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Gianfranco Marrone: “Umberto Eco e la TV, uno slittamento dal primo al terzo scaffale”

“Umberto Eco  e la TV, uno slittamento dal primo al terzo scaffale”

Escono per “La nave di Teseo” tutti gli scritti del semiologo bolognese sulla televisione

Nel corso degli anni uno slittamento dell’interesse di Eco nei confronti del fenomeno televisivo dal primo al terzo scaffale, cioè dal campo della ricerca filosofico – sociologico – comunicativa a quello del commento giornalistico a caldo. Sei fasi, che ha attraversato sempre il semiologo bolognese, nello studio della TV. Poi, una semiologia non spicciola, ma implicita, quella su Mike Bongiorno, scritta nel periodo in cui Barthes in Francia scriveva il suo Miti d’oggi sulla nascente società di massa. Inoltre, un’estetica della televisione valida solo se vista come teoria dell’esperienza sensibile. Il grande linguista Roman Jakobson sempre implicito, presupposto, anche se solo una volta esplicitamente citato. Una guerriglia semiologica dovuta alla discrasia tra codice dell’emittente e codice del destinatario, cosa che porta quest’ultimo ad avere un ruolo attivo e anche di resistenza al messaggio stesso. L’Esperimento Vaduz come idea sperimentale promossa dalla Rai su idea di Eco per verificare gli effetti che tre contenuti simili (un immaginario scontro politico – religioso) potevano avere sugli spettatori se veicolati tramite testi diversi. Infine, la tv – verità in cui la verità dell’enunciato è del tutto soggetta a quella dell’enunciazione, enfatizzando il puro momento comunicativo, a discapito di quello che, in concreto, il discorso svolto vuole o può dire.

Con queste parole Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, commenta la raccolta di saggi di Umberto Eco, Sulla televisione. Scritti 1956 – 2015, da lui curata ed edita da La nave di Teseo.

Lei ha scritto che nei lavori di Umberto Eco sulla televisione si potrebbero individuare sei fasi. Ce le potrebbe illustrare?

“Certo: riprendo in questo la postfazione al libro. Per comodità, possiamo suddividere il lavoro di Eco sulla tv in sei diverse fasi. Queste fasi hanno un valore temporale, poiché scandiscono tappe diverse di un itinerario di ricerca, ma per certi versi possono anche essere intese come altrettante prospettive critiche su un medesimo oggetto, sguardi o metodi che colgono, dietro un fenomeno comunicativo e sociale apparentemente unitario, una molteplicità di problemi e di livelli d’analisi. Potremmo comunque nominare e datare queste sei fasi come segue: (i) fase estetico-sociologica, che va grosso modo dal ’56 al ’64, in cui si mettono in relazione i problemi estetici della ripresa diretta con una definizione sociologica della tv; (ii) fase semiologica, dal ’65 al ’68, in cui si approfondisce il ruolo del pubblico, tra analisi comunicativa del messaggio e interpretazione sociologica dell’effettiva ricezione; da qui, tra l’altro, le critiche al determinismo tecnologico di Marshall McLuhan e l’elaborazione di una precisa teoria dei linguaggi visivi applicabile al mezzo televisivo; (iii) fase criticoideologica, dal ’68 al ’73, durante la quale la critica all’ideologia della cultura di massa porta all’ipotesi pratica di una guerriglia semiologica; (iv) fase testuale, dal ’73 all’84, nel corso della quale il nesso teorico codice-messaggio viene sostituito con quello testo-cultura; vengono affrontati problemi relativi alle forme narrative, all’enunciazione televisiva e ai suoi effetti di reale, sino ad arrivare alla definizione della neo-televisione; (v) fase etico-estetica, dall’85 grosso modo al 2000, in cui le osservazioni sui valori veicolati dalla comunicazione televisiva divengono tutt’uno con quelle sulle forme testuali da essa assunte: l’autoreferenzialità della neo-tv pone cioè numerose questioni di carattere più che altro etico, come quelle della cosiddetta tv-verità, dei processi giudiziari in diretta, del nesso tv-politica e simili; l’ipertrofia dell’applauso si fa figura di una profonda povertà di valori sociali; (vi) fase postmediale, riguardante il periodo dal 2000 in poi, dove il mezzo televisivo inizia a entrare in crisi e, soprattutto, ad aver difficoltà nell’essere riconosciuto come medium a sé stante, mescolandosi con altri possibili, non ultima la rete.

