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Giuseppe Riva: “Fake news, proposto un patentino per navigare sui social”

“Fake news, proposto un patentino per navigare sui social”

Presentato per “Il Mulino” un testo sulle “bufale” moderne, sospese tra online e offline

Giuseppe Riva

Fake news: notizia falsa costruita in modo comunicativamente efficace per farla diventare un “fatto sociale”. Sua diffusione: attraverso i social media e, attraverso un processo di agenda setting, passaggio nei media mainstream quando raggiunge una massa critica tale da non passare più inosservata. Suo profilo: visivamente accattivante e dotata, di solito, di un breve commento testuale. Difficile potersene difendere, dato che Facebook e motivi politici ed economici non fanno molto a tal fine. Tra le proposte in tal senso, l’intervento istituzionale, la creazione e l’azione dei “fact – checker”, l’azione del singolo utente, per esempio attraverso la creazione di un patentino, soprattutto per i più giovani, che verifichi le capacità di base di conoscenza dei rischi dei social media. Queste in sintesi le linee portanti del recente Fake news, di Giuseppe Riva, docente di Psicologia della comunicazione alla Cattolica di Milano, edito recentemente da Il Mulino.

Cos’è una “moderna” fake news?

Una fake news, che in italiano può essere tradotto come “bufala” è una notizia falsa costruita in modo comunicativamente efficace per trasformarla in un “fatto sociale”, cioè in una notizia intuitivamente che può sembrare vera per il gruppo sociale di riferimento.

Come si diffonde?

Le fake news nascono per un medium specifico: i social network. Da una parte sono create in forma multimediale e contenuto per facilitarne la diffusione e la fruizione sui social. Per questo sono prevalentemente visive, spesso immagini con testo sovrapposto associate ad un breve commento testuale, in modo da non richiedere un elevato livello di attenzione da parte dell’utente e permetterne la visione anche da uno smartphone. Dall’altra sono automatizzate, cioè la loro diffusione è supportata da centinaia di «bot» – programmi informatici associati ad un profilo social – in grado di farle apparire tra le notizie più popolari.

Analogamente funzionano i “chatbot”, che consistono in un sistema di intelligenza artificiale che interagisce sui social simulando il comportamento di una persona.

Quali effetti può avere?

Uno dei problemi che ha avuto Facebook nel momento di crescita era quello di spingere le persone a rimanere il più possibile sui social network. Per farlo Facebook ha assunto molti psicologi che si sono accorti che il nostro sistema cognitivo si basa su una serie di trasmettitori, i più famosi dei quali sono la serotonina e la dopamina, che influenzano in modo determinante i nostri comportamenti. In particolare la dopamina è un neurotrasmettitore che influenza l’intensità delle emozioni che noi sperimentiamo. Facebook si è posto il problema di come produrre il più possibile delle scariche di dopamina durante l’interazione con i social network, e tramite i suoi psicologi si è reso conto che un sistema molto efficace era quello del premio sociale, quindi l’idea di ricevere un “like”, un’amicizia, ecc.. Questa quantità di dopamina progressivamente viene assimilata dal corpo e, per provare lo stesso effetto emotivo positivo che essa ci ha prodotto, dobbiamo ottenere un numero maggiore di “like” e di ricompense sociali. Ciò spinge il soggetto a stare sempre più tempo all’interno dei social network e in questo modo Facebook ha raggiunto il suo scopo.

Si può parlare, in questo periodo e riguardo ai social, di un ritorno ai powerful media come preconizzato negli anni Venti – Trenta e dalla Scuola di Francoforte?

Indubbiamente i social media sono dei powerful media – più potenti perfino della televisione – perché hanno generato l’Interrealtà – un nuovo spazio sociale ibrido che fonde le reti online e quelle offline. Questo rende i media sociali delle vere e proprie “tecnologie di comunità” in grado di contrapporsi e/o sostituire le comunità offline attraverso la creazione di «fatti sociali» alternativi in grado di contrapporsi a quelli delle istituzioni.

