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Partizione, minoranze, pluralismo nel cinema indiano dall’indipendenza a oggi

 

Da Resetdoc.org


Cecilia Cossio parla con Maria Grazia Falà

Partizione come follia collettiva di musulmani, hindu e sikh, che sconvolge una convivenza secolare relativamente pacifica. È il momento in cui, nel 1947, il movimento di liberazione dalla Gran Bretagna si conclude con la divisione dell’ex colonia in due nazioni: l’India, a prevalenza hindu, e i due Pakistan, tendenzialmente islamici. Tutto questo ha causato esodi biblici, con circa dodici milioni tra hindu e musulmani che si spostarono da una parte all’altra dei due paesi, a seconda della fede di provenienza, per evitare massacri e persecuzioni. Gli scontri tra le comunità che esplosero al momento della partizione, non prima, furono violentissimi, ma il cinema indiano, popolare e “impegnato”, per molti anni ha mantenuto rispetto a questo dramma un atteggiamento “neutrale”.

Un rigurgito anti-musulmano nella società civile indiana si ha soprattutto negli anni Novanta, con l’ascesa al potere del partito conservatore BJP, il referente politico dell’induismo militante. E proprio a partire dagli anni Novanta nel cinema mainstream è emerso diffusamente un sentimento anti-musulmano mascherato.

È questo, in sintesi, il quadro delineato da Cecilia Cossio, docente a riposo di lingua e letteratura hindi, che ha scritto, su cinema e partizione, i saggi All’inferno e ritorno, del 1999, Dharmputr e la partizione dell’India del 2002 (trad. inglese in Heidi R.M. Pauwels (ed.) Indian Literature and Popolar Cinema: Recasting Classics, Routledge, 2007), La ferita della fede: individuo e comunità in Dharmputr e Zakhm, del 2004, nonché, raccontando le vicende di Rahi Masum Raza, indiano musulmano, famoso scrittore e dialoghista cinematografico, il libro Il talismano che rapisce i sensi, e-book di prossima pubblicazione. Parlando di odi religiosi, spiega Cecilia Cossio negli ultimi due saggi del libro, sono sintomatici due film hindi, Dharmputr (Figlio per fede), del 1961, diretto da Yash Chopra, e Zakhm (La ferita), uscito nel 1998 per la regia di Mahes Bhatt, nei quali due hindu scoprono di avere origini musulmane. Entrambe le storie sono ambientate durante momenti di grave tensione tra le due comunità: in Dharmputr nel periodo della partizione, in Zakhm negli anni Novanta, quando avvenne, nel 1992, la demolizione della moschea di Babur, ad Ayodhya, ad opera di fanatici hindu. In tutti e due i casi ancora si parla della composita, tollerante, “vera” India, retorica destinata a cambiare nella cinematografia indiana dagli anni Novanta in poi. Ma, per vedere come il problema della partizione e degli odi religiosi è stato affrontato nel cinema indiano, occorre operare delle distinzioni su cosa si intende con questo termine.

Cominciamo dal termine più diffuso quando si parla di cinema indiano: come si può definire Bollywood?

Per Bollywood si intende quel cinema popolare hindi che si sviluppa intorno agli anni Ottanta – Novanta del Novecento. Prima si parlava genericamente di cinema popolare, cinema hindi, sempre, come per Bollywood, caratterizzato dall’inserimento nella trama di canti e danze. Dagli anni Sessanta tale cinematografia ha cominciato ad essere definita anche cinema masala (“spezie”), impostasi con Amitabh Bachchan, ancora famosissimo, con un’audience prettamente indiana, ma con esportazioni in Medio Oriente, nel Sud Est asiatico o nelle zone di emigrazione. Allora c’era solo il cinema “impegnato” o puramente di evasione.

Quando nasce il cosiddetto nuovo cinema o cinema parallelo?

