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Paola Brembilla: “Storia della TV americana, evoluzione più che rivoluzione”

“Storia della TV americana, evoluzione più che rivoluzione”

Raccontate per FrancoAngeli le storie delle serie televisive USA

Paola Brembilla

Industria televisiva come capace di trasformarsi gradualmente per adattarsi, come il modello Netflix che rappresenta un’evoluzione del suo stesso modello di business. “Età dell’oro” della televisione come categorie in cui ognuna corrisponde a periodi in cui la produzione televisiva ha bisogno di adattarsi a uno scenario in cambiamento. TV via cavo che nei suoi primi anni si affida alla ritrasmissione delle produzioni dei network, spesso riconfezionandole per iniziare un processo di differenziazione (esempio famoso, la ritrasmissione di Twin Peaks sulla cable TV Bravo con lo slogan “TV Too Good For TV”). HBO come emittente pay che si è consolidata a suon di primati, proclamando il suo stato di “non televisione” attraverso lo slogan “It’s Not TV It’s HBO”. HBO che ha anche una versione Over – the – Top, HBO Now, anch’essa “di classe”. Poi, Netflix che in Italia, come in tutti gli altri paesi, ha avuto uno sviluppo diverso da quello registrato negli USA, e che appunto in Italia ha avuto forti barriere all’entrata. Inoltre, Contenuto Generato dagli Utenti che agisce in diversi modi e su diversi livelli e il cui carattere fondamentale è quello di essere “spreadable”. Contenuto Generato dagli Utenti che può influenzare anche la scrittura “ufficiale” della serie, attraverso fan service in cui la produzione rende omaggio ai gusti e alle attività del pubblico. Infine, ibridazioni non tra sistemi televisivi, ma tra specificità formali delle produzioni, con il ritorno delle serie antologiche, l’importanza data ai brand, i revival e i reboot.

Queste, in sintesi, le linee portanti di It’s All Connected. L’evoluzione delle serie TV statunitensi, edito nel 2018 da FrancoAngeli e scritto da Paola Brembilla, docente di Teorie e tecniche del linguaggio radiotelevisivo all’Università di Padova.

Lei ha parlato di evoluzione piuttosto che di rivoluzione nella storia della TV americana. In che senso? Questo dato di fatto si potrebbe applicare anche al caso italiano?

Nel libro parto dalla definizione generica dei due termini: la rivoluzione come cambiamento improvviso rispetto a un problema e l’evoluzione come trasformazione graduale per adattarsi all’ambiente. Mi sembra che l’industria televisiva, ciclicamente, faccia questo, trasformarsi gradualmente per adattarsi. Possiamo certo individuare dei periodi di svolta, in cui i cambiamenti sono sotto gli occhi di tutti e possono sembrare improvvisi e dirompenti. Però, cercandone le cause, possiamo anche vedere che niente succede all’improvviso, ma è sempre il risultato di strategie e tattiche di adattamento all’ambiente economico, istituzionale, socio-culturale, etc. Possiamo sicuramente dire che Netflix ha rivoluzionato l’industria televisiva, è una frase ad effetto ed è vera. Ma da una prospettiva storica e sistemica anche il suo modello d business è solo l’ultimo risultato del lungo processo di trasformazione che il medium televisivo ha intrapreso fin dalla sua nascita. Netflix viene dalla digitalizzazione, dalla difficoltà dei network di adottare un modello di VOD concorrenziale e invitante per gli utenti, dal business della vendita delle ritrasmissioni, dall’affermazione della pirateria. Netflix stesso come lo conosciamo oggi è un’evoluzione del suo stesso modello di business, in quanto nasce come società di noleggio di VHS e DVD per posta. Da questo punto di vista sì, il modello è applicabile anche all’Italia, poiché parliamo sempre di fattori ed elementi connessi fra loro che spingono alla trasformazione costante.

Le serie TV americane si caratterizzano per una prima golden age, quella degli anni Sessanta, una seconda, che va dalla fine degli anni Settanta agli inizi degli anni Ottanta, e infine una terza, degli anni Duemila. Quanto si connettono all’evoluzione della televisione USA tout court?

