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Luca Barra: Sitcom, perché in Italia solo Boris e Casa Vianello

Luca Barra

“Sitcom, perché in Italia solo Boris e Casa Vianello”

Il perché di un genere quasi solo americano spiegato in un libro edito da Carocci

Luca Barra
Luca Barra

Un genere leggero, con trame che fanno ridere, con aggiunta, nella narrazione, di risate che sottolineano i momenti comici. Una tradizione che ha avuto una lunga storia negli States, con titoli che hanno fatto epoca come I love Lucy, ma che in Italia ha sempre stentato, con due soli grandi testi, Casa Vianello e Boris, rispettivamente mainstream e di culto.

Poi, con l’arrivo delle TV non lineari, una “questione ancora aperta”, con la difficoltà di produrre nuovi titoli e con uno sguardo, nella programmazione, rivolto al passato.

Sono questi i nuclei portanti di un genere televisivo, la sitcom, raccontato da Luca Barra, docente di Storia della televisione all’Università di Bologna, nel suo La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, edito da Carocci.

Cosa direbbe a un lettore inesperto per definire una sitcom?

La sitcom è genere televisivo che tutti sappiamo intuitivamente individuare, ma di cui fatichiamo a definire i tratti distintivi. Soprattutto negli Stati Uniti, ha una rilevanza forte, sia da un punto di vista storico, in quanto nasce lì, e lì si sviluppa, sia oggi, visto che ogni anno vi sono sitcom in cima alle classifiche dei programmi più visti, e il genere mantiene una popolarità molto forte. Invece in Italia questa centralità arriva un po’ meno, perché tendiamo a considerarla come un sottogenere minore della serialità.

La caratteristica fondamentale della sitcom è quella di portare lo spettatore a ridere e insieme a sorridere. Ha una derivazione insieme di tipo teatrale e di tipo radiofonico, e quindi si basa su strutture narrative e produttive abbastanza stabili. Dal punto di vista narrativo, sitcom significa situation comedy, “commedia di situazione” con una rottura dell’equilibrio, vari tentativi di ristabilirlo, e alla fine un ritorno all’equilibrio iniziale: in qualcuna si ritorna esattamente all’inizio, e i personaggi non hanno memoria di quello che è successo loro prima. In altri casi, nella sitcom più recente, abbiamo invece anche percorsi narrativi che si sviluppano di puntata in puntata, ma c’è comunque sempre una storia che si esaurisce di episodio in episodio.

Un’altra caratteristica è produttiva: la sitcom è una storia abbastanza compatta, della durata di circa mezz’ora lorda, netta di 20 – 22 minuti, ritmata dalle pause pubblicitarie. È una narrazione realizzata in studi televisivi dove c’è un pubblico, che porta alle cosiddette “risate in scatola”, alla laugh track che sta in sottofondo e che caratterizza il genere in maniera forte. Inoltre le modalità di ripresa sono molto simili a quelle dell’intrattenimento televisivo, con tre o quattro telecamere che contemporaneamente riprendono un unico palco, con alcuni set fissi e ricorrenti, e gli attori che si esibiscono. Questo la accomuna al teatro, con le telecamere che riprendono da varie angolazioni, e il pubblico in studio che reagisce alle battute degli attori.

Della sitcom, dunque, si ha il “montaggio” in diretta. Non viene effettuata affatto la postproduzione?

Con I love Lucy, il primo grande successo del genere, abbiamo già una serie di pulsioni, persino un rovesciamento dei ruoli tra realtà e finzione. La protagonista femminile, Lucy, che è rappresentata sullo schermo come una svampita, nella realtà era quella che comandava, era la produttrice della serie, la protagonista assoluta, e quindi il gioco comico passava anche attraverso il contrasto tra il suo personaggio sullo schermo e la celebrità di cui godeva nella vita reale. Col procedere dei decenni c’è una sitcom legata ai valori familiari, ai quartieri residenziali fuori dalle grandi città, alle comunità rurali dell’America profonda, ma anche una sitcom fantascientifica con al centro mostri e altri personaggi soprannaturali dove si trasfigura la paura dell’altro (siamo in piena Guerra Fredda). Negli anni ‘70 c’è un’attenzione ai valori progressisti: All in the Family, Mary Tyler Moore, M.A.S.H. sono esempi di questo periodo. Negli anni ‘80 si dà più importanza all’individuo, in un’ottica più conservatrice (sono gli anni di Reagan). Negli anni ‘90 sono rappresentate famiglie disfunzionali, gruppi di amici, come in Seinfeld, Friends, ecc. E anche nella sitcom contemporanea c’è un’attenzione verso le nuove organizzazioni familiari, verso la figura femminile, sempre più autonoma e indipendente, verso l’omosessualità, verso, proprio come all’inizio della storia della sitcom, le minoranze (latine, asiatiche, afroamericane, ecc.). La sitcom quindi, anche quando non si fa portatrice di messaggi in senso forte, resta comunque un termometro importante di una società americana che cambia.

