Skip to main content

L’innovazione democratica secondo Michele Sorice

 

L’innovazione democratica secondo Michele Sorice

In un libro lo studioso spiega questo concetto

ancora poco noto in Italia

 

Un tentativo di spiegare cosa si intende per innovazione democratica, concetto poco conosciuto finora in Italia. E poi, fresco di stampa, un contributo a più mani, con un taglio più accademico, che tenta di coniugare metodi di ricerca finora considerati antitetici da applicarsi a più discipline, come la scienza politica e le comunicazioni di massa. Sono questi i due ultimi libri, complementari, pubblicati da Michele Sorice, ordinario di Innovazione Democratica alla LUISS di Roma.

Nel 2016 lei ha scritto con Emiliana De Blasio Innovazione democratica. Un’introduzione, edito dalla LUISS University Press. Cosa s’intende per innovazione democratica?

Innovazione democratica è un concetto che, prima di essere accademico, ha notevole rilevanza politica: nonostante ciò, esso in Italia non sembra ancora avere un chiaro statuto scientifico. Esiste invece una tradizione di lingua inglese e nord europea, ormai viva da qualche anno, che considera l’area delle cosiddette Democratic Innovations, e cioè di quelle forme organizzative che ri-progettano le istituzioni in funzione di una partecipazione piena e consapevole dei cittadini alla cosa pubblica. Si tenta cioè di analizzare come è possibile incrementare la partecipazione sociale e politica dei cittadini migliorando la qualità della democrazia, aumentando non solo la logica partecipativa, ma anche il potere decisionale dei cittadini stessi.media_poklitica

Esistono esempi di innovazione democratica in altre nazioni?

I primi esperimenti consolidati sono già degli anni Ottanta, dalle “giurie dei cittadini” (citizen’s juries) agli esperimenti di bilancio partecipativo di Porto Alegre, in Brasile, che ha rappresentato – anche simbolicamente – una sorta di punto di partenza delle pratiche partecipative. L’esperienza di Porto Alegre inizia già nel 1989, anche se ha poi avuto una grande risonanza internazionale fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila. In Francia, poi, esiste la tradizione del cosiddetto Débat public, anch’esso un tentativo istituzionalizzato di aprire a una maggiore partecipazione dei cittadini. In Italia siamo un po’ indietro, sia per quanto riguarda le pratiche di partecipazione (che però stanno aumentando), sia per quanto riguarda gli studi sul tema.

Quest’anno lei ha scritto un altro testo, sempre a più mani, (E. De Blasio, M. Quaranta, M. Santaniello, M. Sorice), dal titolo Media, politica e società: le tecniche di ricerca (editore, Carocci). Si tratta del suo secondo amore, le tecniche di ricerca sociale nella comunicazione tout court?

Rispetto all’altro il libro quest’ultimo è forse più accademico, e parla di tecniche di ricerca sociale qualitative, quantitative e di quelli che vengono definiti “mixed methods”. Le prime sono quelle che adottano strumenti non necessariamente numerici o statistici (ma che hanno comunque standard definiti e non sono affatto impressionistiche); le seconde hanno il loro punto di forza nell’adozione di strumenti statistici o di analisi matematica; i mixed methods, infine, sono quelli che combinano approcci diversi allo scopo di studiare la realtà in maniera più profonda. Lo sforzo che abbiamo fatto è stato quello di superare la netta cesura che esisteva in passato tra i diversi approcci ma anche fra metodi di ricerca radicati tradizionalmente in alcune discipline. Abbiamo cercato, cioè, di metterle insieme e di considerarle con un’ottica più moderna. Volevamo fornire a studenti, ricercatori e professionisti delle indicazioni su come si possano usare insieme approcci differenti dentro precisi protocolli scientifici. Il secondo elemento di rottura concettuale, se possiamo dire così, è rappresentato dall’abbattimento delle barriere fra le varie discipline delle scienze sociali: dalla sociologia alla scienza politica fino ai media studies. Abbiamo infatti cercato di invitare all’uso congiunto dei diversi metodi di ricerca evitando compartimenti stagni. L’idea è stata quella di dialogare, tant’è vero che gli autori del libro sono persone che si occupano di cose vicine ma diverse tra loro.

