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Giomi e Magaraggia: “Le violente? Non vero crimine, non vere donne”

“Le violente? Non vero crimine, non vere donne”

In “Relazioni brutali” edito da Il Mulino un’analisi della violenza agita da maschi e femmine

Elisa Giomi

Estetizzazione della violenza sulle donne, glamourizzazione del corpo ucciso in pubblicità e nelle serie crime, musica che solo in pochi casi riflette la violenza di genere senza retorica.

Campagne pubblicitarie efficaci come Ring the Bell che invita anche i bystander, gli uomini che assistono alla violenza contro le donne, a intervenire. Inoltre, pubblicità istituzionali che dovrebbero trattare un argomento così delicato con l’ironia, per renderlo efficace.

Poi, donna criminale come femme fatale, o come disturbata (“non vero crimine”) oppure come portatrice di una sessualità non normata, “brutta”, cattiva madre, insomma, “non vera donna”. Insomma, una steroetipizzazione della figura femminile che vede solo alcuni generi, come il fantasy, il poliziesco, e in particolare il nordic noir portatori di qualche innovazione nel campo della rappresentazione della violenza agita da donne.

Questo, in sintesi, quanto emerso da una conversazione con Elisa Giomi, docente di Sociologia e dei processi culturali e comunicativi all’Unitre di Roma e con Sveva Magaraggia, che insegna Metodi di ricerca qualitativa nell’Università di Milano – Bicocca, a proposito del loro recente Relazioni Brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, edito da Il Mulino.

Violenza agita dagli uomini, violenza agita dalle donne: qual è la loro incidenza nei media?

Sveva Magaraggia

Magaraggia. I due fenomeni hanno proporzioni completamente diverse. Ogni tre donne una subisce violenza, ogni tre giorni una

donna viene uccisa, nei media ne troviamo un’eco minima e falsata rispetto alla realtà: sono sovrarappresentati gli stranieri, i migranti, la violenza agita nelle strade, quando il profilo dell’uomo violento “tipico” è bianco, italiano, e che conosce molto bene la vittima. La violenza che agiscono le donne contro gli uomini ha dei numeri bassissimi nella realtà, ma è sovrarappresentata nelle news.

Nelle serie TV le donne possono essere violente solo per poche motivazioni, come la vendetta per uno stupro, secondo il modello rape – revenge, oppure per ragioni familiari. In caso contrario, non sono più donne, vanno a rompere il confine di genere tra maschile e femminile.

Giomi. Nei media la violenza agita dagli uomini è più presente, anche se spesso si tratta di rappresentazioni che arrivano addirittura a estetizzarla, connotate in senso erotico, come nella pubblicità che usa corpi femminili sovente sottoposti a un atto sessuale non consensuale, trasformando la situazione in spettacolo. Si rimuovono infatti i segni del dolore, della violazione, e questi corpi femminili rimangono dotati del loro appeal anche durante l’uccisione o dopo la morte stessa. È il medesimo trattamento che troviamo nelle immagini delle serie crime, in cui abbiamo corpi morti femminili spesso connotati in senso erotico. In questo senso CSI ha inaugurato un filone stabile, con quella che è stata definita carnografia, cioè un tipo di sguardo necrofilo proprio sul corpo sottoposto ad autopsia.

In alcuni media, come nella musica o nella pubblicità, ancora c’è molto da fare per rappresentare la violenza maschile contro le donne secondo un frame tematico, cioè socio – culturale. Quanti passi in avanti ci sono stati?

Magaraggia. In musica l’eccezione che cito molto volentieri è quella di un giovanissimo cantante, GionnyScandal, che ha parlato della violenza sulle donne in modo innovativo in una canzone del 2014, Vestita di lividi.  Nel testo parla al ragazzo violento dicendogli: “Ma che cosa hai fatto”?, alla ragazza vittima delle violenza del suo ex fidanzato dice: “Non farti intenerire, vai dalla polizia.” Infine, lui stesso si posiziona come maschio e dice: “Da maschio mi vergogno che ci siano altri maschi che fanno queste cose, e che invece di lasciare la fidanzata o accettare di essere lasciati arrivano a picchiarla.” Il cantante quindi mette in luce anche le debolezze di una maschilità che arriva a usare la violenza.

Cosa ci potrebbe dire sulla pubblicità?

Magaraggia. Non ho lavorato tanto sulle pubblicità innovative quanto su quelle in cui la violenza viene rappresentata in modo esplicito. Anche qui la differenza tra la violenza maschile e femminile è radicale: le donne possono essere violente solo all’interno di un frame che ci ricorda una scena sadomaso dove la violenza viene in qualche modo richiesta dalla controparte maschile e concordata da entrambi. Al contrario, come nella fiction, la violenza degli uomini contro le donne viene rappresentata in modo molto “pulito”, con tantissimi corpi di donne nude, tantissime salme avvenenti che quasi sembrano sorridere, mentre la violenza lascia dei segni molto evidenti.

