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Gianfranco Marrone: “Poliedricità, parola giusta per definire Eco”

“Poliedricità, parola giusta per Eco”

Una chiacchierata sul grande semiologo e sul suo postumo “Sulle spalle dei giganti”

Gianfranco Marrone

Opinionista, saggista, autore televisivo, romanziere, docente universitario, massmediologo, editore, uomo enciclopedico, tutto questo è stato Eco. Grande novità da lui introdotta, quella di studiare i mass media con le categorie della storia della filosofia e non con le comunicazioni di massa stesse, come avviene oggi. Inoltre, una tradizione filosofica alle spalle, con cui fare sempre i conti. Poi, tre “scaffali” nella sua produzione, quello di teorico, di opinionista, di romanziere. Infine, un libro postumo, Sulle spalle dei giganti, non accademico, dove parla, tra l’altro, del parricidio.

Questi i tratti più significativi di Umberto Eco rievocati da Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, che su questo tema il 28 ottobre scorso avrebbe dovuto tenere con Paolo Fabbri (CISS, Centro Internazionale di Scienze Semiotiche, Urbino) una conferenza al Festival Mimesis di Udine su L’attualità della semiotica. Che fare dopo Umberto Eco?

Eco è una figura poliedrica, che scrive opere come Diario minimo (1963), Apocalittici e integrati (1964), Il superuomo di massa (1978), dedicate alla cultura di massa e all’attualità, e lavori più accademici, dove fa ampio uso della teoria della comunicazione e dello strutturalismo (Opera aperta, 1962, Trattato di semiotica generale, 1974, Lector in fabula, 1979). Come si è conciliato tutto questo?

Poliedricità è la parola giusta per definire Eco. Infatti era un intellettuale a tutto tondo, un professore universitario, un filosofo, un esperto di semiotica, disciplina che ha contribuito a fondare, ma anche uno scrittore, un opinionista sui giornali e non da ultimo un massmediologo. Inoltre, prima di essere docente universitario, è stato a lungo un autore televisivo, e ha continuato a essere sono alla fine un editore: ha lavorato molto presso le case editrici, soprattutto la Bompiani, prima che la lasciasse per motivi personali nell’ultimo anno della sua vita. Tutto ciò non è una contraddizione. Eco non era un esperto, ma un enciclopedico. L’esperto è colui che sa tutto di un argomento senza sapere niente di altro, invece l’enciclopedico sa dove poter andare a cercare le cose, appunto come se fosse un’enciclopedia vivente. In particolare poi, per quanto riguarda il suo essere esperto in comunicazioni di massa e l’essere un filosofo, le due cose si conciliano perfettamente, perché Eco ha sempre detto che le comunicazioni di massa vanno studiate con le categorie della filosofia, e non con le comunicazioni di massa stesse, come avviene oggi. Nel suo primo libro, Opera aperta, c’è un lungo capitolo sulla diretta televisiva – siamo nel 1962, quando questa era ancora una grande novità tecnologica – e Eco la studiava con le categorie della Poetica di Aristotele, cosa che a suo tempo fece scandalo mentre oggi è un’ovvietà, ma lo è grazie a lui. Infatti per la prima volta ha messo insieme il sapere cosiddetto “alto”, delle accademie, con quello popolare, dei mass media. Attraverso le teorie letterarie, filosofiche, ha studiato la TV, la pubblicità, il fumetto, la canzone di consumo. L’’utilizzo delle categorie filosofiche per studiare la cultura di massa ha prodotto la semiotica. Questa, secondo lui, è lo studio di tutti i linguaggi attraverso le grandi categorie della filosofia classica riviste dai teorici specifici della semiotica come Peirce da un lato, e Saussure e la tradizione dello strutturalismo dall’altro.

La semiotica intesa come filosofia non è come quella greimasiana che si rifà di più a Saussure e alla linguistica…

Greimas aveva un interesse teorico che coincideva solo in parte con quello di Eco, che aveva studiato filosofia alla grande scuola torinese ed era un grande esperto di filosofia medievale e quindi dell’aristotelismo. Dall’altro lato sempre Eco aveva anche un grandissimo interesse verso le sperimentazioni artistiche e letterarie. In Opera aperta infatti ha messo insieme lo studio dei mass media, della filosofia, di Joyce. Inoltre è stato uno dei fondatori del Gruppo ’63, grande gruppo di sperimentazione letteraria. Greimas invece si riallacciava a una tradizione che assomma la linguistica strutturale all’interesse verso la mitologia e l’antropologia. Era un linguista, un esperto di testualità letteraria, ma ha studiato moltissimo anche le mitologie: è infatti appena uscita in Italia la traduzione di un suo libro sulle mitologie della Lituania.

Eco è stato anche autore di best seller come Il nome della rosa (1980). Tutto ciò quanto è entrato in simbiosi con la sua produzione teorica?