Cosa ne pensa della politica sul web? Può essere considerata un argomento di studio?

La comunicazione politica sul web è un tema importantissimo ma è necessario non cadere nel banale. Penso ad esempio ad alcuni studi sulla rilevanza di Twitter misurata sulla base dei numeri di retweet: talvolta la ricerca si è concentrata in modo semplicistico su questi aspetti. Più importante, invece, studiare come la sfera digitale diventa uno degli spazi pubblici interconnessi in cui si definiscono forme di consenso e di legittimazione politica.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

 

L’Antieroina – Intervista a Milly Buonanno

 


 

Una volontà di illustrare una nuova figura, quella della woman behaving badly, che si sta affermando nella televisione globale, non solo generalista. Poi, l’antieroina come liminale, border line, che infrange numerosi tabù maschilisti come la sete di potere, la violenza, la criminalità. Inoltre, una struttura di sentimento che ha permesso tutto ciò perché sta cambiando il climate of opinion, forse complici le situazioni attuali con un maggior senso del rischio, del terrorismo.

Infine, una figura, quella della donna criminale, limitata in Italia ai prodotti nostrani, perché le serie TV trattate nel libro, anche se in parte passate sugli schermi italiani, non hanno quasi lasciato il segno.

Di questo ha parlato Milly Buonanno, già professore di Sociologia dei processi culturali alla Sapienza di Roma nonché direttore dell’OFI (Osservatorio sulla Fiction Italiana), a proposito del suo Television Antiheroines. Women Behaving Badly in Crime and Prison Drama, antologia, da lei curata, ed edita nel 2017 da Intellect.

Quali assunti intende dimostrare, in sintesi, il suo libro?

Innanzitutto il mio libro non intende essere una glorificazione in chiave femminista delle figure delle donne criminali. La mia intenzione è stata quella di portare all’attenzione un fenomeno, quello delle antieroine, che ha caratterizzato gli anni 2000 e che però era passato piuttosto inosservato, messo in ombra dalla glorificazione della figura maschile dell’antieroe. Insomma, ho voluto illustrare i cambiamenti significativi delle politiche delle rappresentazioni del femminile in TV e sostenere che le donne nella televisione del presente e del futuro, in quanto esseri umani, devono essere presentate nella gamma completa delle espressioni dell’umanità, nel bene e nel male.

 

Per quale motivo si afferma la donna criminale, l’antieroina, qualche anno dopo serie TV come I Soprano e Mad Men?

La mia idea, espressa nel libro anche dalle mie collaboratrici, è che l’antieroina non è venuta dopo, perché per qualcuno la protagonista di Sex and the City era già una figura femminile antieroica seppure non criminale. Solo dopo l’attenzione è caduta su questo fenomeno perché per i primi anni del 2000 e per il primo decennio il focus è stato fortemente concentrato sulle figure maschili, del resto protagoniste in particolare delle serie TV USA che raccoglievano non tanto audience, quanto critiche positive, anche dal mondo accademico.

L’antieroe è sempre esistito, e si fa risalire ufficialmente all’’800 con Dostoevskij, sebbene era presente anche prima. La figura antieroica rispetto all’eroe è più umana, e tendiamo a riconoscerci meglio in essa perché non si immedesima totalmente né con il buono, né con il villain. È caratterizzata, anche per quanto riguarda i personaggi femminili, da una posizione liminale, di border line, e ciò consente una identificazione senza il senso di inferiorità che i grandi eroi danno e neanche quel senso di colpa che i cattivi provano.