Esiste qualche pubblicità “positiva” che non sia istituzionale?

Magaraggia. Ce n’è una che si chiama Ring the Bell, “Suona il campanello”, una campagna internazionale lanciata da Bell Bajo nel 2013/2014 e che ha diverse versioni (indiana, canadese, inglese, ecc.). Essa intende fermare la violenza maschile contro le donne e si rivolge direttamente ai bystander, cioè agli uomini che sentono o vedono agire una violenza e suggerisce loro dei modi per intervenire.

Quale è l’atteggiamento che dovrebbero tenere campagne istituzionali contro la violenza sulle donne, specialmente quella Ipv (intimate partner violence)?

Magaraggia. Sappiamo poco sulla ricezione delle campagne istituzionali. La ricerca principale in proposito è stata scritta da Cristina Oddone, che ha fatto un dottorato su tale argomento e ha iniziato a intervistare e a fare dei focus group con degli uomini maltrattanti. Stando ai risultati emersi da questo e da altri studi che lavorano con interviste su persone che sono coinvolte in situazioni di violenza, è che gli uomini maltrattanti non si percepiscono come dei mostri, e le donne che sono in una situazione di violenza non si percepiscono come delle vittime. La stragrande maggioranza delle campagne istituzionali sulla violenza gioca ancora su questo messaggio. Dice alla donna: “Tu che sei una vittima trova la forza, reagisci,” e all’uomo: “Tu sei un mostro, l’unica cosa che le donne possono fare è lasciarti.” Questo è il messaggio, ma rappresentarlo in questo modo non funziona. Le campagne più innovative attuali sono quelle che provano a utilizzare un frame ironico per farsi notare: ciò può sembrare molto strano, però esistono delle campagne inglesi, australiane, fatte da associazioni che proteggono le donne maltrattate e che usano questo dispositivo che “funziona”. Infatti oramai siamo assuefatti alla campagna che mostra la donna con l’occhio nero con su scritto: “Ho sbattuto contro la porta”, tanto che non la vediamo neanche più. L’altro elemento che sarebbe da introdurre è un po’ alla Ring the Bell, cioè dire agli uomini che non sono violenti come devono e possono intervenire.

Come valuta la docufiction del 2017 Le scandalose. Women in crime, (regista, Gianfranco Giagni), che ripercorre la storia di sette donne devianti che hanno ucciso per vari motivi? È una rappresentazione, per così dire, “tradizionale”?

Giomi. Non ne sono rimasta colpita positivamente. L’ho trovata molto didascalica e soprattutto non esente da tutta la serie di luoghi comuni per cui le criminali sono belle e affascinanti sul modello della femme fatale oppure appunto seduttive. Vi ho visto una concentrazione sulla dimensione sensazionalistica.

Le donne violente contro i partner nei generi factual sono generalmente con una sessualità non normata, spesso “brutte”, cattive madri: il loro è “non vero crimine” (mad) in quanto disturbate, e quindi “non vere donne” (bad). Quante eccezioni ci sono a questa rappresentazione?

Giomi. Queste strategie di attenuazione ricorrono nel discorso scientifico o parascientifico, in quello legale e in quello mediale: infatti i verdetti contro donne violente emessi in tribunale in molti casi hanno ricalcato la copertura della stampa. Sto pensando ad alcuni casi molto famosi negli Usa che poi hanno inaugurato un filone di studi sulla rappresentazione delle donne violente.

Potrebbe citare qualche nome?

Giomi. L’inglese Rose West, che con il marito Fred negli anni ’70 e ’80 stuprò, e seviziò sessualmente bambini e adolescenti e l’americana Aileen Wuornos, prostituta che uccise sette clienti tra gli anni ’80 e ’90, protagonista del film Monster. Queste donne sono delle eccezioni rispetto al loro genere in quanto le si rappresenta in forme che ne sottolineano una sessualità deviante perché o non eteronormata, omosessuale, come appunto la Wuornos, o estremamente attiva e con elementi sadici come Rose West. Un’altra strategia di rappresentazione è quella di descriverle come fortemente maschilizzate per sottolineare che non sono vere donne. Tra queste strategie di negazione della femminilità troviamo anche il riferimento alla maternità che invece rappresenta la quintessenza dell’identità femminile. Rappresentare l’agire violento di una donna come orientato a salvare i figli è una strategia di giustificazione, del portato destabilizzante di questa condotta.

