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“Televisione, discutiamo ancora di generi”

Giorgio Grignaffini

“Televisione, discutiamo ancora di generi”

In una Bussola edita da Carocci un breve vademecum sui generi TV

Giorgio Grignaffini
Giorgio Grignaffini

Ibridazione? Un termine polisemico, valido, ma non completamente, per i generi televisivi, che si dividono in due grandi macrogeneri, quelli unscripted (senza copione) e quelli scripted, tipici della fiction. Un significativo cambiamento, nella TV, avvenuto negli anni ’70, con trasmissioni come Portobello, Odeon, L’altra domenica, prodromi di tanti altri format successivi. Mutamenti importanti, negli anni Duemila, con l’avvento degli OTT e dei social, che rimangono però qualcosa a sé rispetto al modello televisivo, sia per le modalità distributive che produttive. Infine, con le nuove tecnologie, scelte produttive divenute possibili per period drama come The Crown, mentre la vera novità sta nelle modalità distributive, con la televisione che si può fruire su molti canali e non solo sul televisore. Questi, in sintesi, i temi trattati da Giorgio Grignaffini, direttore editoriale della Taodue Film, nonché docente presso varie università italiane, nel suo I generi televisivi, edito da Carocci.

Perché parlare ancora di generi (televisivi), in un momento in cui la parola ibridazione sembra fare da padrone, e come lei intende il termine, che appare così polisemico?

Discutere ancora di generi televisivi ha ancora molto senso, anche nel momento in cui si parla di ibridazione, in quanto sono qualcosa di esistente, consolidato, come appunto i generi tradizionali. Poi ci sono i macrogeneri, cioè le grandi suddivisioni dei prodotti televisivi in due categorie, come intrattenimento o unscripted (senza una sceneggiatura) e fiction, appunto scripted (con un copione). Proprio da questa contrapposizione fa scripted e unscripted, potremmo dire che tutto l’intrattenimento leggero come i reality, consiste in tutti quei programmi che non prevedono una sceneggiatura, cioè lo script, che invece è legata al mondo della serialità o del cinema.

C’è questo dualismo, e ci sono i macrogeneri, ancora assolutamente in voga, esistenti, anzi, addirittura che specificano proprio l’offerta di alcuni canali rispetto ad altri. Ad esempio, sappiamo come Netflix sia soprattutto una piattaforma di intrattenimento dove si trovano fiction, cinema o documentari o, anche se in misura piuttosto ridotta, intrattenimento. Siamo sicuri che su Netflix non troveremo l’informazione, le news, mentre se andiamo sulla CNN, al contrario, siamo certi che non ci sarà la fiction. Gli unici canali che ancora mettono insieme in maniera trasversale tutti questi macrogeneri sono le televisioni generaliste, che appunto ti offrono una sera il talk show, una sera il calcio, la sera dopo la partita, il film, il reality, la fiction, ecc.

In ogni caso quindi, anche quando si fa ibridazione da qualche cosa, si dà ancora per scontato che, per esempio, si tratta di un prodotto che sta a metà tra il game e il reality, fra la sitcom e il drama, o tra la soap e la miniserie, oppure si usano ingredienti da soap dentro una miniserie. Ad esempio, una serie molto bella, Succession, in onda su Sky, credo tra le migliori che ci siano adesso, come scrittura e come recitazione riprende alcuni elementi della soap. Parla di una grande saga familiare dove si hanno tante linee narrative di molti personaggi intorno a questo patriarca, questo tycoon che ha una grande azienda. Quindi la serie, pur essendo un prodotto di altissimo livello, fa riferimento a un qualcosa simile a Dallas o Dinasty. Tra l’altro, infatti, proprio il titolo, Succession, è vicino a quello di Dynasty, in quanto significa da una parte la dinastia, dall’altra la successiva.

Tutto questo per dire come in realtà appunto il sistema dei generi, anche se in continua evoluzione, meglio dire in costante rimescolamento, contiene ancora dei capisaldi alla base. Poi è normale, è giusto ed è inevitabile che ciascuno cerchi di dare la propria lettura del genere, però, se guardiamo ai grandi successi della televisione, come il giallo o il poliziesco, o il melodramma, questi sono ancora sempre tra i generi che vanno di più. Poi ci sono i prodotti più difficile da catalogare, come ad esempio Squid Game. Però anche lì poi c’è un’etichetta di genere che ultimamente si è molto diffusa, che è il distopico.