I personaggi femminili di cui parliamo nel libro sono esattamente così, risultano attraenti pur essendo violenti e criminali, perché comunque figure sfaccettate. Questa è, appunto, la ragione per cui sono interessanti non solo a livello accademico, ma soprattutto femminista: non è un caso che il nostro è un testo a cui hanno collaborato delle studiose che sono nomi significativi nella scholarship femminista internazionale. Quello che ci interessa da questo punto di vista è che la figura dell’antieroina rompe il cosiddetto dualismo di genere, per cui le donne sono materne, non aspirano al potere, non usano la violenza, e così via. Per questo l’antieroina è più antirivoluzionaria dell’antieroe, perché rompe gli stereotipi di genere, in quanto trasgredire e usare la violenza sono cose sempre riconosciute di pertinenza dei maschi. Essa infatti infrange un’infinità di tabù: la norma sociale della legge, le norme di genere, perché si appropria e mette a nudo prerogative storicamente riconosciute solo ai maschi, e poi, nel caso da noi scelto, le criminali, infrangono anche vittoriosamente le norme interne ai mondi devianti, come la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta, totalmente maschilisti.

Si può dire che il sorgere di antieroine televisive va correlato a una emergente struttura di sentimento che sta cambiando?

Non è qualcosa che non è mai avvenuto nella storia culturale, perché gli antieroi, soprattutto maschi, esistono da tempo, e hanno sempre suscitato un loro fascino. Tuttavia, alla fine del Novecento e all’inizio di questo millennio c’è stato un desiderio maggiore da parte delle persone di confrontarsi con gli aspetti più cupi, anche se non necessariamente criminali, dell’animo umano. Ciò forse ha anche a che vedere con il clima complessivo nel quale ci troviamo, il senso del pericolo, del terrorismo: c’è qualcosa nell’aria che crea, alimenta questa struttura di sentimento.

Nel suo libro lei dice che il modello delle women behaving badly non è limitato, nel mondo, al solo fenomeno delle TV narrowcasting, cioè non generaliste. Ce ne potrebbe fornire qualche esempio?

Di norma negli anni 2000 (ma è stato un po’ sempre così) quando si parla di novità in campo televisivo, il focus è innanzitutto la TV USA e all’interno di questa le TV via cavo e le piattaforme in streaming. Il fenomeno delle bad girls è invece globale: l’antieroina non esiste solo nella TV statunitense, e ciò è un altro elemento di differenziazione rispetto alla figura dell’antieroe, fenomeno soprattutto americano. L’antieroina si trova ovunque, in serie TV francesi, olandesi, australiane, brasiliane. Potremmo incominciare, caso più unico che raro, dall’Italia stessa, con la figura di Rosy Abate, l’antieroina di Squadra antimafia, in onda su Canale 5 dal 2009. Lo stesso si può dire di Penoza, serie TV trasmessa su una rete pubblica olandese, la NPO 3, dal 2010 al 2015, e così via.

Qual è il ruolo delle TV italiane, generaliste e no, nel produrre questo tipo di fiction?

Per quanto riguarda la produzione, essa è ancora un fenomeno estemporaneo e limitato a due soli esempi: Rosy Abate, la protagonista di Squadra antimafia e, in Gomorra, Imma Savastano, la moglie del boss Pietro che, pur non essendo la protagonista, ha sempre un ruolo di potere determinante nelle sorti della famiglia. Anche nella seconda serie di Gomorra una volta messa a morte, nella prima, questo personaggio, non c’è una figura femminile con lo stesso peso.

Qual è il ruolo delle TV italiane nell’importazione di fiction che parlano di antieroine?

Anche se alcune le ho viste, oltre che in originale, pure su canali italiani, non hanno suscitato grandi reazioni sotto quasi nessun punto di vista. Questo è anche comprensibile perché il pubblico nostrano, per quanto pienamente accostumato alla fiction USA, ha la propria enciclopedia, costituita su modelli estetici in cui tali figure di antieroine criminali sono ingombranti. Nonostante questo, un personaggio come Rosy Abate ha creato un fandom notevole.