Condivido quindi quello che sosteneva la Scuola di Francoforte, e questo per vari motivi: il primo perché sono diventati parte integrante della nostra vita quotidiana (i dati ci dicono che noi passiamo circa tre ore al giorno davanti ai social media). A parte la televisione, essi sono il secondo grande medium in termini di fruizione, ma come impatto sono molto più significativi. Mentre prima quello che vedevo in TV poteva cambiare i miei atteggiamenti e le mie opinioni, ma non me stesso se non in termini mediati, oggi invece quello che faccio con i social network (per esempio, postare sul mio profilo Facebook una foto sbagliata) ha un impatto diretto sulla mia vita quotidiana (nell’esempio, critiche da parte dei miei amici, sia quelli online che offline).

Come si diffonde l’effetto delle fake news nei media mainstream?

Le fake news si impongono come nuovi fatti sociali nelle comunità di riferimento – i vaccini fanno male – che le condividono con le altre comunità affini. Progressivamente raggiungono una massa critica che attira l’interesse dei media mainstream.

Dalla rete infatti il meccanismo passa offline: coloro che votano Lega e Cinque Stelle sono tanti e non tutti sono su Facebook. È quindi evidente che c’è un meccanismo molto efficace di travaso dal mondo online a quello offline. Ed è proprio questo tipo di meccanismo che è studiato dalla scienza delle reti, questa nuova area scientifica che analizza i network e si è resa conto che in base alla semplice amicizia tra vari utenti della rete c’è una profonda trasmissione di informazioni che va a toccare atteggiamenti, opinioni e, addirittura, caratteristiche fisiche. Come ha dimostrato qualche anno fa Nicholas A. Christakis, che è uno degli scienziati più famosi del settore, persino l’obesità, cioè una cosa che è una caratteristica fisica e non un’opinione, si trasmette in base alla conoscenza (se conosco un obeso ho il 57% di probabilità in più di diventarlo). Questo perché, conoscendo un obeso, l’obesità mi preoccupa di meno, riduco i meccanismi di controllo sull’alimentazione, e quindi ciò progressivamente spinge anche me a diventare obeso. La stessa cosa vale per le fake news: conoscendo una persona che porta all’interno di gruppi offline il contenuto di una fake news come la pericolosità dei vaccini, progressivamente incomincio a ritenere questa opinione come plausibile e mi opporrò sempre di meno alla sua trasmissione. Questo è un meccanismo molto potente e che i social network hanno facilitato moltissimo. Una volta, ovviamente, il numero di persone che potevamo incontrare ogni giorno era limitato: oggi, con i social network, possiamo trasmettere a migliaia di persone lo stesso concetto, un po’ come la trasmissione dei virus.

Il meccanismo è quello classico dell’agenda setting: le fake news non arrivano inizialmente al mainstream, ma vanno a toccare esclusivamente dei gruppi sociali ristretti. Nel momento in cui esse escono dalla nicchia degli addetti ai lavori e arrivano a un gruppo più ampio, i media mainstream se ne accorgono e le rilanciano: ciò finisce per produrre un effetto a catena che rende la fake news sempre più potente ed efficace. Ciò che ci dicono gli studi è che purtroppo, per contrastarle, non bastano le smentite.

Cosa spinge, poniamo, un anziano che non usa i social e che magari votava PD a passare al Movimento Cinque Stelle e poi a Salvini? È anche questo, secondo lei, effetto delle fake news?

L’elemento chiave è la comunità di pratica, cioè un gruppo di persone legate da un obiettivo e da un’idea molto precisa, per esempio dall’opinione che gli immigrati creano problemi. Questo è un concetto semplice, però assai efficace: chi di noi, nella propria esperienza quotidiana, non ha trovato una situazione di disagio legata agli immigrati? Davanti a un concetto lineare, “Gli immigrati sono da rimandare a casa”, succede che la narrativa presentata all’interno delle fake news è per esempio “Gli intellettuali di sinistra dicono che gli immigrati sono tanto bravi e devono rimanere tra noi”. La maggior parte delle fake news emesse all’interno dei siti pro Salvini presentava Saviano che diceva di essere favorevole agli immigrati, che gli italiani erano dei fannulloni e che quindi creavano più problemi degli immigrati stessi. Questa fake news ha avuto un grande successo all’interno dei gruppi pro Salvini, e progressivamente si è diffusa.

