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Bruno Pischedda: “Due modernità ai tempi della guerra fredda”

“Due modernità ai tempi della guerra fredda”

Rieditata per UNICOPLI l’analisi delle pagine culturali de “L’Unità” (1945 – 1956)

Bruno Pischedda

Una selva di collaboratori illustri, come Pavese e Calvino, che discutono sul ruolo dell’intellettuale comunista nel primo decennio del dopoguerra. Viaggi in Russia raccontati in modo favolistico, fiabesco, per descrivere un mondo da epicità prometeica contro l’individualismo faustiano di marca USA. Un ruolo qualche volta contraddittorio ma non privo di aperture alla modernità con la pubblicazione di comics, romanzi gialli, racconti d’appendice. Un ripensamento del realismo e del neorealismo, cinematografico e letterario, ormai verso l’esaurimento. Infine, un atteggiamento da curiosi, anche se con riserve e senza una linea del tutto monolitica, verso il mezzo televisivo. Questi i tratti salienti di Due modernità. Saggio sulle pagine culturali dell’”Unità” (1945 – 1956), scritto nel 1995 da Bruno Pischedda, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Milano, e di recente ripubblicato per UNICOPLI.

Perché la decisione di ripubblicare un testo uscito a ridosso dello sfacelo dell’URSS, nel 1995?

Questo è un libro scritto quando ero abbastanza giovane, e che fu poco notato anche dagli esperti di giornali del tempo. Chi lo legge ora può cogliere la differenza tra il periodo in cui fu pubblicato la prima volta e adesso. Quando è stato scritto l’URSS era appena crollata in un clima di sfacelo diffuso sia a livello politico che economico, mentre la Russia di oggi a cui guardiamo noi, quella di Putin, ha connotazioni diverse. Mi è stato chiesto dall’editore il tentativo di riproporlo in momenti che appaiono così poco idonei e che stiamo vivendo in questi giorni. Forse riflettere su un passato recente o recentissimo mi sembra che abbia senso.

Come si profila la posizione dell’intellettuale comunista nel primo dopoguerra? Mi sembra che vi siano tre posizioni, quella di Elio Vittorini, quella di Emilio Sereni e quella di Antonio Banfi…

L’intellettuale progressista e magari comunista dell’immediato dopoguerra nutriva grandi speranze soprattutto sotto il profilo della democratizzazione della cultura. Questo era un progetto coltivato già negli ultimissimi anni della Resistenza con il Fronte della Cultura di Eugenio Curiel, e a Milano trova degli interpreti forse divergenti ma molto tenaci. Tra le persone nominate, due, Banfi e Vittorini, sono attivi a Milano, mentre Sereni, che presto passerà alla direzione della Commissione Centrale Cultura del PCI, sta a Roma. Questa è una distinzione che bisognerebbe tener presente, perché stiamo parlando dell’edizione milanese de l’Unità, in quanto nell’immediato dopoguerra ce ne erano quattro: Roma e Milano, le testate centrali, e poi Torino e Genova. L’Unità milanese ha un suo profilo non completamente sovrapponibile a quello romano, dove operavano Sereni e altri intellettuali vicini alla direzione centrale del partito. Per quanto riguarda i rispettivi punti di vista, Banfi pare più ligio alle consegne che erano state di Curiel, cioè un Fronte della Cultura che sapesse diventare una specie di movimento di massa, di intellettuali e non solo, con un fronte ampio. Quella di Vittorini sembra essere una posizione più corporativa, cioè che pensa a un dibattito da realizzarsi all’interno degli intellettuali, e pare leggermente più attardata rispetto a quella di Banfi. Sereni invece interviene facendo presente che una politica culturale deve essere una politica di partito, e quindi propone legami più stretti con il sindacato, con le federazioni. La sua è una visione acuta, anche profonda: è il primo che comincia a ragionare in termini di realismo, ricco però delle letture di Lukàcs ancora non disponibili agli intellettuali italiani – stiamo parlando del 45 – 46. Quando questo fronte degli intellettuali verrà alla sconfitta elettorale del 18 aprile del ’48, si aprirà una fase diversa. Un primo momento è quindi quello degli entusiasmi postbellici, poi c’è il ’48, e con esso tutti gli aspetti di tipo dogmatico che il PCI impone a tutta l’area dei suoi intellettuali.