MARIA GRAZIA FALÀ

Articolo correlato di Silvana Mazzocchi
sulla rubrica PASSAPAROLA – Repubblica.it
Antieroine in tv, un’antologia fotografa il fenomeno

Tv Talk: “Sono uno dei fondatori dell’esperienza” – Intervista a Giorgio Simonelli

 

Giorgio Simonelli parla delle sue attività

come blogger, opinionista e ricercatore a Rai e Mediaset

Tv Talk: Sono uno dei fondatori dell’esperienza


È bello sentirsi riconosciuti per strada, anche se molti non lo ammettono perché “non fa fine”. Inoltre, studiare mass media significa anche fare divulgazione, perché i media, appunto, fanno parte della vita sociale e politica di una nazione. E, se i giornali non riportano interviste a esperti del settore, “è ora che si sveglino”. Poi, “pontiere” tra due “chiese”, Rai e Mediaset, per aver lavorato per entrambe? Definizione troppo esagerata, a parere dell’intervistato. Infine, un progetto in cantiere, una ricerca accademica sui “due” Montalbano, quello giovane e quello meno giovane. Queste, in sintesi, le dichiarazioni emerse da una chiacchierata con Giorgio Simonelli, docente di Giornalismo radiofonico e televisivo all’Università Cattolica di Milano, e dal 2002 opinionista di Tv talk, trasmissione dedicata alla comunicazione e in onda su Raitre tutti i sabati pomeriggio.

La sua attività accademica, tranne alcuni saggi, si ferma al 2014, con il suo “Il vestitino. Le buone regole dell’intervista televisiva”, composto con Federica Annecchino e Emanuele Corazzi per la casa editrice L’Ornitorinco. Perché questa scelta?

Perché i libri nascono da alcune occasioni importanti, come quella, quando due giovani collaboratori mi avevano spinto a trasformare in un libro delle lezioni, tenute alla Cattolica, da giornalisti che erano bravi intervistatori. Poi, nessun’altra occasione significativa: siccome non ritengo giusto fare libri solo perché l’attività accademica lo impone, allora sto aspettando un’altra buona occasione per scrivere. La prossima idea dovrebbe essere un lavoro incentrato soprattutto sul confronto tra le due serie dedicate a Montalbano, Il giovane Montalbano e quella classica. Per ora, però, si tratta solo di un’ipotesi.

Lei da quattro anni tiene un blog su “Il fatto quotidiano”, dove parla di televisione, e dal 2002 è consulente e opinionista di Tv Talk. Come valuta queste due esperienze?

Sono molto diverse tra loro. Quella del blog (rarissimamente scrivo sul cartaceo de “Il fatto quotidiano”) dà un grandissimo piacere, nel senso che chi è abituato come me a scrivere sostanzialmente saggi, che hanno un esito a distanza di molti mesi, qui ha l’immediatezza nelle risposte, spesso anche molto aggressive.

Qual è invece la sua storia a “Tv talk”?

“Tv Talk” ha una storia lunghissima: nasce con il nome “Il grande talk” nel 2001 ed è una creazione di Sat 2000, TV che ora si chiama TV 2000 e che è la TV della CEI e dell’Università Cattolica. Allora io ero il delegato della Cattolica a portare sul teleschermo un dibattito scientifico. Poi, ecco un provino di Minoli, che lo fa diventare un programma vero, prodotto da Sat 2000 e acquistato da Rai Educational. Infine, nel 2006 Rai Educational e TV 2000 si separano, TV 2000 continua a fare “Il grande talk” e la Rai crea “Tv talk”, di cui sono sempre stato l’opinionista e perciò, quando ho qualche contrasto con la redazione, dico sempre “Io sono uno dei fondatori dell’esperienza”. E’ stata infatti una cosa nuova che ha avuto un grandissimo successo: oggi è prodotto direttamente da Raitre ma anche fino all’anno scorso, quando era prodotto da Rai Educational, “Tv talk” era un programma visto da circa un milione di spettatori, bel risultato per un programma di tipo didattico – culturale. Inoltre, diventare uno che è riconosciuto in quanto va in Tv è una cosa che piace a tutti, anche se alcuni non lo vogliono dire perché “non fa fine”.