Come Il racconto dell’ancella…

Il racconto dell’ancella è un distopico puro, perché parla di un’altra civiltà, mentre Squid Game lavora più su una possibile evoluzione della nostra società che è anche molto riconoscibile nei suoi tratti capitalistici o ultra capitalistici, con tutto quello che ne consegue in termini di povertà, di esclusione e di violenza. Credo che uno dei motivi del suo successo sia anche quello che comunque, pur raccontando una storia un po’ inverosimile, in Squid Game, forse per noi per fortuna un po’ meno, ma probabilmente di più per la Corea o per i paesi asiatici di un certo tipo, questo mondo così radicalizzato dove è forte la differenza tra chi è dentro e chi è fuori è qualcosa di molto visibile. È un po’ come per Parasite, il film, sempre coreano, che in fondo racconta un presente, per quanto anche lì un po’ forzato, assolutamente credibile, almeno nei presupposti.

Io non sono una conoscitrice profonda del cinema coreano, però, da quel poco che vedo, mi sembra di notare come abbiano un grande trauma collettivo, cioè di avere vicino la Corea del Nord. È un’impressione mia oppure una cosa verosimile?

Ho visto alcuni film ultimamente perché sono molto interessanti e è avvincente conoscere culture diverse e diciamo che in Squid game questo tema viene fuori…

Cioè l’idea della paura della bomba atomica a cento chilometri di distanza…

Il fatto poi che forse noi dimentichiamo è che esiste una linea che separa in due un paese prima unito, ci sono famiglie comunque ancora divise, e per esempio in Squid Game c’è anche un personaggio che riflette questa situazione: si tratta di quella ragazza che è scappata, appunto, dalla Corea del Nord. Non è facile capire questa situazione solo dai film, bisognerebbe riuscire a individuare qual è in profondità il sentimento verso questa situazione; sicuramente per noi sono cose molto lontane, però in fondo è un po’ come la Germania Est e la Germania Ovest… Infatti adesso ce ne siamo un po’ dimenticati, ma fino all’ ‘89 era una situazione pesante, e noi ci rendevamo conto quanto potesse essere drammatica per chi era in Germania in quell’epoca.

Prodotti come questi sicuramente sono molto interessanti e assai diversi da quelli che vediamo sempre: ormai sono anche fatti con una grandissima qualità e notevole coraggio, a livello proprio di scelta di racconto osano guardare avanti.

Lei parla dei prodotti coreani…

Sì, ma anche di altro. La cosa interessante di queste nuove piattaforme come Netflix, Amazon Prime Video, ecc., è che permettono facilmente di vedere delle cose che altrimenti sarebbe difficile trovare sulla televisione normale.

Il primo cambiamento significativo nel sistema dei generi, dopo la tv pedagogica, avviene in Italia dopo il ‘75, con la riforma della Rai e la liberalizzazione dell’etere. La mia è una semplificazione o la storia si è veramente svolta così?

Credo che quello della metà degli anni ’70 sia stato veramente un momento di rottura. Infatti, la televisione fino a quel momento – all’estero come ad esempio in America le cose erano un po’ diverse – in Italia e in Europa (perché altri paesi europei sono simili all’Italia), è mono o bicanale. Da noi c’erano solo due canali della Rai, però con un unico editore. Ciò eliminava la concorrenza, nel senso che non c’era nessun tipo di “spinta”, tra virgolette, concorrenziale, quindi in qualche modo, nonostante venissero fatti anche dei programmi molto interessanti, non c’era quella ricerca del successo che poi è subentrata. Poi uno può anche criticare, ma questo ha portato ad un maggiore dinamismo.

In Italia si sono verificate delle cose incontrovertibili, come la nascita delle televisioni private, anche quelle piccole, che provavano a fare delle cose nuove. Poi c’è stato pure un programma simbolo in quegli anni, ’77-’78, che è ha veramente rivoluzionato la televisione italiana che è Portobello, in cui ci sono dentro le idee di quasi tutta la televisione che è venuta dopo. A Portobello andavano le persone comuni, cosa che poi è diventata la norma, nel senso che non era lo show dove c’erano solo i cantanti, i comici, i ballerini, cioè i professionisti. A Portobello andavano persone comuni che cercavano marito, e quindi c’era l’idea di quello che dopo sarebbe diventato il dating show, c’erano quelli che cercavano i parenti che avevano perso di vista, cosa che poi dopo è stata fatta da C’è posta per te e da Carramba che sorpresa! Poi venivano effettuate le dirette, le telefonate in diretta, anche quella prima grande novità, perché c’era l’idea che fossero le persone comuni a diventare protagoniste. Portobello è stato veramente rivoluzionario, perché tutta la televisione dei reality, anche di un certo tipo di talk show dove c’è il pubblico presente, è tutta contenuta già in questo programma, che è stato veramente un caso unico. Erano presenti i cervelloni, quelli che portavano le invenzioni strampalate, ecc.: insomma, a Portobello si trovano gli spunti per tantissimi format successivi.