Occorre aspettare la fine degli anni Sessanta per poter avere il cosiddetto cinema parallelo. A basso budget, con temi in prevalenza sociali, è spesso aiutato finanziariamente dalla Film Finance Corporation, istituzione governativa del 1960, e viene influenzato anche dai film stranieri, conosciuti attraverso i festival. Dopo un periodo di splendore negli anni ’70 – ‘80, con la liberalizzazione degli anni ‘90 si è praticamente rifuso con il mainstream, per cui finalmente si può riparlare solo di “cinema”.

La partizione ha aperto vecchie ferite oppure è un fenomeno che affonda le proprie radici solo nella storia contemporanea?

La partizione non è l’esito di un odio antico, secolare tra hindu e musulmani, ma con le caratteristiche attuali si sviluppa proprio con la lotta per l’indipendenza. Inoltre questa non è un risultato del separatismo musulmano. Certamente c’è stato anche questo problema, ma nella creazione dei due stati le leadership della Lega musulmana e del Congresso hanno avuto le stesse responsabilità. Questa divisione sanguinosa ha lasciato una frattura tra le comunità che non è mai stata del tutto rimarginata.

Come viene affrontato nella filmografia indiana tale tema?

Il cinema si pone in maniera relativamente “oggettiva” di fronte a questo problema, anche perché è un’impresa collettiva, in senso comunitario, e ci sono musulmani, hindu, cristiani e sikh che vi lavorano. Nel periodo immediatamente successivo i film che trattano la partizione sono pochissimi. Tra questi, due del 1949, dove le protagoniste sono le donne, violate in tutti i sensi, uccise dagli stupratori o dagli stessi familiari.

L’argomento è stato trattato continuativamente nel tempo?

Occorre aspettare il 1960 per avere altre due pellicole, ma è nel 1973 che esce Garm hava (Vento caldo) di M. S. Sathyu, film della corrente del cinema parallelo che affronta non tanto la partizione quanto la difficile situazione dei musulmani rimasti in India. Infine, anche la televisione affronta il problema: nel 1987 manda in onda sulla tv di stato, Doordarshan, la serie Tamas (Il buio), di Govind Nihalani. Qui la partizione è vista attraverso la storia di un intoccabile costretto a fuggire con la moglie incinta. Il tema è ormai sdoganato, e negli anni Novanta diventa il soggetto di parecchi film in genere di cineasti “paralleli”. È importante rilevare che tutte queste opere non sono “di parte”, ma ritraggono la follia e la bestialità di questi scontri, come nelle opere letterarie che trattano un tema simile. Tutto questo avviene proprio negli anni ’80, quando si ha l’ascesa dell’induismo militante.

Quando arriva l’epoca dei grandi scontri intercomunitari…

In questo clima di intolleranza ci sono episodi come la distruzione, nel 1992, della moschea di Babur ad Ayodhya, a cui seguirono scontri sanguinosi in varie località, tra cui Bombay. Va poi ricordato, nel 2002, il pogrom anti – musulmano di Godhra, cittadina del Gujarat, in seguito all’incendio di un vagone di pellegrini hindu di ritorno da Ayodhya (il processo ha dimostrato che i musulmani non erano responsabili del fatto).

Come muta, in questo clima, l’atteggiamento dei cineasti?

Le cose, cinematograficamente parlando, cambiano verso la fine degli anni Novanta, soprattutto nel filone mainstream. Il mondo indiano rappresentato di questo periodo è quello hindu. È del 1997 Border, di J. P. Dutta, dove si narra un episodio dello scontro armato indo – pakistano del 1971. E vi saranno altri film, sempre del mainstream, dove si evidenziano sentimenti anti-pakistani e, di conseguenza, anti-musulmani.

Come sono viste infine le minoranze di tipo religioso – comunitario?

Nel mainstream si fa sempre professione di tolleranza religiosa e sociale. Per esempio in Amar Akbar Anthony (id.), del 1977, diretto da Manmohar Desai, tre fratelli, separati da bambini e allevati uno da un prete cattolico, uno da un poliziotto hindu e uno da un sarto musulmano, alla fine si riuniscono felicemente. Ma questo non avviene nel cinema più realista, dove si parla anche dell’emarginazione di strati sociali più deboli. È il caso dei dalit (“oppressi, schiacciati”), che sono gli ex – intoccabili.

 

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