Si può parlare, prima del ’48, di un fervore culturale e di sperimentazioni sulle pagine de L’Unità (appendicismo, comics)?

Nei primi quattro – cinque anni del dopoguerra a L’Unità di Milano si registra un forte dinamismo giornalistico. Questo avviene ad opera di due direttori molto diversi l’uno dall’altro, Renato Mieli, che restò in carica dal ’47 al ’48, fino al margine della sconfitta elettorale, e Davide Lajolo, che, arrivato dalla redazione torinese, guidò il quotidiano (edizione milanese) dal ’48 al ’58.

Mieli viene forse ritenuto un po’ troppo aperto alle suggestioni americaneggianti: non è un caso che l’Unità, che è un giornale comunista, pubblichi nel ‘46 i fumetti americani di Chic Young (in Italia cambiavano i nomi dei protagonisti, chiamati Blondie e Dagoberto), dove c’era una certa irrisione umoristica verso la middle class americana con le sue idiosincrasie. In quello stesso periodo c’era anche una rubrica di moda. Tutte queste iniziative, caduta la direzione di Mieli, verranno portate avanti da Lajolo. Nel ‘52, quando viene varata l’edizione del lunedì de l’Unità, si metteranno in terza pagina i racconti gialli all’americana, del genere hard – boiled, con nomi fittizi, forse confezionati a Milano da qualche collaboratore della testata, probabilmente Ida Omboni.

Invece l’appendicismo, presente sul quotidiano, era stato tipico anche di giornali socialisti ottocenteschi e novecenteschi, come l’Avanti!

Cosa potrebbe dire del realismo nel cinema e nell’arte?

È difficile concepire il neorealismo italiano cinematografico e letterario, nonché il realismo pittorico, separandolo dal progetto di marca realista elaborato dopo il ‘48 dai dirigenti comunisti.

Quello del realismo fu però un settore di cui ci si occupò anche dopo il ‘48. Prima del ‘48, osservando da vicino le pagine del giornale, il raggio delle proposte era molto ampio: c’era chi si interessava alla narrativa americana, chi a Valéry, chi al surrealismo francese, e così via. Poi, quando si passerà attraverso la Commissione Cultura di Sereni e poi di Carlo Salinari, la parola d’ordine del realismo si consolida e si stringono ancora di più i vincoli con il realismo socialista sovietico (e siamo dopo il ‘48).

Cosa accade nel ’48, dopo la sconfitta del Fronte popolare? Come si comporta, nel confronti del PCI, la “reazione”?

Questa è un’altra cosa che si dimentica un po’. Certamente c’è un aspetto settario e dogmatico da parte del PCI, dall’altra parte c’erano i discorsi di Scelba sul culturame, sulle polemiche contro gli intellettuali comunisti, in una condizione che potremmo dire di maccartismo all’italiana. Non vanno dimenticate le critiche asprissime alle mostre di Guttuso nonché le critiche di Montanelli a Picasso nell’ambito di una mostra tenutasi nel ‘53 a Palazzo Reale (il pittore veniva definito “il pittore dei nasi torti”). L’idea di intellettuale comunista negli anni ‘50 è insomma quella di un intellettuale di minoranza, con uno spazio di azione molto limitato.

URSS in quanto epicità prometeica e USA come individualismo faustiano: sono queste le modalità con cui l’Italia comunista guarda alle due realtà?