Accade insomma che l’interesse di Eco nei confronti del fenomeno televisivo tenda progressivamente a slittare – per usare i suoi stessi termini – dal primo al terzo scaffale, a passare cioè dal campo della ricerca filosofico-sociologico-comunicativa a quello del commento giornalistico a caldo, di natura più che altro etica e politica. Diversamente da quel che ha sostenuto recentemente Aldo Grasso recensendo – per altro generosamente – il libro (https://www.corriere.it/cultura/18_dicembre_03/umberto-eco-scritti-televisione-la-nave-di-teseo-a84043ca-f722-11e8-bd62-81aafd946bf7.shtml?fbclid=IwAR3vqt8yy5CxKQ1Yy5iYRL8X0w4mcRQ5rDjk9uJTaE3Ov-ucNQ_ENG7k6hQ), io ritengo che questo passaggio si concretizzi giusto nel momento della costituzione della semiotica come disciplina autonoma, con oggetto e metodo ben definiti: se in Eco l’abbandono di uno studio specifico della tv coincide con l’assunzione della teoria semiotica, è anche perché i problemi che l’universo televisivo ha posto all’estetologo e allo studioso di comunicazioni di massa hanno sollecitato l’intervento di una prospettiva di ricerca più ampia ed efficace, una prospettiva generale sul senso umano e sociale che né l’estetica né la sociologia della comunicazione potevano e sapevano, per così dire, assumere in proprio. Prospettiva che ha poi esteso i problemi del fatto televisivo, e le categorie per interpretarlo, ad ambiti di ricerca molto più ampi e diversificati”

Un saggio come quello su Mike Bongiorno è, per così dire, semiotica spicciola… È d’accordo con quanto da me affermato?

Non so se sia spicciola, ma è sicuramente una semiotica implicita. Se pure nel titolo Eco usa il termine ‘fenomenologia’ rinviando ironicamente alla filosofia di Husserl e compagni, è

Gianfranco Marrone

evidente che ricostruisce il personaggio di Bongiorno allo stesso modo in cui in quegli stessi anni, in Francia, Roland Barthes scriveva le sue mitologie sulla nascente società di massa. Cioè un modo semiologico. Del resto, quel che è importante per lui nelle trasmissioni a quiz di Mike Bongiorno non è tanto l’uomo reale quanto il modello di cultura che veicola: insignificante, acritica, sostanzialmente anti-intellettuale. E il problema sta proprio nel fatto che la tv genera modelli che, poi, la gente, prende a imitare. In altri termini il problema non come la tv rappresenta il sociale ma quel che genera nel sociale”.

La musica, la radio e la televisione, nonché Appunti sulla televisione, entrambi comparsi in Apocalittici e integrati del 1964, parlano dell’estetica della televisione. In proposito dicono che criticarla sarebbe come giudicare tout court artistica o non artistica una casa editrice, mentre questa è fatta di scelte editoriali, come appunto i palinsesti Rai. Sono parole pionieristiche…

Dipende da che cosa si intende per ‘estetica’, termine assai ambivalente: se lo si intende come teoria dell’arte o come teoria della formatività (come fa Eco riprendendo Pareyson), ovviamente la televisione non vi ha nulla a che vedere. Ma se lo si intende come teoria dell’esperienza sensibile, allora, forse, le cose cambiano. Oggi quante estetiche di case editrici potremmo ricostruire?”

Nei saggi degli anni Sessanta Eco si rifaceva molto alla teoria comunicativa indicata da Jakobson citandolo solo una volta. Come mai?

