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Gianfranco Marrone: “Prima lezione di semiotica, genealogia e non storia”

 

“Prima lezione di semiotica, genealogia e non storia”

Gianfranco Marrone dell’Università di Palermo racconta i tratti portanti del suo ultimo libro

Gianfranco Marrone

Riuscirebbe difficile creare dei “medaglioni” di semiologi partendo dall’agile Prima lezione di semiotica, edito recentemente da Laterza e scritto da Gianfranco Marrone, docente di Semiotica all’Università di Palermo. Piuttosto, occorrerebbe parlare più di genealogia, cioè di un metodo che tira le fila di una disciplina, la semiotica, forse con troppe origini ma che ha avuto uno statuto ufficiale solo a partire dagli anni ’50 del Novecento. Poi, sempre nel volumetto, una disamina di concetti come segno, simbolo, semi – simbolo. Inoltre, un ampio spazio dedicato a Propp, piuttosto che a Greimas, già trattato in un altro lavoro. Propp come capostipite della narratologia, della scienza cioè che studia il contenuto nella sua articolazione formale. Con essa si possono studiare sia testi “alti” sia quelli delle comunicazioni di massa, anche se Propp, che distingueva tra opere di Dante e Shakespeare come “grandi” ed opere di folclore, appare viziato, secondo Marrone, da un’estetica ancora di stampo idealista – marxista. Narratività come mezzo per studiare anche corpus di articoli, e che si differenzia dall’analisi del contenuto che studia solamente la “superficie” dei testi, cioè contando le sole occorrenze testuali. Infine, lo studio delle serie TV sempre con la narratologia, procedendo a due livelli, uno micro (le singole puntate), e uno macro (la serie tout court).

Il suo libro si articola come una genealogia della semiotica, non come una sua storia: qual è la differenza?

Genealogia è un termine che Nietsche ha usato per la prima volta nel suo Genealogia della morale, poi lo ha ripreso Foucault spiegando che la genealogia non è un fare storico che va alla ricerca delle origini e che segue una linearità precisa, ma una strategia di ricostruzione di un concetto, di un discorso, di fatto, a partire da molteplici direttive. Nel caso specifico della semiotica, essa non ha un’origine storica unica, ne ha troppe: essa deriva dalla medicina, dalla divinazione, dalla poetica, dalla retorica, dalla logica, dalla metafisica, dalla grammatica e quant’altro. Ad occuparsi del linguaggio, dei segni, dei simboli, nel corso della storia ci sono state troppe correnti, le quali però spesso hanno poco dialogato tra loro. Sono tutte interessanti, ma di difficilissima ricostruzione dal punto di vista lineare. La genealogia invece ci permette di “beccare” un po’ qui un po’ là: ci sono tre linee che la semiotica ha seguito negli ultimi tempi: da un lato la filosofia della conoscenza, e quindi tutta la problematica che parte da Kant e arriva fino al cognitivismo contemporaneo, da un altro lato la linguistica, con Saussure, ecc., in terzo luogo l’antropologia, soprattutto quella che studia le narrazioni (fiabe, i miti, leggende, ecc.), con autori come Propp e Lévi – Strauss. Quello che ho provato a fare nel mio libro è stato vedere i punti di convergenza di ricerche che a prima vista sono molto lontane tra loro. Propp e Hjelmslev non si conoscevano, nessuno sapeva dell’esistenza dell’altro, eppure, ognuno nel proprio ambito, operavano con le stesse metodologie. La semiotica quindi vive di un paradosso: da un lato è una disciplina molto antica, però distribuita tra saperi diversi, dall’altro è nuovissima, in quanto è sorta a metà degli anni Cinquanta del ‘900 quando, nata la società di massa e dei mezzi di comunicazione di massa, il problema della comunicazione è divenuto centrale nella costruzione del sociale.

Il termine senso assume in semiotica, come la parola forse più nota segno, una connotazione particolarmente significativa…

Di solito si dice che la semiotica è una scienza dei segni, ma in realtà sarebbe come dire che la linguistica è una scienza delle parole: la linguistica non lo è, ma è una scienza dei meccanismi profondi che le costruiscono e fanno sì che queste poi vadano a costruire frasi, testi, discorsi. Nel caso della semiotica è esattamente lo stesso, in quanto dire segno è come dire la punta dell’iceberg: in realtà esso è un’entità costruita da procedure formali profonde, a volte nascoste, che invece la costituiscono. Nel mio libro parto dall’esempio di una gita estiva, di un qualcuno che va in giro per un’isoletta alla ricerca di un posto dove fare un bagno, e mostro come, a partire da un segno banale, totalmente involontario di una serie di macchine parcheggiate alla rinfusa, si costruisce un segno (“qui si può fare il bagno”). Questo segno ha dietro di sé dei processi cognitivi, dei codici culturali, dei meccanismi testuali di funzionamento, le forme narrative, e quindi il segno sparisce. Il vero oggetto della semiotica è invece il senso, o per meglio dire la significazione, cioè il modo in cui il senso si articola nelle varie culture, epoche, anche a livello individuale, in cui ciascuno di noi dà senso al mondo a partire da forme quasi sempre di tipo narrativo.

