questo macro-genere è molto cresciuto, possiamo parlare di quasi un raddoppio in pochi anni, poiché la fiction e la serialità, generi tipicamente a “utilità ripetuta” (cioè capaci di generare “library”), sono stati generi commissionati sempre più da player nuovi. Un tempo la fiction era prodotta solo da Rai e Mediaset. Poi è arrivata Sky. Poi sono arrivate le piattaforme. Non si tratta però solo di un cambiamento quantitativo. Con Sky, per esempio, è nata in Italia la serialità cosiddetta “high-end”, ovvero dai grandi valori produttivi e investimenti, capace di andare oltre il mercato domestico nazionale (si pensi a “Gomorra”, a “The Young Pope” e via dicendo). Anche gli operatori più tradizionali hanno seguito questa tendenza: la Rai per esempio ha prodotto, con HBO, “L’amica geniale”, che ha portato l’Italia sui palinsesti americani. Insomma, grande vitalità, potremmo dire un certo “Rinascimento” della fiction. Il settore dell’unscripted appare più stagnante, almeno all’apparenza. Sembra che le reti ripropongano sempre le stesse cose, e gli stessi format. Anche se – e nell’Annuario si vede bene – delle novità ci sono, col grande sviluppo del factual e la crescita forte del documentario. Le stesse piattaforme, che si sono mosse in primis sulla fiction (si pensi a “Suburra” di Netflix), più recentemente hanno sviluppato anche prodotti di intrattenimento e in generale generi unscripted. La Tv italiana è sempre un po’ un “gigante dormiente”, potrebbe avere grandi potenzialità ma si tende a rischiare poco, le novità vengono subito cancellate se non hanno un riscontro immediato, si lavora poco sullo sviluppo dei prodotti…

Chi, in questi due settori, ha fatto la parte del leone, in termini produttivi, e chi ha “guadagnato” di più negli ascolti tra le reti generaliste, le semigeneraliste e le tematiche?

Nel corso degli “anni pandemici” (2020, 2021) è successa una cosa molto particolare, unica nella storia della Tv, ma anche comprensibile (tutti l’abbiamo percepito): c’è stata una crescita generalizzata degli ascolti di tutte le reti. Chiusi in casa coi lockdown, impauriti per la pandemia, abbiamo consumato moltissima TV lineare, e naturalmente anche i consumi in streaming sono cresciuti. Si è trattato di un consumo un po’ “drogato”, e solo all’inizio della scorsa stagione, nell’autunno del 2021, le cose sono tornate alla normalità. Da allora la Tv lineare ha perso un po’ di ascolti, nel complesso, anche rispetto al periodo pre-pandemico. Ma questo è accaduto anche perché i consumi si sono fatti più complessi e variegati (con lo streaming), c’è stato un caldo record soprattutto dalla primavera in poi… In generale, direi che le reti che più hanno guadagnato sono quelle che sono entrate in sintonia con lo spirito del presente, perché la Tv è “qui e ora”. Penso alle reti più orientate all’informazione, come Rete4 e La7, ma penso anche a Rai1, che ha vinto con la fiction (un medical come “Doc nelle tue mani”, per esempio), o a Canale 5, coi reality che hanno tenuto bene.

Per ovvi motivi, l’informazione ha registrato un notevole successo, con risultati di gran lunga superiori al periodo pre-Covid. Quali reti ne hanno beneficiato maggiormente? Che ruolo hanno avuto i talk in quest’ambito, anche se non appartengono propriamente alla categoria delle news, ma al macrogenere dell’unscripted?

Dell’informazione in generale già si diceva, ma sono stati soprattutto i talk a crescere. Almeno in due sensi. Sono cresciuti in termini di titoli e di volti, penso per esempio al grande lavoro che ha fatto Rete4, con titoli come “Controcorrente” o “Zona Bianca”. Ma sono cresciuti tutti, o quasi tutti, in termini di ascolti. Segno della grande necessità di approfondimento che ha accompagnato un periodo così complesso, prima con la pandemia, poi con la guerra, e poi con la crisi del governo Draghi e le elezioni politiche. Il pubblico del talk è ormai ampio e articolato, certo ha anche alcune caratteristiche di fondo: è adulto, talvolta anziano, è mediamente più istruito, un po’ più maschile che femminile. Anche se ci sono programmi che modificano un po’ queste caratteristiche. Quella dei talk di approfondimento, soprattutto politici, nelle fasce pregiate, come la prima serata, è una specificità italiana, specie in queste dimensioni (numero di titoli e ascolti). Vedremo se il genere continuerà a funzionare anche in futuro, siamo pronti a monitorare l’evoluzione dei generi nei prossimi Annuari.

