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Laura Gemini: “Utenti Facebook, non più distinti tra online e offline”

 

“Utenti Facebook, non più distinti tra online e offline”

Laura Gemini dell’Uniurb illustra un’indagine qualitativa a più mani sullo stare connessi sul social network più famoso

Laura Gemini

Su Facebook non esiste, come comunemente si crede, un dualismo digitale tra online e offline. Quanto ai contenuti da postare, gli utenti scelgono di solito argomenti “leggeri”, non tristi, quasi sempre politicamente neutri. La friendship, poi, si articola secondo le modalità del “ingiunzione alla connessione” (dover stare connesso), dello stay tuned (stare in contatto con gli altri in qualsiasi momento), del “controllo”, del “silenzio” (svincolarsi da una relazione senza escludere gli altri dalla comunicazione). Infine, lo “stare su Facebook” non viene visto più, come affermava Goffman, come un unico frame, ma come compresenza di frame diversi. Sono queste le principali conclusioni a cui è arrivato il team di lavoro che ha pubblicato per Guerini Scientifica Fenomenologia dei social network. Presenza, relazioni e consumi mediali degli italiani online. Laura Gemini, docente in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Urbino, capofila del progetto, espone le principali linee guida di questa ricerca sullo “stare su Facebook”, ricerca che ha visto condurre 120 interviste in profondità a un campione rappresentativo della popolazione italiana.

Come si articola l’indagine: è una delle prime sul campo che non si rivolge a studenti del proprio corso di laurea o ad adolescenti, ma che analizza un campione rappresentativo di utenti di Facebook?

Giovanni Boccia Artieri

La ricerca che sostanzia le riflessioni contenute nel nostro volume è il frutto di un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale – PRIN – promosso dal Miur, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che ha coinvolto quattro università italiane – noi di Urbino come capofila (con responsabile Giovanni Boccia Artieri), l’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (responsabile Fausto Colombo), l’Università di Bergamo (responsabile Francesca Pasquali, fra gli autori del volume), l’Università della Calabria (responsabile Giovannella Greco) – garantendo un ampio lavoro sul campo. Proprio perché ci interessava indagare le biografie degli utenti abbiamo costruito un insieme di riferimento empirico di 120 interviste rappresentativo della popolazione italiana su Facebook che ha tenuto conto perciò delle variabili di genere, di età e di penetrazione territoriale. Effettivamente questo lavoro rappresenta la prima ricerca qualitativa rivolta ad un gruppo numeroso ed eterogeneo di utenti. Sottolineo la dimensione qualitativa dell’indagine che è stata realizzata attraverso la somministrazione di un’intervista semi-strutturata, dove ricercatore e utente hanno affrontato le tematiche relative alla biografia d’uso di Facebook davanti allo schermo, a partire dal profilo. Tutto questo per dire che 120 interviste molto approfondite qualitativamente possono essere considerate un numero piuttosto elevato di casi anche se non corrispondono ai valori necessariamente superiori di una survey.

Cosa si intende per coalescenza tra mondo online/offline, tra mondo vicino/mondo lontano e tra pubblico/privato?

Coalescenza è il concetto che esprime lo sfumarsi dei confini fra coppie di opposti di origine binaria. Grazie a una parola che rubiamo a Henry Bergson ci permette di osservare una condizione percettiva e conseguentemente un modo di agire delle persone che non si basa sulla netta distinzione fra due termini ma come implicazione reciproca. Lo stato di complessità che in linea generale la società contemporanea sta raggiungendo – nella teoria che fa da sfondo alla nostra ricerca possiamo parlare di società-mondo – rende sempre più difficile osservare le categorie dell’esperienza pubblica e privata, come pure le identità e le relazioni secondo distinzioni nette. Facebook, e le piattaforme di social networking, sono a nostro avviso dei luoghi di osservazione privilegiati di questo processo. Se infatti gli studi sulla cultura digitale hanno dimostrato o postulato il superamento del dualismo digitale, cioè di due ambiti distinti dell’esperienza “dentro” il mondo online e “fuori” nella vita “reale”, i nostri intervistati danno conto di questa continuità sia sul piano della comunicazione, sia nel modo di gestire i propri comportamenti. Il che non vuol dire che non postulino delle differenze, in certi casi anche di valore, fra i due ambiti, ma sta di fatto che a diversi gradi di intensità, a seconda anche dei diversi momenti della propria vita, la quotidianità si spalma e si collega fra offline e online che in questo senso sono coalescenti.