Non c’è un conflitto d’interesse tra la sua attività universitaria e quella di “critico militante”?

Assolutamente no. Se una ricerca accademica sui media, a differenza, diciamo, della filologia dantesca, non entra nel dibattito pubblico, non ha senso. Il ruolo dell’accademia nello studio sui media infatti è quello di dire cose che contano per la vita pubblica, per la società civile.

Ancora infatti un comunicatore non va su un giornale…

I giornali dovrebbero svegliarsi un po’, visto che oltretutto non se la passano tanto bene, e capire dove sbagliano.

Lei ha lavorato per l’Osservatorio delle tendenze sociali e culturali di Mediaset, nonché per la Direzione strategie tecnologiche della Rai. Non si è sentito un po’ diviso tra questi due mondi, oppure si pone come “pontiere”?

Non ho mai preteso di fare il pontiere. A Mediaset, dove la cosa può sembrare originale vista la sua immagine “effimera”, capita che ci siano uffici e persone illuminate, interessate alle dinamiche culturali. Quando ho lavorato lì erano gli inizi del millennio: all’ufficio marketing c’erano due dirigenti, Gian Paolo Parenti e Stefano Gnasso, che decisero di fare delle indagini sui consumi culturali degli italiani e me ne affidarono la direzione. In proposito sono usciti due libri, “Tendenze 2003. La società italiana dopo l’11 settembre” (Edizioni Il Sole 24 Ore, 2002), e “La fine della meraviglia. Media, comunicazione, società italiana” (Editori Riuniti, 2004), entrambi a cura di Gian Paolo Parenti e Stefano Gnasso. Purtroppo però chi mette le mani in queste cose qualche volta va a fare altro, e quindi si perdono delle occasioni. La mia prima collaborazione risale comunque al 1997 – 98, quando Mediaset aveva deciso di fare dei monitoraggi per vedere se c’erano delle violazioni delle regole della fascia protetta. Allora si faceva tutto in segreto anche all’interno di alcuni settori di Mediaset stessa, perché lì non dovevano sapere che analizzavamo i loro programmi.

Alla Rai, dove ho lavorato dal 2005 al 2010 come consulente, abbiamo fatto moltissime ricerche sulla radio e, nel 2009, sotto la mia consulenza e per la regia di Luigi Ciorcioloni, è stata fatta la prima ripresa di uno spettacolo teatrale in alta definizione, la “Lulù” di Carlo Bertolazzi, progetto poi rimasto in un cassetto perché non trasmissibile su una TV generalista (allora non c’era infatti Rai 5).

Qual è il ruolo di due TV generaliste come Rai e Mediaset e i canali pay come quelli di SKY e, fenomeno nuovo, Netflix?

È difficile dire qualcosa perché si sta ridefinendo un po’ tutto. Le reti generaliste sono date per anacronistiche. Mediaset oggi ha delle difficoltà perché non ha più l’immagine di novità degli anni ‘80 e ’90, la Rai rappresenta invece la tradizione. Mediaset prima si è trovata scavalcata da SKY, ed ora addirittura anche SKY si vede scavalcata da Netflix. Io credo che la multipolarità in Italia, in quanto paese di anziani, durerà molto. Poi se avanzeranno le nuove piattaforme gli altri dovranno adeguarsi, però ognuno con la propria identità. In fondo per ora Netflix, per quanto molto “parlata”, occupa un’area assai ridotta, mentre attualmente Montalbano in replica fa dieci milioni di telespettatori.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“Evitiamo che gli ospiti dei talk show diventino una compagnia di giro” – Intervista a Edoardo Novelli

