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“Propp, nato a Pietroburgo e morto a Leningrado”

“Propp, nato a Pietroburgo e morto a Leningrado”

A cura di Gianfranco Marrone ripubblicata per Mimesis La fiaba russa, opera postuma del grande narratologo

Gianfranco Marrone

Un’interessante occasione, la ripubblicazione in italiano per Mimesis de La fiaba russa di Propp, uscita postuma nel 1984 dopo la morte dell’autore (1970), per parlare di narratologia e di semiotica. Quanto ha influito il Propp di Morfologia della fiaba (1928) sui narratologi francesi degli anni Sessanta-Settanta, e quanto è invece importante La fiaba russa, che si pone con un taglio storico-genetico? E come reagì Propp al regime sovietico, dato che “nacque a Pietroburgo e morì a Leningrado”, senza allontanarsi mai dall’Unione Sovietica, nonostante la sua fama in Occidente? A questo e ad altre domande risponde Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, e curatore del libro.

Negli anni Sessanta-Settanta escono lavori seminali di narratologia francese come Sémantique structurale di Greimas (1966) e Figures III di Genette (1972). Come si pongono queste opere nei confronti del Propp di Morfologia della fiaba, tradotto in inglese nel 1958, e di Le radici storiche dei racconti di fate (1948), che studia le fiabe con un taglio diacronico e genetico, come lo fa (in parte) La fiaba russa?

Innanzitutto il testo che considererei fondatore della narratologia strutturale è quel volume che in Italia si intitola Analisi del racconto, che è stato pubblicato da Bompiani nel 1968 e che è uscito in Francia nel ‘66, lo stesso anno di Sémantique structurale. Il volume conteneva una lunga introduzione di Roland Barthes, e saggi di Greimas, di Genette, di Violette Morin, di Metz, il semiologo del cinema, di Todorov, che tra l’altro è quello che ha inventato il termine narratologia, ecc.

La fiaba russa, che ho chiesto a Mimesis di ripubblicare, a me interessava perché è l’ultimo libro di Propp, quello in cui finalmente mette insieme queste sue due anime, quella morfologica, di Morfologia della fiaba, che ha tanto influenzato lo strutturalismo, e l’anima storico–diacronico–genetica, che invece ha avuto un impatto molto minore nella cultura occidentale.

Tutti i narratologi, ognuno a suo modo, hanno considerato Propp un punto di riferimento, però, paradossalmente, tradendolo, nel senso che Propp sosteneva che la sua metodologia era utile solo per le fiabe russe di magia, mentre gli altri autori, soprattutto francesi, sostenevano il contrario, però non prendendo le 31 funzioni di Propp per applicarle a qualsiasi cosa, ma riaggiustandole, cambiandole, modificandole in parte. In proposito si può citare il lavoro fatto nell’ultimo capitolo della Sémantique strutturale di Greimas che si chiama, non a caso, Alla ricerca dei modelli di trasformazione. Qui Greimas riadatta le 31 funzioni a una logica narrativa più astratta e dunque, proprio perché più astratta, molto più utilizzabile per tantissimi racconti. La sfida di Greimas era quella di non lavorare sulla narrazione, ma su quella che chiamava la narratività, cioè l’uso di modelli narrativi per studiare fenomeni, testi e situazioni anche apparentemente non narrativi, e lì Propp è stato veramente utile.

Invece, per parlare dell’Italia, negli anni ‘60 la cultura era quella marxista, e quindi accadde che il libro Le radici storiche dei racconti di fate arrivasse prima della Morfologia della fiaba ma, in generale, anche qui, il Propp importante è stato quello formalista, suo malgrado.

Tornando al clima culturale francese, potremmo citare la polemica Propp-Lévi-Strauss, per cui Lévi-Strauss scrisse a Propp nel 1960 a proposito del suo Morfologia della fiaba, e lui gli rispose…

Questa polemica è interessante anche perché a quei tempi, bei tempi, a volte i dibattiti si facevano anche grazie all’editoria, cioè l’editoria che oggi è un po’ spenta, terrorizzata soprattutto dal mercato, in quegli anni poteva permettersi di suscitare, intervenire, creare dei dibattiti, e anche delle polemiche. Nella traduzione italiana della Morfologia della fiaba l’editore Einaudi inserì la famosa recensione che Lévi-Strauss aveva fatto a Propp, poi la diede a leggere a Propp in persona, che rispose. La pubblicazione dei due saggi in un unico volume insieme alla Morfologia della fiaba esiste solo in Italia, ed è molto interessante quest’edizione di Propp che ancora esiste sul mercato.