Quindi il senso è qualcosa che sta al di là dei singoli significati…

Esattamente. Il senso, cioè, si dà sempre per approssimazione attraverso segni che lo indicano, ma non sta in nessuno di questi in particolare. Basta prendere una frase: nel libro cito l’es di Hjelmslev che propone molti modi in cui in molte lingue si dice “non so”. Molte lingue lo dicono, ma qual è quella di queste che dice il senso? Lo dicono tutte ma tutte in modo approssimativo, il senso è quello che io definisco la condizione della possibilità della traduzione.

I tipi di significazione, in semiotica, sono tre: quello del segno, quello del simbolo e quello del sistema semi – simbolico, utilissimo per studiare linguaggi come quello televisivo, della carta stampata, ecc…

Il concetto di sistema semi – simbolico, è emerso relativamente da poco, di solito si parlava solo della differenza tra segni e simboli. I segni sono entità costruite da elementi più piccoli, i simboli no, sono monolitici (la croce per indicare il cristianesimo o la mezzaluna per indicare l’Islam), se li scomponi non c’è più segno, mentre se i segni li scomponi il segno rimane. I semi – simboli sono a metà, sono come delle forme di analogia, A sta a B come x sta a y. Il caso più banale è quello del semaforo, in cui il verde significa “potete passare” non in sé, ma in un sistema dove il rosso significa “dovete star fermi”. In altri contesti infatti il verde cambia completamente di significato (può significare la natura, il verde delle croci delle farmacie, la speranza, ecc.). Quando parliamo di semi – simboli, di esempi ne possiamo fare a bizzeffe: pensiamo al mondo della pubblicità, dove spesso si usa girare una parte dello spot in bianco e nero e una parte a colori, dove quando arriva il prodotto improvvisamente lo spot diventa a colori. Ciò non significa che il bianco e nero sia negativo e il colore positivo, è in quello spot là che funziona il sistema semi – simbolico, che consiste in micro – codici che funzionano a partire da quando vengono istituiti, ma non hanno nessun valore in generale.

In semiotica si possono spiegare le invarianti sul piano del contenuto solo con la narratologia, e nel fare questo Propp e Greimas docent. Perché ha scelto, per esemplificare questa disciplina, Propp e non Greimas?

In primo luogo, l’idea di fondo della semiotica consiste nel dire che tutto ciò che è il senso quando viene articolato e diventa significazione reale ha sempre una forma di tipo narrativo. Il senso, è un termine che nella lingua italiana significa tre cose: significato, senso (i cinque sensi), ma soprattutto direzione (senso vietato, senso unico, in che direzione sto andando). Quindi è chiaro che qualsiasi cosa che ha un senso nella nostra vita è perché sta in una catena di eventi collegati tra loro da un orientamento di tipo narrativo: noi siamo intrecci di storie.

In secondo luogo, ho parlato di Propp e non di Greimas un po’ perché questo libro vuole fare una genealogia della semiotica e non una storia, mentre Greimas sta dalla parte della storia (me ne sono occupato poi in tanti miei libri, ma soprattutto nel mio Introduzione alla semiotica del testo). Prima lezione di semiotica è una specie di parte precedente a Introduzione…, una specie di presupposto, in cui ho cercato di far vedere come le teorie narrative di Greimas derivino da Propp, cosa che tutti sanno anche se nessuno era entrato così nel dettaglio come ho provato a fare io.

Ho riletto la polemica Propp – Lévi – Strauss, e mi è sembrata molto significativa perché Lévi – Strauss diceva a Propp “sei troppo contenutista e poco contenutista, troppo formale e poco formale, in quanto le funzioni sono troppe (31), e con troppe funzioni si reifica… Non pensa che sia in realtà un po’ così e che sia migliore l’interpretazione che ha dato Greimas della narratologia?

Certamente, ma Propp a me interessa perché ha avuto un ruolo storico nell’applicazione dello strutturalismo alla narrazione. È chiaro poi che ha dei limiti storici ma anche politici: egli viveva e lavorava a Mosca negli anni Trenta e Quaranta e non era facile essere strutturalisti in quel luogo e in quell’epoca. Pertanto è evidente che è dovuto entrare a compromessi con l’ideologia sovietica del periodo, e quindi distingueva tra un’analisi morfologica e un’analisi storica.

Distingueva la parte storica da quella morfologica in Morfologia della fiaba o in Le radici storiche dei racconti di fate?

Le radici storiche dei racconti di fate vogliono essere un cambiamento di rotta, in cui Propp dice: “Abbiamo studiato la morfologia, adesso studiamo la storia,” e quando risponde a Lévi – Strauss lo fa in questi termini. Secondo me il libro migliore di Propp è quello pubblicato da Einaudi nel 1984, poi sparito, e che si chiama La fiaba russa: lezioni inedite. È il suo libro finale, bellissimo, un po’ dimenticato, degli anni ’60, in cui lui mette insieme morfologia e storia, e lì supera Lévi – Strauss.

