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Tempo di fiction. Il racconto televisivo in divenire

 

Da Resetdoc.org



Una quality television americana diversa da quella italiana, che si basa sulle miniserie. Una quality television nostrana che può anche valere come good television, e tutto questo in opposizione al panorama statunitense. E poi nuovi scenari nel fictionscape dovuti all’ingresso del narrowcasting e della crossmedialità. Tutto questo e altro in Tempo di fiction. Il racconto televisivo in divenire (Liguori 2013), a cura di Milly Buonanno, miscellanea che raccoglie gli atti del terzo incontro del “Fiction Day della Sapienza” tenutosi a Roma nel 2011.

“Si è soliti chiamare quality television, afferma Milly Buonanno, solo un certo tipo di tv americana che è soprattutto quella delle reti via cavo, molto glamour, stilisticamente sofisticata, esteticamente elevata, con seguito di fan.” Questa tv ha finito sostanzialmente per coincidere con un genere, come per es un poliziesco o un teen – drama. Ma dire qualitytelevision implicitamente comporta anche che si parli di good television, e questo è un giudizio di valore.

Tuttavia nel panorama italiano, anche se non ci sono i canoni tipici di questo genere televisivo statunitense, si può parlare lo stesso di quality television. È il caso delle miniserie che, spesso bollate come antiquate, con un atteggiamento da cultural cringe, portano anch’esse dei valori, sociali, culturali, eccetera. Una serie come la meglio gioventù, di Marco Tullio Giordana, su quarant’anni di storia socio – politica italiana è quality television, ma anche good television, tant’è vero che è stata inclusa dal “New York Times” nella lista dei migliori film distribuiti negli USA nel 2005. Quindi, niente “TV di papà”, come direbbe dispregiativamente Truffaut, mutatis mutandis, parlando di una certa fiction italiana. “Noi nella serialità non siamo forti, prosegue la Buonanno, ma detto questo non è perché non siamo ancora forti nella serialità non abbiamo buona televisione.”

Fiction italiana, dunque. E proprio nell’analisi del fictionscape italiano si differenzia la scuola romana da altre, soprattutto milanesi, che studiano le serie made in USA, con un certo trasporto verso il transatlantic romance, come scrive sempre la Buonanno nel suo saggio, riprendendo le parole di Charlotte Brundson.

E, oltre al contributo citato, che verrà pubblicato in inglese in forma ampliata, spicca il saggio di Silvia Leonzi. Dexter o Don Matteo? E su quali piattaforme? Nella seconda fiction, italiana, rassicurante, un prete “poliziotto” si serve della tonaca quasi come una “coperta di Linus” per arrivare dove altri non arrivano, nella prima un ematologo della polizia di Miami di giorno di notte si trasforma in un serial killer per uccidere devianti. Oltre alla diversa concezione delle due fiction compensative (Dexter un noir, Don Matteo un giallo, Dexter cosmopolita, Don Matteo provinciale), si pone il problema dei canali su cui vanno in onda. Don Matteo è sulle reti generaliste, Dexter prevalentemente su Sky. Sembra quindi che nel primo caso ci si voglia rivolgere a uno spettatore non adulto, da tener fuori “dalla seduzione del male, nascondendo una concezione ancora pericolosamente incline alla concezione dei powerful media.” (Leonzi)

E la diversità, declinata in tutte le sue forme nella fiction di un quindicennio, dal 1996/97 al 2009/2010 viene affrontata in una cursoria analisi quantitativa da Fabio Corsini. La diversità, compresa la devianza, definita come forma generica di disagio sociale, è vista come “problema sociale” che necessita di strategie culturali in grado di integrarla. E se a spiccare sono soprattutto gli elementi di contorno al diverso (genitori, operatori sociali, istituzioni, ecc.), e nella fiction italiana c’è solo qualche timido accenno al diverso come tale.

Ma Tempo di fiction nella seconda parte, stimolante e che si avvicina però più a un work in progress che a certezze definite, affronta i problemi relativi alla cultura convergente (Jenkins). Siamo in un momento di transmedialità ma soprattutto di crossmedialità. Si parla di transmediale in un contributo di Giovanni Ciofalo. Un (raro) prodotto italiano come Romanzo Criminale è transmediale, nel senso che ha al centro di tutto la storia, e attraversa vari media: è un fatto reale poi diventato romanzo, poi film, serie tv. In casi come questi il fruitore, messo al primo posto, sulla base dell’incrocio tra pratiche culturali e tecnologiche, genera “un’esperienza unificata e coordinata, che gli garantisce un’inedita capacità di scelta, azione e interazione. Il punto di partenza non è più uno specifico mezzo (device driven), ma una storia (story driven).” (Ciofalo)

In questo periodo le forme di interazione e di incrocio tra i media generano anche nuove forme di serie tv, nonché nuove forme di fandom. Nel primo caso, si può parlare, in un momento di fiction in crisi, di fiction della crisi. È il caso delle webserie, meno costose delle tv serie tradizionali, come scrive Sergio Brancato. Infatti alcune serie tv partono direttamente sul web, come Kubrick. Una storia porno, del 2012, ideata e diretta da Ludovico Bessegato, nella quale giovani cineasti di belle speranze ma squattrinati sono costretti a girare una serie porno per finanziare un loro prodotto di qualità. In lavori come questi cambia anche il concetto di audience: quantitativamente meno esteso, ma qualitativamente più raggiungibile, come dimostrano i dati Audiweb, molto più affidabili delle misurazioni tradizionali.

E cambia anche il concetto di fandom: come scrive Romana Andò, mentre prima della rete i fan compensavano l’isolamento del mezzo attraverso raduni, visioni pubbliche, ecc., ora, tramite i social network, si registra una pervasività di questi nella vita di tutti i giorni e l’uso di schermi addizionali al tradizionale tv set. Ma la fruizione differenziata attuale isola le audience a livello spaziale (rispetto a una comunità con un segnale tv comune) e temporale (il tempo dell’utente è diverso da quello del broadcaster a quello degli altri utenti per via della visione differita della serie tv attraverso varie piattaforme).