Ne consegue che questa condizione impatti sulle relazioni sociali che sono l’elemento caratterizzante il concetto stesso di social networking. La sociologia ha già ampiamente descritto i mutamenti che riguardano il soggetto moderno e i legami sociali mettendo ad esempio in evidenza come le relazioni impersonali acquistino intensità nelle diverse cerchie cui si partecipa. In questo senso abbiamo usato il concetto di Sé neoliberale per indicare le dinamiche con cui gestiamo i rapporti in rete “investendo” le nostre risorse personali ed espressive in vista di un certo risultato (relazionale e di visibilità ad esempio). Su queste basi Facebook partecipa a un cambiamento di significato del termine amicizia perché come sappiamo all’interno della categoria dei friend possiamo comprendere soggetti molto diversi, che appartengono a cerchie affettive oppure no. Proprio su questo è stato particolarmente interessante vedere come gli intervistati mettono a tema questa questione, come riflettono sul “senso” e anche sull’uso della parola amicizia, chiarendo come il contesto comunicativo della piattaforma permetta di trattare la gamma di relazioni che si hanno operando, di volta in volta, le distinzioni fra quello che si ritiene essere parte del mondo vicino e/o del mondo lontano. In certi casi infatti le relazioni che offline fanno parte del mondo vicino, ad esempio i genitori o il partner, sono meno significative, meno interessanti da alimentare, rispetto a quelle con i colleghi o con persone che si conoscono, o meglio ancora si frequentano, online sulla base di una condivisione di interessi, ad esempio, e con le quali si ha interesse a intensificare lo scambio. Coalescenza in questo caso indica come nella continuità offline/online le reti intessute nel quotidiano, vicine, si intreccino con quelle lontane – riattivate con un like, un commento, un messaggio – ridisegnando i confini dell’intimità e della relazione.

Lo stesso tipo di osservazione si applica al rapporto fra pubblico e privato a cominciare dalla spinosa questione della privacy e della consapevolezza delle proprie azioni in ambienti semi-pubblici come quelli dei Social Network. Qui ci è parso di poter affermare, grazie ai nostri intervistati, come l’essere connessi porti a gestire quotidianamente il rapporto fra vita privata e vita pubblica non (più) tanto come questione legata allo spazio, dove sono i luoghi a definire i due contesti, ma come modalità di gestione della comunicazione, come selezioni comunicative che ognuno di noi compie nei luoghi anche mediali. Ad esempio posso scegliere di postare le mie foto private su Facebook e avere un profilo pubblico per cui le vedono tutti ma posso problematizzare questa possibilità e limitare il grado di pubblicità di questa mia condivisione privata… Questo cosa comporta? In primo luogo il fatto che la condizione sociale – cioè comunicativa – in cui ci troviamo porti al contemporaneo essere pubblico e avere un pubblico: come dire, abbiamo interiorizzato il nostro essere prosumer, produttori e generatori di contenuti che vengono condivisi con e dagli altri. Lo stato di coalescenza fra pubblico e privato richiede perciò un certo grado di riflessività, cioè di applicare l’osservazione su di sé e applicare di volta in volta la distinzione pubblico/privato su ciascuno dei due lati.

Come si struttura il modo in cui gli intervistati concepiscono il produrre/fruire contenuti su Facebook?

Innanzi tutto è bene precisare che nella nostra ricerca l’analisi relativa alla performance del contenuto tiene conto sia delle questioni legate all’universo UGC, cioè della connotazione del web come luogo in cui gli utenti generano contenuti (visuali e testuali), sia della gestione dei contenuti come pratiche identitarie, di espressione del gusto, di visibilità, ecc. che si definiscono attraverso la coalescenza offline/online, mondo vicino/mondo lontano e pubblico/privato. Inoltre si tiene conto della ridefinizione del rapporto con i media per cui i social media, e Facebook in particolare, funzionano come hub in cui confluiscono contenuti istituzionali e generati dagli utenti, mainstream e non, ecc. Ma quello che emerge abbastanza chiaramente dai nostri intervistati è come gli utenti siano soprattutto consumatori di contenuti altrui coerentemente alla condizione di avere ed essere pubblico che caratterizza le piattaforme di social networking. In questo senso i contenuti sono sia gli elementi espressivi e identitari, sia una moneta di scambio relazionale importantissima che si attiva però come reciprocità di sguardi.