“Jakobson è uno dei punti di riferimento costanti del pensiero semiotico di Eco; forse non lo cita nei saggi sulla tv perché lo dà per scontato, o forse per dimenticanza, certamente non per disprezzo. Per esempio, tutta la critica a McLuhan presente nel saggio ‘Per un cogito interruptus’ non fa che usare la teoria della comunicazione di Jakobson”

Già nel 1967 Eco parlava di guerriglia semiologica, tema che ha ripreso anche in saggi successivi…

“In quegli anni, contemporaneamente al lavoro di edificazione della semiotica, per quel che riguarda specificamente la televisione si ha in Eco l’assunzione di un nuovo sguardo analitico, questa volta maggiormente attento agli esiti ideologici delle comunicazioni di massa e della tv in particolare. E se da un lato Eco si esercita a svelare i meccanismi retorici sempre più evidenti che veicolano un’ideologia sempre più massificante, da un altro lato propone, se non un rimedio, senz’altro una tattica di risposta. È appunto l’idea della guerriglia semiologica. Se nel caso della comunicazione estetica, per Eco, l’ambiguità è sempre voluta dall’emittente (dunque il messaggio ha una struttura aperta che consente al destinatario di riempirlo con sue interpretazioni), nelle comunicazioni di massa l’ambiguità, anche se ignorata, è sempre presente. È la vastità e la differenziazione interna del pubblico, come abbiamo visto, a provocare quella discrasia tra codici dell’emittente e codici del destinatario che porta a continue, inevitabili forme di decodifica aberrante. Ma questa caratteristica delle comunicazioni di massa, dice Eco, se da un lato deve essere per quanto possibile eliminata alla fonte, dall’altro può essere sfruttata all’arrivo. Diversamente da quanto ritengono sia gli apocalittici sia gli integrati, secondo i quali il telespettatore riceve passivamente quel che viene trasmesso, il pubblico può assumere in positivo la sua costitutiva capacità di decodifica aberrante, e vivere felicemente questa specie di involontaria esteticità che è propria dei mass media. Come il cannibale trasforma l’orologio che non sa usare in ciondolo da portare al collo, senza per questo dover essere considerato necessariamente selvaggio o ignorante, allo stesso modo il telespettatore può mettere in gioco la propria batteria di codici e sottocodici per distorcere tatticamente i messaggi televisivi, costruendo da sé le trasmissioni che vuol vedere, riarticolando il senso che preferisce consumare e di fatto usando la tv come un’opera aperta”.

Nella sua famosa distinzione tra apocalittici e integrati Eco nominava, tra gli integrati, anche Marshall McLuhan di Understanding Media (1964), citando, tra le sue fallacie interpretative, quella di non aver fatto distinzione tra canale, forma del messaggio e codice. Tuttavia poi, nel suo Note per un museo della televisione del 1968, proponeva un tipo di museo interattivo molto simile a quello preconizzato da McLuhan e Harley Parker in un seminario tenuto al Museum of the City of New York nel 1967. In che modo si può spiegare tutto questo?

“Non è che Eco non amasse McLuhan, solo che, come dicevo prima, riteneva scorretta la sua teoria della comunicazione, e in particolar l’idea di assimilare il messaggio al canale. Il fatto che lo usi nel saggio sul museo ne è la dimostrazione.”

Ci può parlare del cosiddetto Esperimento Vaduz, tenuto nel 1974 dalla Rai?