Perché, nei palinsesti italiani, una distribuzione così disordinata di sitcom importate dagli Stati Uniti?

Perché non l’abbiamo mai capita fino in fondo, o comunque l’abbiamo sempre interpretata a modo nostro. La sitcom ha un legame fortissimo con il paese e con il pubblico per cui è creata, e quindi quella americana lo ha con la propria società, dando per scontati molti elementi che per noi italiani non lo sono. Questo fattore ha sempre un po’ rallentato in Italia la fortuna del genere, considerato un po’ laterale, minoritario, banale. All’inizio si ha per esempio un fraintendimento con le risate registrate…

Personalmente, a me danno fastidio, in quanto sembra che mi dicano quando devo ridere…

Sono fatte per non farci ridere da soli davanti al teleschermo, perché quando uno ride da solo si sente un po’ in imbarazzo, e quindi le risate sono introdotte per dare un senso di comunità. Sappiamo che tante altre persone, vedendo la stessa serie, proprio quando la stiamo vedendo noi, hanno la stessa reazione, le stesse risate, confermate appunto dalle “risate in scatola”. Le risate del pubblico in studio sono quelle di chi assiste alla sitcom, e sono arricchite o un po’ addolcite in postproduzione. Quando però la laugh track arriva in Italia, c’è un certo fastidio per le risate di sottofondo: da un lato in Italia non eravamo abituati, in quanto negli altri prodotti importati (come film e serie di tipo drama) non ci sono, e dall’altra il doppiaggio spesso non era altrettanto abile, rispetto all’originale, di portare lo spettatore italiano a ridere al punto giusto.

Così, quando la sitcom americana ha cominciato a diffondersi in Italia?

La sitcom diventa di successo prima quando si rivolge soprattutto a bambini e ad adolescenti, con Happy Days. E poi c’è un momento in cui arriva, alla fine degli anni ‘70 e negli ’80, grazie alle TV commerciali, e gode di una buona popolarità (I Jefferson, I Robinson). Più tardi, invece, l’interesse italiano verso la sitcom proviene non solo da un pubblico popolare, ma anche da uno un po’ più colto, che magari vuole vedersela in originale, e che capisce meglio le battute legate alla realtà americana. Negli anni Duemila, grazie alle reti satellitari, e ora grazie alle piattaforme digitali, in Italia arriva tantissima comedy, ma è una comedy che diventa anche un po’ di nicchia, e anche questo in fondo è un tradimento rispetto al contesto originale. L’ultimo grande successo davvero trasversale della sitcom italiana è forse stato Friends. Negli anni successivi ci sono stati altri titoli che hanno avuto una certa popolarità, ma spesso legata a una comunità di fan, a pubblici generazionali o a chi sa ridere di una certa comicità americana.

Per quale motivo Mediaset è stata meno “timida” della Rai nella via italiana alla sitcom? E perché tanti fallimenti?

Credo che il primo tentativo convinto di produrre sitcom italiane sia legato a due fattori connessi. Da un lato, negli USA la TV è soprattutto commerciale. Negli anni ‘80 Finivest impone in Italia il modello commerciale, e ha ovviamente in mente la TV americana: pone, pertanto, molta attenzione a quello che avviene là a tutti i livelli, sitcom compresa. Tante sitcom americane arrivano grazie a Finivest, e da qui nasce il tentativo di farne delle nostre. Il secondo fattore è il fatto che la sitcom è un genere a basso costo, con un modello produttivo industriale, e quindi questa è un’altra ragione per cui si è provato a portarla sul mercato italiano. Negli stessi anni la Fininvest lo ha fatto per la serialità per ragazzi, come qualche anno dopo la Rai e poi Mediaset lo faranno per la soap. Sono generi industriali, che permettono una lunga serialità, una ripetizione molto forte a costi relativamente contenuti rispetto alla fiction di prime time.