Una cosa che mi sembra significativa di Propp è quando dice che nessuna analisi morfologica potrà rendere conto della bellezza di opere come quelle di Dante e Shakespeare…

Questa considerazione gli deriva da un tipo di estetica idealista – marxista, la semiotica successiva non avrà nessun problema ad analizzare contemporaneamente la fiaba russa e Shakespeare. Tra l’altro analizzare i grandi scrittori non toglie nulla alla bellezza delle loro opere, semplicemente cerca di capire i loro meccanismi di funzionamento. Fare questo per un’opera letteraria, folclorica o cinematografica non significa eliminare il valore estetico, anzi vuol dire determinare il modo in cui esso si costruisce e arriva al destinatario.

In che senso la semiotica potrebbe essere utilizzata per sostituirsi a cavalli di battaglia delle scienze sociali come la content analysis?

Quando dagli anni ‘60 in poi è cominciata la necessità di studiare i contenuti dei messaggi dei media, di solito si sono scelte due strade. Una è quella che risale a McLuhan e li analizza dal punto di vista della tecnologia: è un’ipotesi molto deterministica. La natura, la cultura, dipende dal tipo di tecnologia, come pure il linguaggio adoperato da ciascun medium. Quindi il linguaggio televisivo sarà diverso da quello cinematografico perché in un caso c’è il piccolo schermo dall’altro il grande schermo. Oggi questa è un’ipotesi assolutamente superata: non esistono più grandi schermi – piccoli schermi, ma schermi che variano in continuazione a seconda dello strumento che si adopera.

L’altra strada è stata quella di studiare i contenuti dei media. I sociologi hanno inventato questa tecnica di analisi del contenuto e, non avendo nessuna preparazione linguistica o semiotica, si sono messi a contare le parole. Contando le parole o le strutture minime della frase non riesci a costruire il significato complessivo di un testo. Se dico “Berlusconi” dieci volte il problema non è che utilizzo questa parola, ma che se la pronuncio in vari contesti, pur usandola sempre, parlo di due cose diverse. Contare le parole quindi non porta a niente. L’analisi strutturale lavora invece sulle ipotesi di tipo narrativo, e quindi non intende analizzare le parole, ma i testi.

Ma quando ci si trova di fronte a un corpus di articoli da analizzare, come si muoverebbe l’analisi semiotica? Partirebbe da una campionatura, poniamo, di cento unità?

L’analisi semiotica si muove distinguendo tra il materiale che uno ha a disposizione che può essere il più eterogeneo, e il corpus. Il corpus è il modo in cui il materiale subisce delle integrazioni o delle selezioni per diventare coerente. Per esempio ho cento articoli sulla riforma sanitaria? Non è detto che siano tutti interessanti, ce ne possono essere tre, quelli che costruiscono delle forme narrative, gli altri non mi interessano. Invece i sociologi prendono quei cento articoli, li inseriscono dentro un computer e li fanno analizzare da un programma che conta le parole, dopodiché, se l’articolo sta in prima pagina o se sta invece in una pagina interna, è cambiato, non è la stessa cosa. Per loro però le parole sono sempre le stesse, non hanno l’idea della struttura, dell’insieme mentre, come diceva Saussure, è soltanto la relazione tra gli elementi che dà valore a ciascuno di essi.

Quindi come farebbe lei se dovesse analizzare un fenomeno con un corpus nutrito di testi?

Il problema non è analizzare il tema, quello è il mio punto di partenza, cioè un contenuto dato è quello che Hjelmselev chiamerebbe la materia del contenuto, è un po’ il senso di cui dicevamo prima. Il problema sono le forme del contenuto, cioè come viene articolato narrativamente, discorsivamente, quello per me è interessante, perché a mio parere solo le forme danno valore ai singoli elementi.

Come potrebbe la sociosemiotica analizzare fenomeni di massa come le serie televisive?

Innanzitutto a un livello testuale che potrebbe essere quello di analizzare tutti i contenuti narrativi delle singole serie. Io stesso per esempio tanti anni fa ho lavorato sulla serie di Montalbano nel periodo in cui era diventata famosa (parlo di più di dieci anni fa). Avevo preso film per film e mi ero messo lì ad analizzarne le trame, il sistema dei personaggi, ad articolare spazi e tempi, ecc..

Tornando al discorso in generale, una cosa è analizzare le singole puntate e le strutture narrative, un’altra cosa è analizzare il fenomeno in sé, a un livello sociosemiotico, cioè le serie televisive. Esse oggi hanno scardinato completamente l’opposizione tra cinema e TV, prima ovvia, perché hanno realizzato prodotti di grande qualità e successo, rompendo l’opposizione tra sceneggiato e grande cinema e soprattutto permettendone una fruizione completamente identica. Per esempio il concetto della puntata legata al tempo non c’è più: io scarico la serie e vedo tutte le puntate di seguito, decidendo come costruire il mio ritmo di fruizione. Ecco, questo è un fenomeno sociosemiotico interessante.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Gianfranco Marrone UNIPA

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