 

“Evitiamo che gli ospiti dei talk show

diventino una compagnia di giro”

 

novelli_big

Una passione per la comunicazione politica che è di vecchia data, e una maniera di vedere, in questa arena, non più la tradizionale dicotomia destra/sinistra, ma quella tra televisione e politica. Poi, un modo di considerare il talk show come un “macrogenere”, che accoglie politica, ma anche attualità, gossip, cronaca, molto spesso in un unico programma. Di questo ed altro ha parlato con noi Edoardo Novelli, docente di Comunicazione politica all’Università degli Studi Roma Tre, a proposito del suo ultimo libro, “La democrazia del talk show. Storia di un genere che ha cambiato la televisione, la politica, l’Italia”, edito da Carocci nel 2016.

Nel suo lavoro lei ha parlato di telepolitica come di quel macrogenere che comprende talk show esclusivamente politici, programmi di informazione giornalistica, di infotainment, ecc.. Cosa aggiungerebbe al suo libro a un anno di distanza dalla sua pubblicazione?

Sostanzialmente non è cambiato molto. C’è stato un dibattito nel corso degli ultimi due anni sul talk show, sulla sua ibridazione in senso social, sulla crisi o meno del suo linguaggio. Ciò è soprattutto legato alla nuova dirigenza Rai con Monica Maggioni, presidente, e Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale che, almeno da un punto di vista nominalistico, ha puntato molto sul cambiamento della narrazione nel cercare nuovi modelli per raccontare la realtà.

Molti predicono la morte del talk show, ormai inflazionato. Lei è d’accordo?

Se consideriamo il “macrogenere” del talk show, tra cui rientra quello politico, mi sembra che sia tutt’altro che in crisi, anzi, è sempre presente e sempre proposto per vari motivi: semplicità produttiva, economicità dei costi, collateralismo con il sistema politico, che ha sempre guardato con attenzione a questa forma di programma. Infatti la politica e gli stessi suoi leader che hanno decretato (Renzi per primo) che il talk show era morto, per primi lo hanno frequentato con grande assiduità. La politica moderna, quella della mediatizzazione, della personalizzazione, ha assolutamente bisogno di questi spazi.

Qual è l’interazione tra social media e talk show?

Alcuni talk show, anche se recenti, rimangono fedeli a formule già sperimentate: per esempio su La7 Giovanni Minoli il sabato sera da circa tre mesi ripropone il suo storico “Faccia a faccia”, e quello è un talk show relativo, perché è una classica intervista giornalistica. Ci sono poi talk serali come “Di martedì” con Giovanni Floris, sempre su La7, che è un salotto, anche se è cambiato trasformandosi da un salotto unico con ospiti fissi per tutta la puntata a una specie di rubrica, molto lunga, con la necessità di cambiare argomento, data la durata del programma, tre ore.

Oltre a queste forme tradizionali di talk show, ve ne sono altre più innovative. L’ultimo è ad esempio “Carta bianca”, il recente programma di Bianca Berlinguer su Raitre, che utilizza una società di ricerca per monitorare un gruppo d’ascolto che costantemente esprime una valutazione via social delle performance degli ospiti in studio. Questa è una classica forma di ibridazione già iniziata alcuni anni fa con “Il confronto”, programma appunto di confronto fra leader politici in onda su SKY. Questa trasmissione nel 2013 mandò in onda il dibattito tra Pippo Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi, candidati alla segreteria del PD, in una location all’interno dello studio di “X Factor”: il pubblico poteva votare con delle App, le stesse sperimentate per “X Factor” per valutare le performance dei cantanti. L’interazione con la rete si sviluppa poi con il fenomeno del “second screen”, cioè all’interno della rete con l’abitudine al commento e all’analisi del programma sui social. Si guarda infatti o in Tv o direttamente sull’iPad il programma e poi parallelamente si interviene, si interagisce sui social. Il fenomeno è esploso quando nel 2013 a “Servizio pubblico” (La7), condotto da Michele Santoro, nella puntata del famoso incontro di Berlusconi con Travaglio, si è registrato un picco nel traffico sulla rete.