Cosa diceva Lévi-Straus? Lévi-Strauss faceva un’osservazione significativa, sosteneva che Propp era contemporaneamente troppo formalista e troppo poco formalista. Con ciò voleva dire che lo studioso sovietico rifiuta l’idea di un’analisi strutturale della storia. Nelle sue domande lei usa la parola diacronia, che, se mi posso permettere, parlando del testo di Propp non è un termine correttissimo, perché la parola diacronia viene da Saussure, il quale distingueva tra sincronia e diacronia e sosteneva dunque che si poteva studiare in maniera strutturale anche la storia della lingua. Invece Propp sostiene di no, dice che una cosa è l’analisi formale, morfologica, e un’altra è quella storica, ed è lì che si appunta la critica di Lévi-Strauss. Lui dice: “No, non è così. Noi, attraverso l’analisi strutturale, possiamo fare sia sincronia che diacronia, cioè lavorare sulle fiabe di oggi ma lavorare anche sul modo in cui sono cambiate.” Propp non lo capì, o fece finta di non capirlo, non lo sapremo mai, ed è lì che ci fu una forte incomprensione tra i due. Quindi, paradossalmente, Propp è divenuto il faro della narratologia malgrado i suoi continui tentativi di distaccarsene.

Ne La fiaba russa Propp afferma esplicitamente che la sua teoria morfologica si può applicare esclusivamente alle fiabe di magia, mentre alle altre no. Per esempio, per quelle di animali, si può soltanto dire che (forse) avevano origine totemica e che la loro formazione “va fatta risalire allo stadio preclassista di sviluppo della società.” (p. 365) Come si può spiegare questo limite di Propp in relazione ai progressi dei narratologi occidentali, specialmente quelli francesi, che giungono a studiare tutti i racconti? Per esempio, Greimas nel 1975 scrive il suo libro Maupassant. La semiotica del testo: esercizi pratici, appena cinque anni dopo de La fiaba russa (che però viene pubblicata postuma nel 1984)…

Su questo le ho risposto. Lei ha parlato di narratologi occidentali, non solo francesi, e ha ragione. C’era in quegli anni, esattamente dagli anni ’50, anche negli USA una scuola narratologica, soprattutto a Chicago, dove operavano Wellek, Warren, Burke e altri. Propp è arrivato dopo, ma questi studiosi avevano già cominciato a fare l’analisi strutturale della letteratura. Poi a poco a poco i vari filoni si sono riuniti, ma non dimentichiamoci che questo era il periodo in cui la cultura francese era ancora la cultura delle scienze umane, era la cultura dominante.

Per quanto riguarda la narratologia oggi, le posso raccontare un episodio di una studentessa che mi scrive da non mi ricordo quale università italiana dicendomi: “Guardi, professore, noi abbiamo studiato la narratologia legata alle neuroscienze, però dopo averla studiata io non riesco ad analizzare nessun racconto. Cosa devo fare?” Io le ho risposto: “Butti a mare le neuroscienze e torni a leggere le opere degli anni ‘70”. Cioè, oggi, con il cognitivismo, o con le neuroscienze, lo studio della narrazione si è spostato su altri problemi, non migliori o peggiori, non di tipo metodologico, ma di tipo storico-evoluzionista. Quindi, la narratologia oggi ha un po’ perduto per strada la grande tradizione narratologica francese degli anni ‘60-‘70 con grandi figure come Genette, il cui Figures III è un capolavoro, è un libro fondamentale, come quelli di Greimas e di Barthes. Oggi tutte queste opere non le legge quasi più nessuno ed è un grande peccato, perché, quando si tratta di andare ad analizzare un testo, non si hanno più gli strumenti adeguati.

Quando scriveva La fiaba russa, Propp appare un convinto leninista, considerando, per esempio, le novelle o fiabe novellistiche come uno stadio in cui il contadino russo, attraverso tipizzazioni, esprimeva la propria realtà. Lo stesso Propp in più punti della sua opera cita proprio Lenin…

Propp è stato un grandissimo innovatore nello studio del racconto, per quanto, paradossalmente, suo malgrado. Ora, noi non sapremo mai se lui era influenzato, se non addirittura spaventato, dal regime sovietico, che imponeva negli studi linguistici, folcloristici, letterari, ecc., il materialismo dialettico, quello di Marr, di cui lei parla nella domanda successiva, o se ne fosse veramente convinto. Lei giustamente dice: “Propp cita spesso Lenin”. Ebbene, tutti citavano Lenin in quel periodo da un lato, nel senso che era considerato un nome di riferimento fondamentale per la cultura sovietica e non soltanto sovietica. Dall’altro lato c’è da dire anche che, per quanto possa sembrare strano, gente come Lenin, Stalin, e Trotskij, erano molto interessati al formalismo e alla linguistica. Uno come Stalin, che un po’ di cose da fare le aveva, nella sua vita, per quanto cattive, ha scritto un intero libro sulla linguistica, che si intitola Il Marxismo e la linguistica (magari non l’avrà scritto lui, ma insomma, l’ha firmato). Trotskij pure scrisse un libro sul formalismo russo per prenderne le distanze. Oggi fa un po’ ridere che i politici di quel calibro si interessassero di problemi metodologici di critica letteraria o di linguistica, allora invece era molto importante.

Detto questo, noi non sapremo mai se Propp cambiò idea rinunciando alla morfologia a causa dell’oppressione sovietica o lo fece per reali convinzioni.