Quello che emerge dalla ricerca è la modalità con cui gli intervistati danno conto di una sorta di evoluzione della produzione e nel consumo di contenuti. In questo senso si afferma la centralità della biografia d’uso: chi sta da più tempo su Facebook mostra una certa attenzione rispetto alla produzione di contenuti. Se all’inizio si tende a essere molto attivi, nel tempo Facebook diventa una piattaforma di lettura più che di scrittura: la lettura dello stream e delle bacheche altrui, la condivisione di contenuti e la loro organizzazione prevale sulla produzione in proprio. Inoltre, un numero rilevante di intervistati ha descritto le pratiche e le strategie per nascondere o saltare contenuti e profili che non gli interessano. Naturalmente stare su Facebook implica una seppur minima attività: l’aggiornamento dello status, il like e la condivisione sono infatti le pratiche prevalenti. Quello che poi differenzia i nostri intervistati riguarda il tipo di tema su cui aggiornare lo status, i toni utilizzati, la frequenza dell’aggiornamento che ovviamente cambiano da utente a utente e che riguarda la percezione del proprio pubblico di riferimento e i feedback che si ricevono. Aforismi, ma anche immagini, meme e infografiche sono le tipologie di contenuto più frequenti: brevi, d’effetto e già disponibili e pertanto adatte a “girare”. Si tratta spesso di notizie curiose, di solito fornite dalle pagine online dei soggetti istituzionali (quotidiani ad esempio), che vengono fatte girare per commentare con le proprie reti. Per quanto riguarda invece i contenuti UGC la produzione varia rispetto all’età, prevalentemente, ma può essere interessante mettere in evidenza, anche per smorzare un po’ certe visioni apocalittiche e di senso comune, come molti intervistati tendano a non pubblicare contenuti troppo intimi, sentimentali… troppo privati insomma. Meglio parlare di piccoli accadimenti del quotidiano, un racconto sobrio per il pubblico di amici e contatti. La complessità del fenomeno però è dimostrata anche dal fatto che parallelamente alla tendenza selettiva di molti c’è chi rivendica la possibilità di postare contenuti personali e la rinuncia alla privacy come logica di accesso alla piattaforma.

Così come una certa refrattarietà riguarda i contenuti ritenuti troppo tristi che non si adattano all’uso più ludico e rilassato di Facebook. Chi tende a produrre più contenuti è inoltre attento all’estetica, alla qualità di quello che posta. Alcuni, ad esempio, utilizzano i software per il photo-editing per ottenere una resa semi-professionale, creativa, artistica. Tutto questo per dire che la gestione dei contenuti si basa su una serie di strategie di (auto)controllo che dipende dalla consapevolezza della coveillance, ovvero della “sorveglianza” reciproca. I nostri intervistati, in definitiva, non solo leggono e producono ma riflettono sui contenuti e agiscono di conseguenza. Mi sembra che questo dato depotenzi almeno in parte certe considerazioni di senso comune sul comportamento online delle persone.

La friendship: in quante maniere si articola?

A partire dal mutamento della semantica dell’amicizia e dalla coalescenza fra mondo vicino e mondo lontano, le interviste ci hanno permesso di identificare quattro performance della relazione, ovvero quattro pratiche di gestione dei rapporti sociali che ovviamente non distinguono altrettante categorie di utenti ma i comportamenti che gli utenti attivano e descrivono. Prima di tutto le pratiche di gestione della rete di amici rimandano alla “selezione” ovvero i criteri con cui si includono o meno gli altri, come si gestisce nel tempo la propria rete. Se ad esempio all’inizio domina il processo che abbiamo chiamato d’ingiunzione alla connessione, per cui si tende ad allargare la rete di amici, poi con il tempo si accettano meno richieste, o si eleminano o si negozia, ad esempio con i parenti, la “coazione morale all’accettazione” di un contatto. La seconda performance è quella che definiamo “stay tuned” ovvero l’altro lato della medaglia della selezione. Questa pratica riguarda il “semplice” stare in contatto con gli altri, la possibilità di attivarlo in qualsiasi momento. Una potenzialità che rinforza, paradossalmente, un legame debole. Facebook insomma lavora sul bridging, cioè fa da ponte fra noi e gli altri. Gli intervistati però mettono anche in evidenza come su Facebook siano all’opera anche pratiche di “controllo” (terza performance della relazione). L’intensità delle relazioni e il grado di comunicabilità interna fa sì che la dimensione semi-pubblica dell’ambiente comporti la visibilità di quello che si fa o si dice. Per alcuni il controllo dei famigliari, soprattutto per i più giovani, è uno degli aspetti che caratterizzano la piattaforma che può essere più o meno tollerato. E non va nemmeno trascurato il fatto che gli utenti definiscano se stessi controllori di altri (dei figli, del partner, ecc.). Poi c’è la performance del “silenzio”. Non si tratta solo dei meccanismi di lurking o social searching evidenziati dalla letteratura e che indicano le modalità con cui un utente segue i contenuti degli altri piuttosto che esporsi in prima persona, ma di una pratica che senza escludere gli altri dalla comunicazione si svincola dalla relazione. Questo tipo di pratica riguarda principalmente la gestione online delle relazioni intime offline, nella tendenza a non interagire senza per questo cancellare o non accettare il contatto.