Le cosiddette “età dell’oro” della televisione sono categorie che possono essere lette in diverse modi. La prima età, per esempio, è un’etichetta creata dalla PBS, il servizio pubblico statunitense, che negli anni Ottanta manda in onda un’antologia del meglio dei primi anni della TV intitolandola “The Golden Age of Television”. Così facendo, quei programmi vengono nostalgicamente inquadrati come “classici”. La cosa altrettanto interessante è che quegli show, perlopiù live anthology drama, si rifacevano al teatro per conferire un’aura culturalmente elevata a un nuovo medium che era considerato troppo popolare. Ma in questo caso, poi, mi piace sempre citare lo studioso Fred MacDonald, che fa notare come per ogni programma entrato nella prima golden age, ci fossero centinaia di altri show di bassa o media qualità finiti nel dimenticatoio.[1] L’esempio è emblematico anche per le altre età dell’oro: ognuna di esse corrisponde a periodi in cui la produzione televisiva ha bisogno di mutare, di trovare nuove vie per adattarsi a uno scenario in cambiamento. La seconda, per esempio, è il risultato dell’inedita competizione fra televisione broadcast e via cavo, a cui la prima reagisce con serie che si differenziano da quelle degli anni precedenti in termini di narrazione multilineare, ibridazione dei generi e dei formati, maggiore attenzione tecnica e stilistica – ne sono esempio Hill Street Blues, ER, Twin Peaks, X-Files. E ancora, volendo parlare di una terza golden age, vediamo come la digitalizzazione abbia nuovamente trasformato i giochi e gli equilibri competitivi, spingendo a cercare nuove forme di differenziazione in uno scenario di saturazione del mercato e abbondanza dei contenuti (approfondisco questo discorso nell’ultima domanda). Si tratta sempre, comunque, di etichette applicate a posteriori. Ma, come sostiene MacDonald, a ben vedere per tutte quelle serie che troviamo rappresentative di queste età, ce ne sono ancora centinaia che non lo sono. Forse, allora, le serie raccolte sotto queste definizioni-ombrello sono dei “picchi” di quei cambiamenti palesi di cui ho parlato prima.

Dalla broadcast television alla cable TV: come si influenzano i formati e i temi delle serie televisive in questo passaggio?

In questo passaggio vediamo come ciò a cui stiamo assistendo con gli OTT, cioè il loro passaggio da espansione a competizione della TV, sia già accaduto. La televisione via cavo, infatti, nei suoi primi anni di consolidamento si affida alla ritrasmissione delle produzioni dei network, spesso riconfezionandole per iniziare un processo di differenziazione. Un esempio celebre è quello di Twin Peaks, in onda per due stagioni sul network ABC che poi lo rivende in syndication al canale via cavo Bravo.[2] Bravo, che sta cercando di costruirsi un marchio che si distacchi dalla TV tradizionale, lancia le ritrasmissioni della serie con lo slogan “TV Too Good For TV” suggerendo che la sua sia la collocazione più adatta a un tipo di serie dalla qualità troppo elevata per i network. Nel complesso, poi, la cable lancia definitivamente la polarizzazione delle audience, la moltiplicazione dei player e e la frammentazione dell’offerta, proponendo per la prima volta canali tematici e specializzati – MTV, CNN, ma anche canali come Bravo che ci concentrano su cinema e serie TV “di qualità”.

Prima ancora però che la cable si lanci nella programmazione originale, sono i network stessi che iniziano a offrire qualcosa di innovativo per restare competitivi, ed è qui che troviamo i programmi della seconda golden age di cui ho parlato nella domanda precedente. La risposta successiva della via cavo è poi quella dell’ulteriore differenziazione, sfruttando al massimo certi vantaggi istituzionali che porteranno alla nascita della cosiddetta “quality TV” – l’esempio principale diventa poi HBO, di cui parlo nella domanda successiva.

Ci potrebbe parale del caso HBO, che poi si strutturerà anche come un servizio Over – the – Top con HBO Now?