Questo è un capitolo centrale del libro perché è anche quello che gli dà il titolo, Due modernità, ed è stato affrontato secondo un punto di vista quasi antropologico – letterario. Gli anni dal ‘48 al ‘58 sono quelli del mito sovietico promosso decisamente dal PCI. È un mito difensivo: quanto più si fanno difficili le condizioni della lotta ideologico – culturale del Partito Comunista, tanto più c’è bisogno di alimentarlo e anche di portarlo ad apici di fantasiosità anche poco credibile. Fu anche un mito imposto, tant’è che ci fu una riunione molto tesa nel ’50 a cui partecipò pure il direttore dell’Unità di Roma Pietro Ingrao in cui l’ideologo sovietico Suslov mise sotto accusa i giornali del PCI che non davano adeguate informazioni sui viaggi in URSS. L’immagine però è interessante, perché noi oggi questa doppia immagine della modernità non l’abbiamo più. Nell’URSS si individuava una modernità collettiva, foriera di sviluppi civili per tutti, una modernità partecipata, che sapeva fare bene i conti con le tradizioni senza cancellarle, e dall’altra parte invece una modernità, quella americana, che si fondava sul mito dell’individualismo faustiano, con il continuo stravolgimento degli assetti dati in un’ottica di remunerazione per lo più di tipo economico. Caduta l’URSS, e caduti anche quegli anni, oggi l’idea di modernità non c’è più, per noi la modernità è la paura e basta.

In questo senso docet il resoconto di Calvino al ritorno dal suo viaggio in URSS, vista in un tono fiabesco, mitico. Per esempio cerca di dare una risposta razionale alle file che si vedono davanti ai negozi…

Calvino scrive da comunista ortodosso, anche abbastanza allineato sui percorsi dello stalinismo. Il suo reportage, Taccuino dall’URSS, è molto interessante perché Calvino è una persona intelligente che non vuole cadere nella retorica bolsa, pro – sovietica, pur utilizzando tutti gli artifici della retorica per convincere. Le immagini delle code che vede davanti ai negozi e al modo in cui le smonta per far vedere che tutto funziona perfettamente, la dice lunga. Molti anni dopo Calvino ritornerà su quel reportage dicendo che probabilmente aveva sbagliato.

Revisionismo kruscioviano e fatti di Ungheria: quanto hanno inciso sulla politica culturale de L’Unità?

Non saprei cosa dire con certezza, perché la ricerca si ferma al ‘56. Quello che si può dire è che, a seguito del XX Congresso del Partito Comunista Sovietico, tenutosi due anni dopo la morte di Stalin, avvenuta nel ‘54, termina anche tutta la teorizzazione del realismo. Vengono messi da parte Ždanov, le riserve sulla cosiddetta cultura decadente, alcuni autori vengono riabilitati, magari anche temporaneamente (è il caso di Boris Pasternak, autore del Dottor Živago, fatto arrivare in Italia qualche anno più tardi in formato clandestino).

C’è quindi una forma di disgelo che a l’Unità fa riaprire gli orizzonti. Intanto il neorealismo è in fase calante, come pure la letteratura neorealista, e si stanno profilando due fenomeni in controtendenza fortissima. Da un lato inizia la stagione delle avanguardie. Il ‘56 è l’anno in cui viene fondata la rivista Il Verri, punto di coagulo delle nuove avanguardie italiane, con Calvino, Eco, ecc., e vi è poi la fondazione, nel 1963, appunto, del Gruppo ’63. Dall’altro, nel ’58, c’è il boom del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, uscito postumo, che è una forma di romanzo totalmente antistorico.

In che modo reagisce il quotidiano comunista all’incipiente boom economico? Lo capì fino in fondo?

