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Mihaela Gavrila: “Le scandalose, storia di criminali italiane”

 

“Le scandalose, storia di criminali italiane”

Presentato a Roma, al CORIS, un docufilm di Silvana Mazzocchi e Paola Pistagnesi che rievoca dagli archivi sette casi di cronaca nera al femminile

“La donna trasforma il minimo contrasto nella lotta per la vita in odio, e l’odio in delitto”. Con queste parole di Cesare Lombroso si apre il docufilm Le scandalose/Women in Crime, una produzione dell’Istituto Luce che rovescia l’idea del crimine come appannaggio solo maschile, e che ripercorre, attraverso sette storie, le vicende di sette donne criminali, che hanno agito dal 1939 al 1975. E qui, come sottolinea Mihaela Gavrila, non si parla di donne di potere della fiction transnazionale, che entrano nell’immaginario televisivo pur essendo women behaving badly, come quelle illustrate nel libro Television Antiheroines curato da Milly Buonanno. In questo caso si tratta di fatti veri, che una produzione autoriale ha saputo tirar fuori dalla memoria collettiva, ma spesso dimenticata, degli archivi. Di questo ed altro ha parlato Mihaela Gavrila, docente di Cultura e Industria della Televisione in margine a un seminario organizzato a Roma il 3 maggio dal CORIS (Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale). Nella giornata è stato proiettato Le scandalose/Women in Crime, un docufilm del 2016, già presentato a ottobre alla Festa del Cinema di Roma, e scritto a due mani da Silvana Mazzocchi e Paola Pistagnesi (regista, Gianfranco Giagni).

Quali sono i tratti portanti del film?

Questo docufilm, prodotto e distribuito dall’Istituto Luce, verrà distribuito prevalentemente nei festival, per ora senza passare per le sale. È un mediometraggio o poco meno (dura circa un’ora), e affronta la questione delle donne criminali, la cronaca nera, che si presenta al contrario di quella attuale che vede le donne vittime. Qui, anzi, la premessa è quasi una premessa di empowerment femminile: le donne si comportano come gli uomini anche dal punto di vista della criminalità. La frase iniziale da cui parte il docufilm è una frase di Lombroso, del 1927, contenuta nel suo libro La donna delinquente, che dice “La donna trasforma il minimo contrasto nella lotta per la vita in odio e l’odio in delitto”. Si suppone quindi che la donna può essere delinquente e il movente della delinquenza è l’odio, nel momento in cui non riscontra una soddisfazione adeguata.

Eppure Milly Buonanno nel suo libro da lei curato di recente, Television Antiheroines, diceva che le women behaving badly si sono affermate da poco nell’immaginario collettivo delle serie televisive…

Qui c’è un percorso diverso, perché la Buonanno parla delle donne antieroine che stimolano l’ammirazione del pubblico anche perché sono personaggi di finzione. In questo caso vi sono donne realmente criminali, che uccidono per molti motivi, quelli trattati nel libro di cui sopra sono donne con un certo potere contrattuale, che diventano boss, personaggi anche rilevanti in un mondo di uomini.

Milly Buonanno afferma inoltre che la figura dell’antieroina comincia a formarsi da poco, mentre la criminale esiste da sempre, secondo Lombroso, e questo sembrerebbe andare contro la mainstream che sostiene che la donna criminale si è affermata solo negli ultimi anni…

Il documentario si basa molto sulla ricostruzione dell’Italia che esce dalla guerra, dal fascismo, dove la cronaca nera era censurata, perché l’idea che si voleva restituire dell’Italia era quella di un’Italia sicura, e ancor meno passava la cronaca nera della criminalità al femminile. L’uscita da questo periodo sembra che scateni anche una serie di casi di criminalità femminile che viene confusa anche con un percorso emancipatorio della donna.

Come hanno proceduto nella costruzione del docufilm le autrici?

Silvana Mazzocchi, giornalista e scrittrice, e Paola Pistagnesi, soprattutto critica cinematografica e sceneggiatrice di fiction, oltre che giornalista, si concentrano su sette casi, che vanno dal 1939 al 1975. Sono eventi che un po’ si narrano da soli, un po’ vengono ricostruiti con passaggi della stampa dell’epoca, con immagini dell’Istituto Luce, in parte anche con riprese fatte al Museo del Crimine di Roma, al Palazzo della Cassazione a Roma, e con sequenze girate al manicomio criminale di Aversa, chiuso da pochi mesi. Non mancano brani di registi come Luigi Comencini.

Quindi attraversano la contestazione e ne rimangono indenni?

Attraverso queste storie di donne criminali si racconta anche la storia dell’Italia, però la criminalità femminile, la tendenza, oppure la tentazione ad uccidere, si manifestano anche in questa evoluzione sociale e culturale: cambia certamente il tipo di crimine, come cambiano le condanne. Si parte da Leonarda Cianciulli, la saponificatrice, che si presenta più come maga, come quella che doveva risolvere un problema personale come la perdita di quattordici figli (altri ne sono sopravvissuti), e che, per esorcizzare questo suo destino decide di uccidere altre donne, delle sue amiche, come vittime sacrificali.

Ci sono poi delitti come quello delle sorelle Lidia e Franca Cataldi che ammazzano la propria amica e suo figlio per una volpe argentata, omicidi passionali come quello di Rina Fort, che uccide la moglie e i tre figli dell’amante, e della contessa Pia Bellentani, che parte con l’intenzione di suicidarsi dichiarando all’amante la sua delusione d’amore, ma poi lo uccide e vuole ammazzarsi senza riuscirci perché la pistola si inceppa. Tra questi casi c’è anche il delitto d’onore come quello di Pupetta Maresca che uccide per vendicare la morte del marito. Gli anni Settanta vengono scanditi dal caso di Doretta Graneris che porta quasi ai nostri giorni e ai cosiddetti crimini per il nulla, perché lei uccide i familiari solo per il desiderio di risolvere questioni economiche, anche se poi è quella che prova più rimorsi.

Una volontà di filtro della realtà, quindi, attraverso storie criminali a metà tra il testo giornalistico e la fiction, perché casi come questi si prestano a una versione romanzata…

Il crimine era un pretesto per parlare anche di altro, di emancipazione, di evoluzione culturale, anche della condizione dell’infanzia, e tutto ciò è stato ricostruito man mano che si facevano le ricerche negli archivi del Luce, in cui sono stati scoperti materiali straordinari, in particolare dal punto di vista della qualità dell’immagine. Inoltre, i casi raccontati, se presi separatamente e documentati attraverso gli articoli di giornale o le immagini dell’epoca, restano delle schegge di storia della cronaca nera. Invece, messi in quest’insieme, diventano una narrazione attraverso un punto di vista suggerito dalle scelte autoriali. Un prodotto come Le scandalose è un’opera aperta, con moltissime chiavi interpretative: interessante è anche riflettere sul ruolo degli archivi nella fissazione della memoria collettiva, dato che in essi moltissime cose restano sepolte. La responsabilità degli autori, dei media e di quelli che diventano i costruttori della memoria nazionale e collettiva è quella di essere consapevoli del fatto che le loro narrazioni possono oscurare o fare emergere qualcosa: i media possono sequestrare o dissequestrare momenti della storia di un paese.

MARIA GRAZIA FALÀ

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