A parte Il grande fratello, che è stata forse l’altra grande rivoluzione dopo vent’anni, perché qui parliamo del ’77-‘78, mentre per quest’ultimo del ’99, ci troviamo di fronte a una grande innovazione della TV italiana. Il grande fratello, al di là del fatto che può piacere o non piacere, ha introdotto l’altra grande rivoluzione, ha portato alle estreme conseguenze l’idea di portare delle persone comuni in televisione e di rinchiuderle insieme in una casa. Sempre negli anni ’70 nascono poi dei programmi come L’altra domenica, su Raidue, con Arbore, che era molto trasgressiva, anche con dei comici che all’epoca erano super-innovativi, come Roberto Benigni. Poi nasce un rotocalco televisivo come Odeon, che ha portato dei contenuti e uno stile di realizzazione che ha fatto scuola, e anche dei contenuti molto trasgressivi, se si pensa alla prima serata di una tv di stato italiana del ’75-’76 (penso, ad esempio, al servizio sul Crazy Horse, che avevano fatto scalpore).

Ecco, credo che in quel periodo c’è stato un notevole fermento creativo, molta voglia di fare, che rispecchiava quello che stava succedendo in Italia, un’Italia che usciva dal ’68, che aveva energie, conflitti, pulsioni, in un periodo complesso ma comunque molto ricco di fermenti, anche con tanti drammi come il terrorismo. Si è trattato pure di un periodo assai vivace dal punto di vista creativo.

Quali innovazioni si sono verificate negli anni Duemila con l’avvento degli OTT e dei social media come YouTube?

Il mondo è cambiato e continua a cambiare quasi giornalmente. Dal punto di vista dei generi, tutto sommato, come dicevo prima, non è che siano mutati in maniera radicale, nel senso che poi sostanzialmente le piattaforme – parliamo delle piattaforme di streaming ma anche delle pay-tv – non hanno inventato delle cose nuove a livello di contenuti (sostanzialmente fanno dei generi classici). Con i social media effettivamente si entra in un altro mondo: se parliamo di YouTube di Tik Tok, di questi social in cui le persone producono, si auto-realizzano dei contenuti che vengono diffusi, metodologicamente faccio un po’ fatica a inserirli nella stessa categoria analitica della televisione, perché sono totalmente diversi sia come modelli produttivi e distributivi. L’analogia tra i due sta nel fatto che condividono al massimo il loro essere audiovisivi, cioè nel senso che sì, ci sono le immagini, i suoni, però poi tutto il resto è spesso molto diverso ed è difficilmente paragonabile. Infatti non c’è un emittente unico, ma una condivisione immediata, spesso ci sono anche pochi mezzi, e quindi si ha pure una logica di fruizione completamente diversa e quindi sì, parlando da analista, li sento un po’ diversi.

Faccio fatica ad inserirli, come dire, nella stessa parrocchia della televisione o dello stream, proprio perché sono prodotti spesso anche non professionali. Poi hanno un successo enorme, ma sono modelli di produzione e di distribuzione talmente diversi che a metterli insieme si fa molta fatica. Se uno vede un video di Tik Tok, risulta difficile infatti il paragone con una serie tv, con un film, o con un reality.

In ogni caso, prodotti come questi sono dei fenomeni importantissimi-penso ai videogiochi, che sono un comparto di straordinaria importanza a livello economico e a livello mondiale – c’è un giro d’affari dai videogame agli spot, gli electronic spot che sono pazzeschi, che hanno un volume d’affari superiore a quello di Hollywood, però costituiscono un altro modo di intrattenere.

Molto spesso esistono i prodotti dei fan che vengono a influenzare anche i prodotti televisivi (parlo soprattutto delle serie televisive, dove si possono anche avere delle ricadute, da parte dei fan che postano sui social, sulla trama stessa)…

Dal punto di vista analitico è quello che io e Nicola Drusi abbiamo analizzato nel nostro libro Capire le serie Tv, in cui parliamo proprio di questa sorta di contaminazioni e di riusi, di remake e di riutilizzi che fanno gli spettatori, i fan, che vanno a prendere contenuti seriali per farne delle proprie rielaborazioni. Però, quello che abbiamo anche cercato di dimostrare nel nostro lavoro, è che comunque c’è sempre questa matrice originaria televisiva. Si operano cioè dei riusi, ma partendo da un testo di riferimento che è quello della serie, che comunque fa da guida. Analogamente, la parodia, la satira, funzionano a partire da un testo precedente, ed esse sono interessanti per il fatto che sono derivazioni dal testo originario, cioè la serie.

