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Scaglioni e Holdaway: “The Walking Dead, complessità del franchising transmediale”

“The Walking Dead, complessità del franchising transmediale”

Un libro edito da Mimesis parla della fortunata serie televisiva

Dom Holdaway

Una serie “complessa”, The Walking Dead, non in senso narrativo, ma del franchise transmediale. Un franchise, quello zombesco, che nasce come fumetto di buon successo e che poi si trasforma in un prodotto “di genere” per la TV. Una serie televisiva che approfitta della “zombie Renaissance” all’inizio degli anni Duemila per consacrare tale moda per un pubblico ampio e popolare. Poi, espansione, per TWD, dal fumetto alla serie, ed estensione transmediale, nel senso di proliferazione di videogiochi, parchi a tema, novellizzazioni, dedicati a questo argomento. Inoltre, un’autorialità “materiale”, nella creazione di The Walking Dead, ma soprattutto un’autorialità di brand, attribuibile a Robert Kirkman.

Un’America tendenzialmente progressista, quella tratteggiata nei film di Romero dedicati ai morti viventi, contro il libertarianismo della saga di TWD, dove la protezione dell’individuo, del “proprio rifugio” contro il diverso, fanno da padrone.

E un fandom estremamente complesso, quello di The Walking Dead, dove il momento più creativo è rappresentato dai racconti scritti dagli stessi fan, che si inseriscono in prima persona nella trama. Infine, una strategia comunicativa g/local, quella adottata da Fox International Channels, distributore di TWD nel mondo, pensata a livello globale con il contributo dei team nazionali più brillanti.

Queste, in sintesi, le osservazioni sulla saga di The Walking Dead emerse in una conversazione con Dom Holdaway, assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna e Massimo Scaglioni, Professore Associato di Storia ed Economia dei Media alla Cattolica di Milano. Occasione, il loro recente The Walking Dead. Contagio culturale e politica post – apocalittica, edito da Mimesis.

In che senso The Walking Dead (TWD) potrebbe essere definito un esempio di TV complessa, diversamente da quanto aveva ritenuto Jason Mittell nel suo Complex TV (2014) sempre a proposito della stessa serie?

Massimo Scaglioni

Scaglioni. La “complessità” sembra essere una delle caratteristiche della serialità televisiva contemporanea, e su questo tema Jason Mittell – uno dei più importanti studiosi di TV nel contesto nordamericano – ha scritto un importante volume. La complessità di molta serialità contemporanea è figlia dell’evoluzione tanto del sistema televisivo e mediale quanto della competenza degli spettatori. In un’età caratterizzata dall’abbondanza produttiva (nei soli Stati Uniti vengono prodotte più di 400 serie all’anno), le serie diventano sempre più raffinate e, appunto, “complesse” perché puntano su “nicchie” – sebbene molto ampie – di spettatori molto appassionati, attenti, capaci di decodificare testi piuttosto articolati (si pensi a “Lost”, modello della “TV complessa” dei primi anni Duemila). TWD offre un esempio di una “complessità” un po’ diversa da quella proposta da Mittell: non si tratta tanto di una complessità della narrazione, quanto di complessità del “franchise” transmediale. TWD nasce come fumetto, si trasforma in una serie televisiva, e entrambi – fumetto e serie – danno vita a una grande varietà di ulteriori testi “ancillari” (e persino uno spin-off, Fear The Walking Dead). L’elemento di maggiore complessità consiste dunque nel filo che collega questi diversi testi, e nel “gioco” che gli autori (e in primo luogo Robert Kirkman, che è responsabile tanto del “comic” quanto del prodotto tv, almeno in parte) istaurano con gli spettatori e con i fan.

Come nasce il franchise televisivo di TWD e come si inserisce nella politica di rete di AMC?

Scaglioni. Si tratta di uno dei casi di maggior successo della televisione americana degli anni dieci del 2000. TWD nasce come un fumetto di buon successo, ed è l’intelligenza e la lungimiranza di un importante regista/produttore come Frank Darabont a trasformare il “comic” in una serie che finisce per essere seguita anche da 17 milioni di spettatori negli Stati Uniti, un vero record per una televisione via cavo come AMC. TWD è il perfetto prodotto per una “basic cable”, ovvero una rete a pagamento inserita in un pacchetto di altre reti “a sottoscrizione” e presente in milioni di case americane: si tratta di un prodotto di genere, che ridefinisce i parametri del “racconto di zombie”. Non dunque una serie “autoriale” (come molti prodotti di HBO, da I Soprano a Six Feet Under), ma quello che abbiamo definito un “mainstream cult”, un prodotto di grande qualità destinato a un pubblico ampio, popolare, trasversale.