Lo stare su Facebook non viene visto più, come diceva Goffman, come un unico frame, ma come compresenza di frame diversi. In questa situazione mutata si può parlare di cosmesi positiva, di cosmesi negativa, di cosmesi promozionale e di anticosmesi…

In linea con quanto detto fino ad ora la cosmesi riguarda la gestione del proprio profilo. Un’ulteriore dimostrazione della riflessività degli utenti, di una dimensione processuale e dinamica dello stare su Facebook che comporta azioni selettive e significati.

Abbiamo individuato quattro tipi di cosmesi. La “cosmesi positiva”, che è la più diffusa, è una strategia di rappresentazione del Sé che serve a coinvolgere in maniera mirata il proprio pubblico, costruendo una presenza di sé che coincide con l’aspettativa che si nutre nei confronti degli altri e che si lega al carattere relazionale di Facebook. Le pratiche di cosmesi positiva sono dirette ai friend ritenuti più significativi, sia i friend offline (mondo vicino) che si ritrovano online, sia con i diversi sottoinsiemi della propria rete sociale costruita in parte online e in parte offline. Contenuti più privati – ad esempio foto – vengono condivisi e diretti a persone che possono comprendere il significato ma nella consapevolezza di agire in pubblico. La cosmesi positiva è perciò una pratica di cura del profilo che lavora sulle relazioni per avvicinare il profilo alla self-presentation auspicata.

La “cosmesi negativa”, invece, è una performance strategica di self-presentation che ha uno scopo prevalentemente protettivo. La cosmesi negativa comporta l’auto-censura, l’attenzione nell’uso di tag e like, nella cura del profilo che limiti l’auto-esposizione.

Si tratta di “un uso più passivo che attivo, cioè molto attivo nei gruppi ma [meno] sulla mia bacheca”, dicono gli intervistati.

Piuttosto che essere mossa da una preoccupazione per la salvaguardia dei propri dati personali, la cosmesi negativa è una strategia del “ti sveli e non ti sveli” che può nascere dal timore di essere fraintesi. Infatti molti utenti intervistati scelgono di autocensurarsi quando sorge il dubbio che un contenuto possa essere frainteso da un membro della rete amicale.

L’”anticosmesi” è la strategia di presentazione di sé in cui si rinuncia ad attribuire a Facebook un ruolo attivo nella costruzione della propria identità. Dipende da uno scarso investimento simbolico sullo strumento, dalla mancanza di interesse e di tempo da dedicare. In questa performance prevale una sorta di retorica della spontaneità, ad esempio nel postare le foto “senza tanti problemi” che si riflette nel fatto di non essere preoccupati rispetto alle reazioni del proprio pubblico. In questo senso gli utenti considerano il loro profilo “sincero e trasparente”.

La “cosmesi promozionale”, infine, è una strategia di rappresentazione del Sé con un intento prevalentemente validante, che mira cioè a includere in maniera generica il pubblico, dando vita a una propria presenza che poggia sull’aspettativa orientata a un interesse possibile suscitato negli altri: in questo caso gli intervistati pensano, ad esempio, che Facebook serve anche per farsi vedere da quelle persone che non si vedono mai ma su cui si vuole fare colpo! Perciò in questa performance ci sta anche l’autocensura dei contenuti negativi non per sottrarsi alla comunicazione ma per rimuovere gli ostacoli che possono compromettere la propria reputazione.

MARIA GRAZIA FALÀ

Laura Gemini

 

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