Invece c’è tutta una produzione autonoma sui social, enorme, con un sacco di contenuti che nascono per i social indipendentemente da altri testi, e quelli appunto bisognerebbe studiare a sé e creare delle categorie ad hoc, cosa che non sono nemmeno in grado di fare, nel senso che sarebbe un lavoro enorme di mappatura e di rilevazione di quello che accade, che è sempre in mutamento e che pertanto è difficile da stabilire.

Forse per fare questi studi ci vorrebbero dei metodi quantitativi…

Sì, però anche dal punto di vista delle forme espressive si potrebbe fare una categorizzazione. In questo libro sui generi televisivi sono riuscito a muovermi su un terreno che è mio a livello professionale, per cui so quello che c’è e come funziona. Per quanto riguarda i social, faccio un po’ più fatica, anche anagraficamente, e non nascondo che i giovani, i ragazzi, siano molto più smart, molto più veloci, più reattivi, in quanto ci vivono dentro…

Poi i social sono in una evoluzione così veloce che, mentre della TV si può fare una storia, in quanto va avanti per decenni, più o meno, qui si dovrebbe fare una storia che va da tre mesi in tre mesi, perché quello che esisteva un anno fa probabilmente è già passato di moda. Ad esempio, se prendiamo Facebook, i ragazzi di quindici anni non sanno quasi più cos’è, ormai esso è un social per adulti, mentre sette o otto anni fa era il più usato dagli adolescenti.

Quale genere televisivo (fiction, informazione, entertainment, cultura) ha subito più cambiamenti in seguito alle nuove tecnologie? Forse la fiction?

Beh sì, se intendiamo nuove tecnologie, come gli effetti speciali. Questi, cioè l’effettistica, sicuramente danno la possibilità di usare effetti digitali anche per la fiction. Hanno offerto la possibilità anche alla televisione di affrontare una serie di generi narrativi che prima erano molto difficili da fare in TV, come la fantascienza, il fantasy e comunque tutte le ricostruzioni storiche. Infatti, adesso per esempio con il green screen, quindi per le riprese su sfondo, a cui poi vengono aggiunti gli sfondi “reali”, così come con i ritocchi digitali, le modifiche che si possono fare sono incredibili e sempre più credibili. Attualmente si può realizzare a costi più contenuti una serie come Il trono di spade, cosa che un tempo era impensabile, perché sarebbe costata tantissimo, in quanto si sarebbe dovuto ricostruire tutto, usare le comparse vere, gli sfondi, ecc. Ora invece con il digitale si può fare una serie come The crown: per quanto riguarda ad esempio la scena sull’incoronazione della Regina Elisabetta, se uno vede il backstage su YouTube, mentre sullo schermo avveniva tra due ali di folla nella cattedrale, invece in realtà è stata fatta tutta in green screen con solo dieci persone e poi è stato rielaborato in digitale. Queste innovazioni tecnologiche hanno reso possibile portare in televisione dei generi che fino a 10, 15 anni fa sarebbero stati impensabili, in quanto sarebbero costati uno sproposito.

Poi, ci sono anche delle innovazioni su altri generi: c’è tutta la questione dell’interazione digitale che può riguardare anche l’intrattenimento, come i talent. Si pensi a un talent come come X Factor, dove i social, con l’interazione di voto, il televoto, che adesso si fa con Internet, gioca un ruolo importantissimo.

Comunque, la vera innovazione tecnologica, più che i generi in sé, consiste nel fatto che adesso non abbiamo più la necessità di vedere la televisione a casa, ma la possiamo guardare ovunque, in treno, per strada, sul telefono, su iPad: possiamo vedere quello che vogliamo, quando vogliamo e dove vogliamo. Questa sicuramente è una grande rivoluzione, ma lo è più di distribuzione che di contenuto, perché io posso vedere un programma come Beautiful che esiste da 30 anni, ma invece di vedermelo su Canale 5 alle due del pomeriggio me lo posso guardare in spiaggia sul telefono un mese dopo la messa in onda, anche se si tratta sempre dello stesso programma.

Dal punto di vista dei generi quindi non è cambiato molto…

No. Ad esempio, con la pandemia, abbiamo visto come anche l’informazione abbia potuto continuare ad esistere in televisione, per esempio con gli ospiti di un talk show o di un telegiornale. Così, invece di essere intervistati in presenza, con le nuove tecnologie essi potevano intervenire da casa. Abbiamo avuto così tantissime interviste di esperti, di qualunque tipo, che si inserivano nei programmi ciascuno da casa sua, con il proprio computer: queste cose qui, sicuramente, fino a qualche tempo fa erano molto più complicate, si potevano realizzare, ma solo telefonicamente, con molta difficoltà e con esiti non sempre eccezionali. Insomma, adesso ci si vede in faccia, si fa la ripresa e noi siamo tutti collegati, connessi.

MARIA GRAZIA FALÀ