In qual modo diventa mainstream il genere horror degli zombie, apparentemente di scarso appeal? In che senso la mitologia zombesca può definirsi come plasmabile?

Scaglioni. All’inizio degli anni Duemila assistiamo a una vera e propria “zombie Renaissance”, nel senso che gli zombie sembrano diventare una moda, e sembrano “sorpassare” un altro genere di mostri molto popolari in quegli anni, i vampiri (vedi la saga di Twilight). E’ proprio TWD a consacrare la moda degli zombie per un pubblico ampio e popolare, a farne un fenomeno pop e mainstream. Il “racconto di zombie” ha però radici antiche: è una mitologia plasmabile che ha attraversato il sistema dei media americano e la sua cultura popolare dagli anni Trenta del Novecento, con alterne vicende di successo (per esempio già nel corso degli anni Ottanta).

Come si può parlare, per TWD, di espansione ed estensione transmediale?

Scaglioni. TWD, come dicevo prima, non è solo una serie. È un franchise transmediale. Nasce da un fumetto: il suo adattamento, da fumetto a serie, avviene attraverso un processo di “espansione”. Molti episodi, molti personaggi vengono cambiati e ampliati. Dalla serie TV poi si genera un vero e proprio “sistema transmediale”, fatto di videogiochi, di novellizzazioni, di una varietà di testi e prodotti mediali (app, attrazioni in parchi a tema etc.). In questo modo il mondo di TWD si “estende” ulteriormente. L’ultimo gioco dedicato al franchise consente addirittura di immergere la nostra quotidianità nel mondo “zombesco” (un po’ come accadeva con “Pokemon Go”, la scorsa estate). Insomma, realtà e finzione si mescolano giocosamente all’insegna degli zombie.

L’autorialità di The Walking Dead può essere definita come collettiva, o soprattutto legata a Robert Kirkman, il creatore del fumetto omonimo?

Scaglioni. Per tutti i prodotti industriali e complessi, come sono le serie tv, l’autorialità è collaborativa. Bisogna distinguere fra una “autorialità materiale” (chi scrive gli episodi, chi guida il racconto), che è necessariamente plurale, e una “autorialità come marchio” o “come brand”: in questo caso tutti riconoscono a Kirkman la paternità di TWD. La cosa interessante è che Kirkman, autore del fumetto, è molto coinvolto anche nella realizzazione materiale della serie. Il suo abbandono di AMC e il nuovo contratto firmato con Amazon gettano qualche dubbio su quanto la serie potrà effettivamente durare ancora (anche alla luce degli ascolti di questa ottava stagione, che non sono più straordinari come un tempo, sebbene restino molto elevati).

Quale allegoria politica sottostà alla saga di zombie di George Romero?

Holdaway. Due studiosi americani (Jennifer Proffitt e Rich Templin) hanno identificato nella famosissima saga cinematografica di George Romero una battaglia allegorica tra la fede di alcuni nel potere (sebbene spesso fallimentare) del Governo in un momento di crisi apocalittica (rappresentata dall’invasione degli zombie), e l’individualismo radicale dell’“ognuno per sé stesso”, nel nome della sopravvivenza individuale. Questa contrapposizione si può declinare evidentemente in un conflitto ideologico tra la sinistra liberale e la destra “libertariana” nell’America degli ultimi decenni, dove, da un lato, si cerca di rimanere fiduciosi nelle capacità del governo di sostenere istituzioni pubbliche, mentre dall’altro lato regna il capitalismo duro e puro. In realtà, però, i film di Romero sono talmente ricchi e complessi nelle loro rappresentazioni – anche grazie ai decenni che passano tra un film e l’altro – che finiscono per proporre anche diverse altre allegorie politiche. La più nota “allegoria” è senz’altro la critica del consumismo che scorgiamo nelle figure degli zombie che popolano il centro commerciale in Zombi (“Alba dei morti viventi”, 1978), ma anche la paura della Guerra Fredda che è centrale in Il giorno degli zombie (1985). Più interessante ancora, come ci insegna Steven Shaviro, è la critica implicita dei film di Romero nei confronti della mascolinità bianca americana: i personaggi “wasp” vengono corrotti facilmente e si dimostrano deboli, a differenza delle donne e degli uomini di colore, che sono invece forti e coraggiose/i.