HBO non è solo un canale, è un marchio che evoca una serie di valori e aspettative, è praticamente uno status culturale. HBO è un’emittente pay che si è consolidata a suon di primati: è la prima emittente pay a diventare un multiplex, quindi a sfruttare la compressione digitale dei dati per offrire diverse versioni dello stesso canale; è la prima rete a offrire una versione in HD; è anche la prima rete premium, alla fine degli anni Novanta, a lanciare le sue serie TV originali, proclamando il suo stato di “non televisione” attraverso lo slogan “It’s Not TV. It’s HBO”. Senza regolamentazioni su contenuti e senza interruzioni pubblicitarie, ma con la necessità di giustificare il premium price che i suoi utenti pagano, HBO punta a discorsi di distinzione culturale che capitalizzano sulla qualità tecnica e artistica della sua programmazione, acclamata per gli alti production values,[3] la demolizione di tabù e censure, l’enfasi sugli autori, la continuity nella narrazione – tutto che riporta a campi culturali “alti” come il cinema e la letteratura.

Tutti questi principi sono riportati su HBO Now, la versione over-the-top della rete accessibile anche con abbonamento mensile stand-alone[4] – sul principio di Netflix, quindi. Con HBO Now, l’emittente pay ha riconosciuto l’importanza dei player OTT, adattando competitivamente il proprio modello di business. Ha però cercato anche di non perdere la sua natura “di classe”, con le sue caratteristiche distintive di ecosistema culturalmente legittimato lanciando la piattaforma in esclusiva per Apple TV per 3 mesi, una scelta non casuale visto che parliamo di un altro ecosistema fondato sull’esclusività e il prestigio. L’OTT è attualmente il più costoso sul mercato americano, continuando così a chiedere un premium price per il suo premium content.

Gli Over – the – Top (OTT) come Amazon, Hulu, e Netflix, hanno cambiato il panorama televisivo USA. Ci potrebbe dire qualcosa su Netflix che si sta diffondendo in maniera significativa anche in Italia?

Negli USA, Netflix è partito da zero, con scarsa competizione nel settore OTT e forti potenzialità di sviluppo e, in un certo modo, ha imposto le sue regole. In Italia, così come fuori dagli USA in generale, è diverso: internazionalmente si inserisce in sistemi che, a diversi gradi, stanno già sviluppando mercati propri a partire da determinanti specificità nazionali. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2015 Netflix si inserisce in un mercato dello streaming sì sotto-sviluppato, anche a causa dei problemi con la diffusione della banda larga sul territorio italiano, ma soprattutto in cui i maggiori player (SkyOnline, Infinity, TIMVision, etc.) sono un’espansione di editori televisivi e di imprese di telecomunicazione leader, quindi con un bacino d’utenza già polarizzato. Questo presenta una barriera all’entrata non indifferente, che comporta anche la scarsa disponibilità dei diritti di ritrasmissione di diversi prodotti di richiamo – alcuni persino di Netflix stesso, si pensi ai diritti di House of Cards e Orange is the New Black, venduti rispettivamente a Sky e Mediaset prima che l’OTT aprisse in Italia. Di conseguenza, la library che Netflix lancia sul mercato nazionale si presenta limitata rispetto a quella statunitense, con una quantità irrisoria di prodotti italiani. Le cose stanno cambiando ed è sempre più chiaro come Netflix adesso stia cercando di espandersi dagl early adopters[5] a un pubblico sempre più diversificato e generalista, ricalcando dei modelli di successo già consolidati in Italia: si punta alla tradizione e all’effetto-nostalgia con Don Matteo e Fantaghirò, per esempio. Accanto a una produzione originale di denuncia come Sulla mia pelle, troviamo i cinepanettoni. Le serie originali, Suburra e Baby, funzionano sulla falsa riga del modello Sky (criminalità, malavita, fatti di cronaca, storie audaci). Anche se non hanno avuto lo stesso successo, dimostrano comunque che c’è attenzione al panorama nazionale, che Netflix è nel gioco della produzione tanto quanto i player storici. Per quanto riguarda la concorrenza, infatti, oggi Netflix Italia vince più per l’usabilità dell’interfaccia che per i contenuti – oramai, anche le library di Infinity, Sky e anche Amazon Prime sono ricche. Per questo sta puntando sempre più sulla promozione del suo brand che, come commenta Luca Barra qui <https://www.vice.com/it/article/59vqmz/i-problemi-di-netflix> è una garanzia: “il meglio, il nuovo, l’imperdibile stanno lì”. Anche se grattando sotto la superficie promozionale dei contenuti in evidenza, ci sono due anime: quella della qualità, del prestigio e quella delle produzioni generaliste, “normali”.