Molti hanno sostenuto che non c’è nessuna relazione tra Eco scrittore e Eco saggista, ma io, come tanti altri, non sono di questo parere. La spiegazione potrebbe stare forse nel risvolto di copertina della prima edizione de Il nome della rosa, in cui Eco scrisse, parafrasando un famoso aforisma di Ludwig Wittgenstein (“Tutto ciò di cui non si può dire si deve tacere”), “di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”. Questa frase che aveva scritto un po’ per scherzo è molto significativa: Eco ha voluto giocare di sponda tra la teoria, appunto la semiotica, e il romanzo, cercando di trovare in questo delle teorie sotto forma di storie. Oggi si usa tanto parlare di storytelling e lo si considera come una forma di persuasione, ma per Eco invece la narrazione è una forma di teoria con altri mezzi. Nel suo secondo romanzo, Il pendolo di Foucault (1988), ha fatto la stessa operazione: aveva studiato teoricamente il problema dei limiti dell’interpretazione, che è il titolo di un suo libro accademico (I limiti dell’interpretazione, 1990), e nel romanzo ha raccontato cosa succede se si superano tali limiti.

Come si profilano i libri che raccolgono Le bustine di Minerva una pagina che Eco ha pubblicato per tantissimi anni su L’Espresso fino praticamente alla sua morte?

Questo è ciò che lui chiamava il suo terzo scaffale, dopo quello dei libri teorici e dei libri narrativi. Sarà sì il terzo scaffale, ma non in ordine di importanza, in quanto questi scritti per certi versi sono i più interessanti perché intervengono con grande capacità di analisi sull’attualità, italiana e no. Tra l’altro, prima di iniziare le sue bustine di Minerva, era già stato editorialista de L’Espresso, e ancora prima de Il Manifesto, dove si firmava con uno pseudonimo. Nelle prime bustine (anni ‘80 e primi anni ’90) si occupava molto di mass media, mentre nelle ultime dominano gli articoli sul web e sui social media perché l’interesse verso i media si ridimensiona e diventano per lui più interessanti i nuovi media.

A proposito del potere destabilizzante dei media Eco aveva coniato il concetto di guerriglia semiologica…

Questa è una nozione che formula in un convegno a New York del 1967. Essa dice che uno dei modi per combattere i media è usare i media stessi stravolgendone il significato, prendendo per esempio un Tg e facendolo diventare una trasmissione comica. Ciò poi è effettivamente successo con le TV private, che ne hanno stravolto il senso, ma ancor prima nel ‘77 quando, soprattutto a Bologna, al DAMS dove lui insegnava, nasce il grande movimento di sberleffo verso i media. Il concetto di guerriglia semiologica Eco lo formula nel 1967 ma ci vogliono dieci anni prima che la gente lo capisca e lo metta in pratica.

Ci potrebbe dire qualcosa su Sulle spalle dei giganti, la raccolta, uscita postuma, delle conferenze che Eco ha tenuto per molti anni alla Milanesiana, festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi?

È un libro molto bello per varie ragioni, per esempio perché contiene conferenze per un vasto pubblico e dunque scritte in modo non accademico. Poi, leggendolo, si ripercorrono i grandi temi tipici della sua opera, come quello del complotto, di cui si parla soprattutto ne Il pendolo di Foucault, della verità, della falsità e della menzogna, della bellezza, della bruttezza, dell’assoluto e del relativo, ecc.. Il saggio più interessante è il primo, quello che dà il titolo al libro, appunto Sulle spalle dei giganti, dove Eco riprende questo vecchio aforisma di Bernardo di Chartres (XII sec.): “Siamo come dei nani ma sulle spalle dei giganti”, ne ripercorre la storia spiegando come esso è un modo per leggere la storia della cultura. Partendo dal concetto di parricidio dice che tutti i figli vogliono uccidere i padri per riprendere i nonni, cioè l’andare avanti nella storia della cultura è sempre stato il tentativo di recuperare non ciò che ha detto la generazione precedente, ma quella precedente ancora, e quindi guardare verso il futuro è sempre guardare verso il passato, cioè stare sulle spalle dei giganti significa riprendere la tradizione, ma guardando un po’ oltre.

Cosa avrebbe voluto dire sull’attualità della semiotica dopo Eco al Festival Mimesis di Udine a cui avrebbe dovuto partecipare il 28 ottobre scorso?

Avrei detto che, usando lui come gigante sulle cui spalle poter stare, possiamo andare un po’ oltre. Credo poi che Eco ci abbia lasciato l’idea dell’enciclopedismo, e dell’utilizzo della semiotica non come teorie fini a se stesse, ma come degli occhiali con cui guardare criticamente il mondo. Infine, avrei parlato dell’idea di critica usata da Eco intesa sia nel senso kantiano di studio delle condizioni di possibilità della conoscenza, sia in quello di intervento polemico rispetto all’attualità.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

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