Libertarianismo è la parola d’ordine fondamentale per definire a livello “ideologico” la saga di TWD?

Holdaway. In un certo senso, sì. Se almeno nei primi tre film di Romero il Governo pareva in qualche modo capace di reggere, nel mondo di TWD lo Stato non esiste più (anche se gli sviluppi più recenti del fumetto fanno intravedere quante cambiamento interessante su questo punto…). Nella serie, infatti, vediamo diverse volte delle scene che enfatizzano il fallimento delle forze dell’ordine e delle istituzioni: soldati zombificati, chiese abbandonate ai morti… e la grande ironia della terza e la quarta stagione dove la Prigione diventa il rifugio e la salvezza per i sopravvissuti (nel mondo pre-apocalittico la galera è il luogo da cui fuggire!). Poi la serie mostra diversi tipi di organizzazione sociale, dalla democrazia alla dittatura, ma in fondo ci ripete continuamente che due caratteristiche appartenenti all’ideologia “libertariana” – la protezione della casa, spesso con l’uso delle armi, e la sfiducia nei confronti dell’estraneo e del diverso – sono fondamentali nel mondo post-apocalittico. I personaggi che non imparano queste regole di sopravvivenza finiscono solitamente piuttosto male. E sul tema dell’importanza del “proprio rifugio”, difeso con mura e pistole, i paragoni con l’America contemporanea non sono difficili da percepire.

Quali sono i paratesti orientativi della serie? E le estensioni transmediali?

Holdaway. Il caso di TWD è affascinante in parte per il suo fandom, che è estremamente ampio e attivo. In continuazione i fan creano delle risorse che accompagnano la serie – un’altra caratteristica che pare confermare la “complessità” della serie secondo le teorie di Mittell. I “paratesti orientativi” includono in realtà tre gruppi di contenuti diversi. Sono testi “ancillari” che aiutano lo spettatore a orientarsi non solo nella serie, ma in tutto il franchise. I più semplici, e probabilmente i più numerosi, sono i riepiloghi dell’azione, e l’esempio più importante è rappresentato da “Walking Dead Wiki”, creato e mantenuto dai fan. Più interessanti sono i testi che arricchiscono il racconto, per esempio creando dei legami con il fumetto e avanzando delle previsioni su cosa potrebbe accadere in prossime puntate della serie attraverso un processo di “fandom investigativo”. Poi ci sono le estensioni transmediali fatte dai fan, che portano la trama fuori dai suoi “limiti canonici”, ovvero fanno prendere al racconto strade del tutto inattese. L’esempio senz’altro più creativo in tal senso è la “fan fiction”, i racconti scritti dagli stessi fan, che spesso si inseriscono in prima persona nella trama, vivendo e narrando un’esperienza nel mondo post-apocalittico disegnato dalla serie.

In che modo si sono mosse le strategie comunicative legate al “prodotto” The Walking Dead”? Quanto c’è stato di local e quanto di global?

Scaglioni. TWD è un caso interessante perché è stato distribuito da un attore globale come Fox International Channels in tutto il mondo. Le strategie di promozione e marketing (che sono state ricostruite nel libro con interviste fatte ai professionisti Fox che le hanno sviluppate, in Italia come da Hollywood) sono un tipico caso di azione g/local: pensate a livello globale col contributo dei team nazionali più brillanti (come quello italiano), e poi “adattate” ai diversi contesti nazionali: in ciascun paese le indicazioni generali venivano poi “localizzate”. In Italia, per esempio, il doppiaggio usa la parola “zombie” nelle prime stagioni, e la serie “viene venduta” dal marketing come “una serie sugli zombie”. Ma la parola “zombie” non compare mai nella versione originale, dove si parla di non-morti, di vaganti, di putrefatti e persino, semplicemente, di “dead” (ovvero di “morti”).

 MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

Massimo Scaglioni

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