Quando la maternità si presenta come aberrata e aberrante?

Giomi. La donna violenta o che deroga dalle norme di genere viene stigmatizzata ancora più spesso in quanto madre, mentre la paternità sempre di più viene valorizzata come tratto distintivo dell’identità maschile. Anche in questo caso vi sono due pesi e due misure: nella rappresentazione della criminale donna molto spesso si insiste anche su questa maternità aberrata e aberrante: si pensi a Nancy Botwin, la spacciatrice di marijuana della serie Weeds (Showtime 2005 – 2012), le cui azioni criminose producono conseguenze devastanti sui figli. Invece, a parità di profilo criminale, gli uomini sono giustificati in queste attività in nome del loro ruolo di capofamiglia: mi riferisco a Walter White, protagonista di Breaking Bad (AMC, 2008 – 2013), esempio lampante di questo (infatti diventa uno spacciatore in quanto ha un cancro e non vuole lasciare in cattive acque la famiglia).

Quante eccezioni ci sono a questa rappresentazione?

Giomi. Si trovano nel fantasy, nel cosiddetto young adult dystopia, prodotti di fantascienza che narrano di mondi apocalittici in cui abbiamo delle eroine giovani come protagoniste. Per esempio Hunger Games, e non tanto il film, più stereotipato, quanto il romanzo, in buona parte rifugge da questi cliché anche se poi, inevitabilmente, applica delle strategie di normalizzazione perché tratteggia quest’eroina combattente, attiva e non stereotipata e poi la descrive nel ruolo di madre e di sposa, con una sterzata verso un universo più tradizionale. Le novità, però, si trovano soprattutto nel cosiddetto nordic noir.

Le donne che agiscono violenza sui media mainstream sono anche poliziotte, eroine fantasy: quanto sta cambiando nella loro rappresentazione?

Giomi. I mutamenti si registrano soprattutto quando si parla delle poliziotte protagoniste delle serie Tv (The Killing, The Bridge) e in genere delle produzioni mediali che prendono il nome di nordic noir, che identifica un tipo di thriller tipico dei paesi scandinavi. Queste donne sono molto fuori dagli schemi quanto a rappresentazione del corpo e dell’estetica in generale, sono forti e indipendenti, anche se alcune di loro ne pagano il prezzo con difficoltà emotive, algidità, incapacità di stare in relazione con gli altri, ecc.. Si tratta però spesso di tormenti molto femminili, di relazioni sbagliate con il figlio, di incapacità di avere rapporti sentimentali gratificanti.

Al di là del nordic noir, il panorama sta cambiando nel senso che, mentre prima rappresentavano una quota davvero molto ridotta, oggi le donne poliziotto sono un fenomeno stabile: in particolare, dall’inizio del 2000 ad oggi abbiamo visto in tutte le serie televisive occidentali una escalation di protagoniste femminili alla guida di squadre di polizia. In Italia esiste una tradizione produttiva che porta in scena figure femminili molto forti in ruolo di comando all’interno del territorio fortemente maschile delle istituzioni di polizia, e la Taodue di Pietro Valsecchi ha rappresentato una occasione di stabilizzazione di questo modello. Sto pensando a Giulia Corsi (Claudia Pandolfi) di Distretto di polizia (Canale 5, 2000 – 2012), ma anche a Euridice Axen (Lucia Brancato) che è l’attrice protagonista di R.I.S. Roma (Canale 5, 2010 – 2012), e poi, in tempi ancora più recenti, a Claudia Mares (Simona Cavallari) di Squadra Antimafia (Canale 5, 2009 – 2016). Loro rappresentano questo modello femminile piuttosto legnoso, dalla fisicità muscolare scattante, uno stile mascolino, un temperamento introverso. Tuttavia, mentre c’è una forma di protagonismo importante, ugualmente si mettono in atto delle strategie di contenimento, perché si rappresentano queste donne come sofferte, tormentate, che rinunciano ai tratti tipicamente femminili. Da Sherlock Holmes in poi è sempre stato popolare il prototipo del detective nerd, brillante, socialmente disagiato e totalmente immerso nel proprio lavoro. Tuttavia, nell’essere detective secondo questi codici maschili, le donne hanno difficoltà nelle relazioni con i figli o con il compagno, cosa che attiene alla femminilità tradizionale. Oppure al contrario, per rappresentarle, si ricade negli stereotipi della super – maternità: nella trasposizione italiana (I misteri di Laura) della serie spagnola Los misterios de Laura (Ida y Vuelta, 2009 – 2014) dove la detective ha due gemelli, l’ispettrice Laura Moretti di figli ne ha tre.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

 

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