Le ragioni di questo fallimento, invece, sono tante, anche se il tentativo è stato sincero. Ci sono stati alcuni successi, il più grande dei quali è Casa Vianello. Lungo gli anni ‘90 e forse all’inizio degli anni 2000 si era quasi trovata una quadra del modello all’italiana: ma da noi è sempre mancato l’aggancio con la realtà sociale, culturale e politica nazionale. Non essendoci questo, la sitcom nostrana è rimasta legata all’avanspettacolo, prima con i grandi interpreti di questa tradizione come Vianello e Mondaini, Bramieri, ecc., e poi con alcuni personaggi televisivi, che hanno provato a modernizzare un po’ ma senza effettivi cambiamenti. Mentre la sitcom cambiava tantissimo negli States, in Italia è rimasta legata a formule vecchie e mai digerite del tutto, con il conseguente esaurirsi dell’esperimento.

Perché solo Casa Vianello e Boris, rispettivamente testi mainstream e di culto, sono le uniche sitcom italiane rimaste nell’immaginario collettivo?

Casa Vianello ha avuto un così grande successo per via dei due protagonisti, dell’affetto che hanno raccolto nella loro carriera precedente e poi in quei tantissimi anni in cui, come dire, era molto evidente la commistione tra la loro vita personale e quella che mettevano in scena.

Il caso di Boris è diverso, in quanto è stata una visione di culto: la sua grande fortuna è legata alla qualità della scrittura, di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo. Questi da un lato hanno “scorticato viva” l’industria televisiva italiana, mettendola costantemente in parodia, e dall’altro sono riusciti a inserire nella serie anche tantissimi riferimenti al carattere nazionale italiano, facendovi dei richiami persino anticipatori. Dopo essere uscita dal catalogo, Boris è tornata su Netflix qualche giorno fa, e rivederla in queste settimane di quarantena fa capire come su molte cose resti di un’attualità sconcertante.

Nuove modalità di fruizione con le TV non lineari: quanto cambia e quanto invece rimane invariato?

Rispetto alla sitcom cambia tanto e cambia poco. Da un lato ci sono le piattaforme non lineari, on demand, Netflix, Amazon, ecc., che stanno cercando con più o meno convinzione di produrre delle loro sitcom, o ancora meglio, seguendo la tendenza degli ultimi anni, delle comedy, termine più largo.

Questo avviene negli States…

Sì, stiamo parlando degli Stati Uniti: in Italia c’è ancora molto poco, stanno facendo qualcosa RaiPlay, o Sky, ma in genere la sitcom non è la priorità. Come dicevo, anche negli Usa ci sono molti tentativi di fare comedy contemporanee. Tuttavia, la modalità di distribuzione di Netflix, che mette a disposizione dello spettatore, in un solo weekend, l’intera stagione, va a scardinare quel punto di forza della sitcom tradizionale che è la creazione di un appuntamento stabile, agganciandosi alle festività, e poi la durata nel tempo. Si ha così questa contraddizione: da un lato si investe molto per puntare su comedy che funzionano, ma dall’altro su una piattaforma on demand non si può dare loro lo spazio che le fa crescere e diventare dei veri e propri fenomeni.

Questo è ciò che cambia, poi c’è ciò che cambia poco, cioè il fatto che paradossalmente, sempre su queste piattaforme, le sitcom tradizionali, di maggiore successo, anche in replica e anche decine di anni dopo la loro chiusura, continuano a essere viste da tantissime persone. Per questo motivo, per esempio, Netflix ha investito milioni di dollari per avere Friends e, quando lo perderà, lo sostituirà con Seinfeld, e o stesso anno, per prodotti simili, altre piattaforme digitali. Sono tutte sitcom create dai network, quindi dai loro “acerrimi” nemici, ma che in realtà costituiscono un elemento cruciale anche per le TV non lineari. La sitcom infatti, tra i tanti vantaggi, ha la possibilità di essere ripetuta più volte senza invecchiare. A essa non diamo tanta importanza, in quanto è leggera, ma proprio qui sta il suo valore: si tratta di quello che gli americani stanno chiamando comfort television. Anche in queste settimane, tantissime persone hanno scelto, invece di dedicarsi a narrazioni più ansiogene o più impegnative, di rivedere magari per l’ennesima volta alcuni episodi di Friends o di altre sitcom.

MARIA GRAZIA FALÀ