Il libro si ferma al ’56, però certe cose si vedono in maniera abbastanza nitida da subito. Il punto nodale va dal ‘54 al ’55, in particolare nel ‘55 quando ci sono le elezioni sindacali per le commissioni interne alle grandi fabbriche del Nord (FIAT, OM, ecc.) e la CGIL perde piuttosto drasticamente. Questo fatto obbliga la dirigenza comunista a una battuta di riflessione, e le due maxi proposte sul tappeto vengono a una chiarificazione. L’idea che fin dall’inizio era stata del Fronte Popolare di una democratizzazione della cultura che doveva introdurre il popolo all’usufrutto di una cultura alla sua portata, con un’alleanza stretta fra lavoratori e intellettuali, deve confrontarsi con la novità costituita dalla cultura di massa. Ma l’Unità milanese era così estranea a quest’ultima? La risposta è no, era già cultura di massa, quando aveva introdotto i fumetti, i gialli all’americana, quando si era occupata di fantascienza. Però nel ‘55, subito dopo le sconfitte sindacali, si aprono i grandi dibattiti con il cosiddetto Convegno del Triangolo in cui intellettuali e responsabili sindacali di Torino, Milano, Genova si mettono a riflettere su cosa sta succedendo al Nord. C’è uno studioso sindacale, Silvio Leonardi, che dice “Intanto ci siamo consumati in dibattiti ideologici su cosa fosse la vera cultura democratica, adesso abbiamo a che fare con una cultura di massa nuova che sta conquistando fette di popolazione sempre più larghe.” L’altro punto nodale è quando il critico cinematografico de l’Unità di Milano, Ugo Casiraghi, avvia un grande dibattito sulla natura del cinema, riflettendo se ancora si può parlare di un cinema neorealista, democratico, impegnato, stante che le pellicole più diffuse e che hanno un successo più largo sono film di tutt’altro tipo.

Tutti questi dibattiti sono già una preparazione al boom economico.

Si può dire che cronologicamente L’Unità preceda, nel valutare la televisione, alcuni scritti di Umberto Eco che sapranno, per certi versi, svelarne i meccanismi (mi riferisco, in particolare, a Fenomenologia di Mike Bongiorno)?

C’è un pregiudizio piuttosto diffuso tra gli storici secondo i quali la stampa comunista avrebbe demonizzato o sottovalutato l’impatto della TV sui costumi del Paese. Questo è un pregiudizio, perché se guardo l’Unità milanese, magari Rinascita no, ma appunto se guardo tale quotidiano che andava in mano a un milione di lavoratori – queste erano le tirature domenicali dell’Unità – l’attenzione verso la TV è immediata. È immediata con proposte anche all’inizio curiose. Nel ‘54 si pensa a una privatizzazione della TV per sottrarla al controllo democristiano – vaticano, e si criticano programmi troppo a ridosso dei partiti di governo, che davano una certa immagine degli USA.

Le asprezze ci furono e non possono essere cancellate, però vi fu una forte attenzione verso tale medium. In particolare sono due quelli che intervenivano in maniera più dinamica: uno era Paolo Gobetti, e l’altro Luciano Bianciardi, che scriveva un po’ sull’Avanti! e un po’ sull’Unità. Bianciardi, quando esplode nel ‘55 Lascia o raddoppia, ha delle posizioni molto argute con cui sottolinea l’attenzione che dovrebbe essere prestata ai suoi eroi.

Fenomenologia di Mike Bongiorno di Eco ha verve umoristica. Molti anni dopo il celebre presentatore, quando gli fu chiesto cosa ne pensasse di questo testo, rispose: “Eco lavorava alla RAI con me, quindi era uno di quelli che preparava i materiali per Lascia o Raddoppia. Si vede però che, rimanendo dietro le telecamere, ha avuto un po’ d’invidia.” Nel saggio di Eco c’era un’aggressività umoristica che in piccola parte era già stata adottata da Bianciardi negli anni ‘50. L’attenzione per la TV c’era, quindi, eccome, anche se non posso garantire che questo avvenisse pure sulle pagine de l’Unità romana.

Va detto infatti che non c’era una politica organica del PCI sulla TV, e quindi ogni critico andava un po’ per conto proprio. Ogni tanto a qualcuno tiravano le orecchie: per esempio una serie di articoli sulla televisione non furono graditi dalla Commissione Cultura della Federazione di Milano, che allora era costituita da Rossana Rossanda e da Raffaellino De Grada, che quindi convocò gli autori dei pezzi per richiamarli all’ordine.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Bruno Pischedda