Si tratta di un’indagine sperimentale affidata dalla Rai all’Istituto Gemelli di Milano, che prende le mosse da un’idea di Eco: piuttosto che vedere quali diverse reazioni possono presentare pubblici diversi di fronte alla medesima trasmissione, perché non vedere in che modo una comunità di telespettatori può reagire di fronte a tre diverse versioni dello stesso servizio d’attualità? Eco scrive così tre diversi testi a carattere documentario-giornalistico su un fatto mai accaduto ma fortemente verosimile: scontri politico-religiosi che sottendono conflitti di classe a Vaduz, capitale del Liechtenstein, tra valdesi e anabattisti. I tre testi forniscono della notizia anche una certa interpretazione (dietro la religione sta il denaro), ma a seconda del diverso modo di raccontare e presentare i singoli eventi che compongono l’episodio questa interpretazione viene più o meno velata e può più o meno cambiare. La veridicità dell’informazione viene in qualche modo legata alla progressiva estetizzazione del modo di presentarla: laddove la prima versione segue i fatti nella loro successione cronologica normale, la seconda introduce soste e flash-back che tendono a drammatizzare la narrazione, e la terza usa un montaggio alla Godard che suggerisce l’idea che l’autore ha dei fatti di cui parla. A una progressiva rinuncia della narrazione comune si accompagna dunque una crescente dose di complessità formale, su cui si sofferma l’attenzione del solo spettatore colto, ma che in ogni caso viene apprezzata dall’intero pubblico. Quel che si trasforma, con l’esperimento Vaduz, è soprattutto il modo di impostare il problema comunicativo: non si tratta più di vedere se e in che modo un pacchetto di informazioni passa da una fonte a un ricevente. Si tratta invece di valutare l’efficacia comunicativa di determinate forme testuali: è l’articolazione interna del testo, in tutti i suoi livelli e aspetti, a prospettare determinati atteggiamenti ricettivi”.

Gli ultimi articoli di Eco sulla TV sono per lo più Bustine di Minerva e quindi poco più di illuminanti appunti ma, proprio in queste Bustine, viene affrontato il problema della TV – verità…

Il tema della tv – verità ben rappresenta l’intreccio di etica e di estetica che caratterizza la quinta fase. In una ‘bustina’ Eco per esempio si pone dal punto di vista di un etnologo che deve studiare i modi di comunicare di una popolazione, i Bonga, la quale ignora l’arte della presupposizione e dell’im­plicito” L’effetto di straniamento è totale, e si capisce che i Bonga sono i telespettatori della neo-tv ormai abituati persino alla spiegazione dell’e­videnza. Scrive Eco: “noi incominciamo a parlare e usiamo ovviamente delle parole, ma non abbiamo bisogno di dircelo. Invece un Bonga che parla a un altro Bonga inizia dicendo: ‘Attento che parlo e userò delle parole’”. Sembra una satira di Brecht: “I Bonga su ogni casa scrivono anzitutto ‘casa’, poi con appositi cartellini indicano i mattoni, il campanello, e scrivono ‘porta’ accanto alla porta”. Questo “ossessionante bisogno di precisazioni”, rileva però l’etnologo, non è determinato tanto dal fatto che i Bonga sono di scarso comprendonio, quanto semmai dal loro culto della rappresentazione, tale per cui “debbono trasformare tutto in spettacolo, anche l’implicito”. La stupidità, dunque, non è la causa di quel loro modo di comunicare, ma semmai il suo effetto. E lo si vede soprattutto dal loro modo di far televisione: “I Bonga chiedono che la televisione mostri la vita vera, così come è, senza finzioni. Gli applausi li fa il pubblico (che è come noi), non l’attore (che finge), e quindi sono l’unica garanzia che la televisione sia una finestra sul mondo. Stanno preparando un programma fatto esclusivamente di attori che applaudono, e si intitolerà Televerità”. Si mostra così come la tv – verità non sia, come si potrebbe pensare, l’antitesi della neo-tv autoreferenziale, ma un suo esito diretto: piuttosto che produrre l’effetto di realtà nascondendo le tracce dell’atto di discorso e lasciando apparire un mondo fattosi da solo, si preferisce enfatizzare giusto il momento comunicativo, a discapito di quel che poi, in concreto, il discorso svolto vuole o può dire. La verità dell’enunciato è del tutto soggetta a quella dell’enunciazione, di modo che ogni patto di veridizione passa dal filtro dell’autoriflessività estetizzante del testo. L’esito è chiaro: credo a quel che mi viene detto perché è spettacolo puro”.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Gianfranco Marrone

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