Perché il genere fiction/film ha avuto, sulle reti generaliste in prime time, ascolti (relativamente) modesti rispetto all’informazione, all’intrattenimento e allo sport?

In verità queste macro-etichette vanno un po’ interpretate. Nell’area dello scripted (fiction, film, serialità) c’è davvero un po’ di tutto. La fiction di produzione italiana, specie quella targata Rai, va in realtà benissimo, è uno specifico fondamentale dell’offerta TV. Il cinema è un po’ onnipresente (reti generaliste, ma anche reti tematiche), spesso è usato da tappabuchi, e tendenzialmente ha ascolti più limitati e frammentati. Ovviamente questo non vale quando si sta parlando di prime tv. Però, certo, la Tv nella pandemia è stata soprattutto una televisione fatta di informazione: campioni di ascolti sono stati i TG, gli approfondimenti, gli speciali. E come si diceva, i talk sono andati molto bene, funzionano perché fanno buoni ascolti e costano poco agli editori.

Come si profila la Total Audience, e cosa è emerso da questa nuova misurazione degli ascolti TV su device connessi in rete?

La Total Audience è la vera grande novità di questi anni. Perché la Tv si vede ancora in grande parte sul televisore tradizionale, ma ormai la Tv è ubiquitaria, si vede sul pc, sul tablet, sugli smartphone. Ed era necessaria una misurazione delle nuove abitudini degli italiani legate anche a cambiamenti strutturali dell’offerta (pensiamo per esempio che da due stagioni il calcio della Seria A passa su una piattaforma come DAZN). La cosa che più colpisce analizzando la Total Audience è il grande spazio di opportunità, solo parzialmente sfruttato, per gli editori tradizionali, ovvero le reti. La tv lineare resta centrale in Italia, anche se i consumi stanno cambiando. Ma centrali sono sempre i contenuti: gli editori avrebbero la possibilità di sfruttare molto di più le possibilità di costruire audience “convergenti”, che seguono prodotti e volti sia sulla lineare che sui diversi spazi on-line. Il punto è che ci vorrebbe uno sforzo ideativo e di investimento in più. Pensare contenuti potenzialmente “transmediali”, cercare di sfruttare appieno il fatto che consumare la tv diventa sempre più una attività contornata di altri schermi, come smartphone e tablet. Solo in pochi sfruttano appieno queste opportunità, che richiedono di ripensare il ruolo di editore televisivo.

Potrebbe fornire una definizione di social TV e parlarci del suo aumento esponenziale nell’annata televisiva considerata?

La social TV non è né più né meno che un esempio di convergenza fra TV e social media. I contenuti televisivi “esondano” sui social media, sia attraverso ulteriori contenuti creati ad hoc dagli editori sia tramite l’attività di commento, discussione, “engagement” dei pubblici. Ogni contenuto sviluppa modelli di social TV diversi. I talk, per esempio, si prestano bene a attività di commento fra le nicchie di Twitter. I programmi più popolari possono essere in grado di generare delle vere e proprie appendici attraverso le pagine social dei programmi, su Facebook o su Instagram. Oggi si sta molto attenti alla misurazione di questi fenomeni di social TV. Quali programmi generano più “engagement” (like, re-tweet, condivisioni…) sui social? Di fatto quelli che curano editorialmente meglio le proprie attività social: penso per esempio a “Che tempo che fa”, che arricchisce di contenuti i propri spazi, o “Le iene”, o i programmi realizzati dalla factory di Maria De Filippi. La social TV è importante perché dimostra una volta per tutte che il consumo di tv non è affatto passivo, ma genera attività di ogni tipo, rese visibili dai social media. Oggi è importante misurare tutto questo per avere una idea realistica di come funzionino i consumi mediali.

MARIA GRAZIA FALÀ