Come ci si può difendere dalle fake news soprattutto per evitare derive populiste da queste, appunto, supportate?

Difendersi dalle fake news è difficile e richiede un intervento integrato a tre livelli. Il primo è quello istituzionale, che deve regolare le modalità di accesso e di utilizzo dei nostri dati personali e punire i creatori di fake news. Il secondo livello di intervento è quello della rete, che attraverso delle figure dedicate – i “fact-checker” – può aiutare sia i gestori dei social media che i loro utenti a riconoscere le fake news. L’ultimo è quello del singolo utente, che può difendersi in tre modi. Il primo è riducendo la dipendenza comportamentale: ogni utente di smartphone lo controlla in media centocinquanta volte al giorno, una volta ogni 6 minuti. Il secondo, dedicando una maggiore attenzione a quanto troviamo sui social. Infine, attraverso un adeguato livello di formazione che permetta di identificare quei segnali che caratterizzano le fake news. In questo processo i più a rischio sono i giovani. Per questo ho suggerito, come per il motorino, una creazione di un patentino che verifichi le capacità di base di conoscenza dei rischi dei social media. In attesa di arrivarci sul mio sito www.capirelefakenews.eu ho raccolto una serie di materiali per genitori e insegnanti che possono aiutare i nostri figli a capire meglio i rischi delle fake news.

Come si è mossa Facebook in merito al controllo delle fake news?

Finora ha fatto un po’ quello che ha voluto, e ha cercato in tutti i modi di resistere ai meccanismi di controllo. Essa anzi non si è mossa né a proposito delle fake news, né sui meccanismi che usa per aumentare la permanenza dei soggetti online (il rilascio di dopamina). A proposito delle prime, ha “chiuso” gli utenti con profili simili dentro dei “silos sociali” in cui i soggetti non vedono mai un pensiero divergente. Siccome quest’ultimo non porta click, allora Facebook ha cercato di chiudere gli utenti dentro gruppi con la stessa visione, in modo da non mettere mai in discussione le proprie convinzioni e da non inserire opinioni contrarie a quelle delle notizie fake così da mettere in dubbio la loro veridicità, cosa che avrebbe diminuito “like” e condivisioni.

Ma le notizie fake sono anche un business?

A parte la dimensione politica, creare fake news fa guadagnare molti soldi, perché attira click e quindi introiti pubblicitari (io sono pagato dai social network in base ai click che riesco a generare, e in base ad essi una fake news ben fatta può portare al suo creatore mille – duemila euro in qualche settimana). Per esempio in Macedonia nel corso delle presidenziali americane del 2016 che hanno visto contrapposti la Clinton e Trump, si sono accorti che un sito che conteneva fake news poteva guadagnare fino a diecimila – ventimila euro, e così mezzo paese si è messo a crearle. In quel caso non era la spinta politica (danneggiare la Clinton), ma un motivo economico: il fatturato generato da questo processo è stato infatti di qualche milione di dollari. Siccome un macedone in media guadagna seicento – settecento euro al mese, un guadagno così alto ha spinto molti a quest’attività. E siccome i più sfrenati diffusori di fake news erano sostenitori di Trump, i macedoni le hanno create contro la Clinton. Proprio grazie ad esse questa ha perso le presidenziali: gli studi del Senato USA dicono infatti chiaramente che l’elemento che ha fatto spostare l’ago della bilancia a pochi giorni dall’elezione è stata la grande quantità di fake news create e diffuse ad arte negli stati americani in cui il divario tra i due candidati era più ridotto.

MARIA GRAZIA FALÀ

Giuseppe Riva

Capire le fake news