Parlando di fiabe di magia, ne La fiaba russa Propp si rifà al cosiddetto principio dello sviluppo stadiale di Marr, che sarebbe “lo studio dello sviluppo della società in base agli stadi determinati dall’insieme della cultura materiale, sociale e spirituale,” per cui “i fenomeni della cultura spirituale sono derivati e costituiscono una sovrastruttura della base socioeconomica.” In Occidente i linguisti concepiscono il marrismo come “un’aberrazione” del pensiero sovietico applicato alla linguistica (si veda Bolelli). Lei cosa ne pensa e, soprattutto, come si poneva Propp tanto “occidentale” nel suo pensiero “formalista” e tanto “sovietico” nello stesso tempo?

A ciò ho già risposto a proposito della domanda precedente. L’unica cosa che aggiungerei è che il discorso della struttura e della sovrastruttura è un refrain, un ritornello tipico del marxismo più semplificato, il marxismo cosiddetto volgare. Diciamo, e su questo insisto molto, la migliore tradizione strutturalista, quella di Foucault, di Lévi-Strauss, di Deleuze, e quant’altri, e anche quella della semiotica, sono nate esattamente contro questo principio del marxismo, cioè l’idea che ci fosse una struttura, quella economica, da cui tutte le altre dipendevano. È stato dimostrato da storici della religione come Dumézil, da antropologi come Lévi-Strauss, da semiologi come Greimas, Barthes, Eco, per non parlare di Althusser, Althusser che era il marxista francese, che l’opposizione struttura-sovrastruttura non tiene, che nella società può accadere anche esattamente il contrario. Per esempio, la storia politica, la sfera sessuale, come ci ha insegnato Freud, la sfera religiosa, come ci ha insegnato Max Weber e quant’altro, sono esse in alcuni casi a generare delle trasformazioni storiche. Quest’idea della sovrastruttura, quindi, attualmente risulta del tutto superata, nessun marxista oggi la utilizzerebbe più, e lo strutturalismo è stato, dal punto di vista della sua pars destruens, una critica feroce al marxismo allora imperante.

Quanto c’è della cultura sovietica in Propp? Come viveva lo studioso russo il fatto di vivere in URSS, mentre il suo pensiero “spopolava” in Occidente?

Non lo sapremo mai, non possiamo sapere quanto lui fosse veramente aderente al marxismo e quanto lo facesse invece per ragioni di convenienza, se non addirittura di sopravvivenza.

Ma lui non si è mai trasferito da lì, è sempre rimasto in Unione Sovietica…

La battuta che faccio nella mia prefazione a La fiaba russa è che Propp è nato a Pietroburgo ed è morto a Leningrado, la stessa città, anche se il nome, con la Rivoluzione d’Ottobre, era cambiato.

Allora lui ha saputo molto poco dei narratologi occidentali…

Molto poco.

La fiaba russa è una summa del pensiero di Propp molto significativa, in particolare quando lo studioso parla della fiaba di magia, in cui coniuga in maniera notevole diacronia e sincronia. Quanto è “passato” di questo nei narratologi e semiologi occidentali che, forse, hanno un po’ dimenticato la diacronia?

Mi rifaccio alla polemica Propp-Lévi-Strauss, e dico che non bisogna confondere diacronia e storia. Storia si può fare in tanti modi, la diacronia è un modo particolare di studiare la storia, cioè una storia studiata in maniera strutturale e non in maniera storicista. A trasformarsi sono le strutture e non i singoli elementi, ma questa è una formula semplicistica, perché il discorso sarebbe abbastanza complesso. Diciamo che non è vero che i semiologi occidentali hanno trascurato la diacronia, esistono tantissimi studi in proposito.

Ci potrebbe fare qualche nome?

Inizierei proprio dai semiologi sovietici, come Lotman, come Uspenskij, che ha scritto un libro che si chiama Semiotica e storia, per non parlare dei grandi antichisti francesi, come François Hartog. Poi, ci sono stati i grandi studi di Jorge Lozano, che ha scritto un libro che si intitola Il discorso storico. Barthes stesso, in tutti i suoi lavori, sulla moda, sulla letteratura, sull’arte, si è sempre posto il problema di una metodologia della ricerca storica, basti pensare che i suoi più grandi scritti semiotici sono stati pubblicati sulla rivista Les Annales, che era la rivista di Marc Bloch, Lucien Febvre, ecc….

Qual è, secondo lei, il punto debole dell’analisi diacronica delle fiabe che Propp fa ne La fiaba russa? Cosa c’è ancora di valido, e quanto è datata la sua analisi genetica delle fiabe?

Per quanto riguarda l’analisi genetica, Propp utilizzava una teoria antropologica che è la cosiddetta teoria dei residui, per cui lui sosteneva che la fiaba è un residuo degli antichi miti d’iniziazione del Neolitico. Questa è una teoria molto invecchiata, che anche Lévi-Strauss già negli anni ‘60 criticava.

MARIA GRAZIA FALÀ