Il cosiddetto Contenuto Generato dagli Utenti ha cambiato anche il modo di scrivere le serie televisive, e su questo ha insistito anche Henry Jenkins, che nel suo Cultura Convergente non si limita a citare casi televisivi. Qual è la sua opinione in proposito?

Dipende da cosa intendiamo per Contenuto Generato dagli Utenti, che oggi assume diverse forme – dai video degli YouTubers ai mashup/remix, dalle wiki alla fanfiction.[6] Considerando le serie TV, credo che tutte queste produzioni agiscano in diversi modi e su diversi livelli. Credo anche sia importante sottolineare che, oggi, ci sono modalità inedite di creare valore dal fandom, che va al di là dei numeri delle audience televisive misurate da Nielsen e che si basa su sistemi di controllo instaurati dalla produzione. Come sostiene Jenkins, la parte “spreadable” è fondamentale: i contenuti sono progettati per circolare online, basti pensare alle clip condivise dalle reti stesse su YouTube, o agli hashtag creati dalla produzione ufficiale per facilitare i discorsi su Twitter. Concretamente, alcune campagne di promozione delle serie utilizzano Twitter per rimandare all’appuntamento televisivo, riconducendo quindi il tutto a una logica di palinsesto – il fenomeno della social TV, in fondo, è proprio fondato sulla visione sincronizzata in TV mentre se ne discute online. Dal punto di vista della scrittura, l’interazione diretta fra produzione e consumo, resa possibile da piattaforme come Twitter e Tumblr, è altrettanto fondamentale. La complessità narrativa può essere accentuata per stimolare le conversazioni su certe parti oscure della narrazione, o su colpi di scena inaspettati. Questo può influenzare la scrittura “ufficiale” della serie, attraverso fan service in cui la produzione rende omaggio ai gusti e alle attività del pubblico inserendo delle allusioni, dei particolari marginali nella narrazione volti ad ammiccare al fandom. I feedback degli utenti, inoltre, possono influenzare non solo la scrittura dei dialoghi, ma anche stimolare nuove produzioni (gli spin-off, dopotutto, sono prodotti realizzati per attrarre un pubblico che ama un determinato personaggio secondario) o “aggiustare” il corso delle narrazioni stesse. Per esempio, Julie Plec, creatrice di The Vampire Diaries, ha dichiarato di avere inserito una nuova linea narrativa nello show a seguito delle proteste diffuse sui social network da molti fan che chiedevano maggiori approfondimenti su alcuni punti oscuri della narrazione. La produzione di fanfiction stessa, che spesso è stata scoraggiata, oggi è anche vista come un “plus” perché può tenere vivi e attivi i mondi seriali, può anche essere sfruttato a distanza di anni per nuovi prodotti correlati a quello originale – si pensi ai revival, da X-Files al Veronica Mars.

Quanto sono cambiati formati e contenuti delle serie TV dopo quelle che potrebbero definirsi ibridizzazioni tra network, cable TV e OTT?

Più che di ibridazione fra sistemi televisivi, che rimangono ancora piuttosto separati, parlerei di ibridazioni fra specificità formali delle produzioni.

In questo senso, ci sono diversi trend che caratterizzano lo scenario contemporaneo. Uno è il ritorno delle serie antologiche, soprattutto stagionali, la risposta strategica perfetta all’abbondanza dei contenuti e alla fruizione personalizzata. Delle audience sommerse da centinaia di serie TV l’anno potrebbero infatti trovare conveniente scegliere una narrazione che si esaurisce nel corso di due o tre mesi e che non richiede necessariamente la visione delle stagioni precedenti per essere compresa. Queste serie, inoltre, presentano formati particolarmente adatti al binge-watching[7], grazie al loro funzionamento come un lungo film e, per questo, i costi iniziali sono anche ammortizzati in fretta attraverso diversi accordi con gli OTT.