Qual è il ruolo di un talk “serio” come “Otto e mezzo” di Lilli Gruber e di uno più leggero come “L’Arena”?

La definizione di talk seri o leggeri non dice molto: diciamo che l’uno ha un formato più strettamente giornalistico, l’altro no. “L’Arena” nasce nel 2004 – 05 come uno spazio interno a “Domenica In”, poi con il tempo si conquista una sua autonomia. Prima era un luogo dove la politica non entrava: la trasmissione era assai autoreferenziale, parlava molto dei principali fenomeni televisivi, da “Il grande fratello” a “L’isola dei famosi”, poi man mano ha iniziato a far entrare la politica. Alle elezioni del 2013 “L’Arena” ha visto tutti i principali leader politici presenti, con alcuni momenti di discussione molto duri, come il famoso fronteggiarsi tra Giletti e Berlusconi che voleva andarsene via dalla trasmissione.

Il modello della Gruber (La7) è stato invece sempre fortemente giornalistico, rigido, strutturato, con dei giornalisti, due ospiti e un servizio, quello di Paolo Pagliaro, che funge quasi da editoriale. Non si tratta quindi di serietà di un modello rispetto a un altro, ma di formati.

“Otto e mezzo” presenta poi sempre gli stessi intervistatori – opinionisti come Paolo Mieli, Marco Travaglio, Andrea Scanzi, Marco Damilano. A cosa attribuisce tutto ciò?

Ormai ci sono personaggi che sono dei professionisti dei talk show. A seconda della rappresentazione mediatica che si fa ci sono attori che funzionano di più e altri di meno. Essendoci un’inflazione di questo “macrogenere” in Italia, è ovvio che i personaggi sono sempre gli stessi e il rischio è che diventino un po’ una compagnia di giro. C’è poi scarso investimento nella ricerca di personaggi nuovi: se calano gli ascolti la trasmissione viene cancellata. C’è l’esperienza di “Politics”, talk show condotto da Gianluca Semprini (Raitre), un programma nato alla fine del 2016 come novità della stagione di Campo Dall’Orto, come nuova narrazione della politica, ma che è fallito e che ha chiuso dopo neanche una decina di puntate, sostituito da “Carta bianca”.

Si ricorre quindi ai soliti, anche se ogni programma cerca di curarsi una scuderia propria e, sebbene alcuni sono personaggi trasversali a vari programmi, altri li troviamo solo in alcuni: non vedremo mai per esempio Marco Travaglio andare a “Porta a porta”.

Come valuta la nuova proposta di Michele Santoro, “Italia” (Raidue), in onda dal 2016 senza una cadenza stabilita e che esce dalle pure logiche della piazza?

Dalle puntate che ho visto direi che Santoro è molto ritornato all’intervista: lui non era mai stato dentro lo studio ma ha sempre avuto l’idea di aprire, prima con i collegamenti, le piazze, i monitor, ora con questi servizi. “Italia” mi sembra una formula interessante che ha fatto anche dei buoni ascolti. Comunque tutti più o meno stanno cercando di scappare dalla formula di tre ore di salotto televisivo: “Otto e mezzo” funziona perché dura mezz’ora, così come “In mezz’ora”, il programma domenicale di Lucia Annunziata in onda su Raitre. Oltretutto, dopo i governi di coalizione dal 2013, non esiste più una dicotomia destra – sinistra, e quindi è estremamente difficile comporre un salotto di antagonisti che si fronteggiano.

 

MARIA GRAZIA FALÀ