In questo scenario, si conferma inoltre l’importanza dei brand, basti pensare ai franchise televisivi (NCIS, Law & Order, CSI, etc.) o mediali (il Marvel Cinematic Universe o il DC Extended Universe). Un’altra declinazione delle strategie di branding implica il rilancio di titoli già noti, che oggi si traduce in revival e reboot,[8] stimolati ancora una volta dai modelli di business OTT.  La disponibilità costante di contenuti e la conseguente possibilità di recupero offerte dalle piattaforme online hanno infatti aperto uno scenario in cui le library assumono anche la funzione di archivi. La possibilità di rivedere o recuperare serie già concluse con tempi personalizzati ha permesso a questi programmi di assumere nuovo valore per gli utenti, la produzione e la piattaforma di streaming che le ripropone. Questo sta avvenendo sempre più frequentemente attraverso i revival, cioè il riavvio della produzione di serie cancellate dai palinsesti. Nel complesso, queste operazioni ruotano intorno allo sfruttamento dei brand degli show, che assumono maggiore valore ora che allora grazie a un effetto-nostalgia e all’acquisizione dello status di “classico”. Si pensi a The X-Files e 24, tornati su FOX grazie ad accordi con Netflix. Tornando alla contrazione dei formati, importante è anche il loro confezionamento promozionale come limited series event di pochi episodi, che presenta il prodotto come evento unico e apparentemente irripetibile, da non perdere, con dei costi di entrata per i telespettatori relativamente bassi vista la durata della narrazione. Il formato delle miniserie o delle limited series event sembra infatti il più funzionale ai revival: i casi citati sopra, per esempio, testano la fattibilità del progetto sul lungo termine (quindi la possibilità di un reboot della serie) attraverso un impegno sul breve termine (appunto, le mini serie evento).

Va infine citato il discorso del prestigio differenziante, che è riconducibile a determinate modalità narrative, a standard tecnici, a stili visivi, alla reputazione di nomi autoriali che “nobilitano” il prodotto e, sempre più, a tematiche fortemente contemporanee, con un mandato sociale e politico. Per esempio, il successo di serie come Orange is the New Black, Jane the Virgin, Crazy Ex-Girlfriend o The Good Place non è realmente quantificabile attraverso scale di misura tradizionali. Si tratta piuttosto di un successo in termini di critica, nomination e premi, costituzione di discorsi positivi che trasformano le serie in risorse sul lungo termine, sfruttabili su più piattaforme. Mi riferisco soprattutto alle esternalità positive connesse al valore culturale del prodotto, che deriva valore da narrazioni che innovative, rischiose, audaci dal punto di vista tematico e contenutistico attraverso la messa in scena di personaggi non solo complessi e conflittuali, ma appartenenti a categorie sociali tradizionalmente, per diversi motivi, sotto-rappresentate. Dal punto di vista narrativo, passiamo dagli show sulle minoranze come eccezioni di palinsesto, all’inclusione di queste minoranze in serie di primo piano e con ruoli importanti, in una normalizzazione della rappresentazione della diversità che tenta di andare oltre gli stereotipi e gli schemi istituzionalizzati.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

[1] Fred MacDonald, One Nation under Television: The Rise and Decline of Network TV, Nelson-Hall, Chicago 1994

[2] Pratica che permette la vendita della licenza di ritrasmissione di un programma a un’altra emittente dopo una determinata soglia di episodi.

[3] Con production values si intende la combinazione di qualità tecniche e abilità pratiche/creative nella produzione di un audiovisivo o una performance.

[4] L’abbonamento mensile stand-alone permette di pagare per il solo servizio online, senza la necessità di acquistare l’intero pacchetto televisivo.

[5] Gli early adopters sono coloro che usano un prodotto o un servizio non appena diventa disponibile, potenzialmente anticipando il suo eventuale successo di massa.

[6] Gli YouTubers sono creatori di contenuti, spesso seriali, per YouTube; i mashup sono remix audiovisivi che combinano due o più produzioni per crearne una nuova o dare alle originali nuovo significato; le wiki sono piattaforme collaborative che offrono contenuti generati dagli utenti, modificabili tramite browser personali; le fanfiction sono racconti, più o meno lunghi, scritti da fan e basati su personaggi celebri, finzionali o non.

[7] Il binge-watching, letteralmente “visione ad abbuffata”, fa riferimento alla pratica di visione di molti episodi di una serie in maniera continuativa, in una sorta di maratona.

[8] I revival implicano il ritorno di una serie molto tempo dopo la sua chiusura, con gli stessi personaggi; i reboot sono il riavvio della serie attraverso un nuovo corso, spesso con nuova produzione e nuovi personaggi.