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“Film e fiction, parliamo sempre di narrazioni”

Uscite per Carocci due Bussole, uno sulla settima arte, uno sulla sua sorella minore, la TV

Una videointervista, anche se mediata dal digitale, più “naturale” del campo-controcampo del cinema classico, che però viene percepito dallo spettatore come un dispositivo immediato e spontaneo. Ancora, l’insistere sul carattere narrativo dell’”oggetto” film, che rimane tale anche nel cinema d’avanguardia. Infine, il prodotto cinematografico come distinto da quello seriale in quanto autoconcluso in due ore, mentre una fiction può durare teoricamente all’infinito. E tutto questo anche nel caso di innesti, spesso fecondi, tra serie TV e film.

Di questo e di altro si è parlato, appunto in una videointervista, con Andrea Bellavita, docente di Storytelling e Fiction TV all’Università dell’Insubria di Varese, e con Andrea Bernardelli, che insegna Semiotica e Teoria delle Narrazioni all’Università di Perugia. I due hanno scritto a due mani Che cos’è la narrazione cinematografica, edito nel 2021 per Carocci, ma la chiacchierata ha preso le mosse anche dal testo di Grignaffini – Bernardelli, Che cos’è una serie televisiva, (2020), sempre per Carocci, per una proficua incursione nello statuto della fiction.

In quanti modi si può affrontare l’”oggetto” film?

BELLAVITA. All’interno del libro abbiamo affrontato l’”oggetto” film dal punto di vista della narrazione: esso si può approcciare infatti da tanti punti di vista, da quello del linguaggio, all’aspetto teorico, alla sua dimensione storica. Partendo dal punto di vista della narrazione, abbiamo dato un’impostazione di tipo storico, nel senso che anche la narrazione cinematografica segue un’evoluzione storica, cioè cambia nel tempo.

Noi studiosi di cinema, di storia del cinema, dobbiamo tener presenti tutte le fasi e tutte le caratteristiche del prodotto filmico. Lo spettatore, invece, nella stragrande maggioranza dei casi, a meno che non sia uno studioso, un appassionato di cinema, è concentrato sul modello contemporaneo, localizzato dal punto di vista storico e anche della narrazione.

Uno degli aspetti interessanti di chi studia cinema è vedere che cosa delle forme della narrazione delle fasi precedenti rimane anche nei film contemporanei. Noi abbiamo fatto una suddivisione tra cinema delle origini, classico, moderno e postmoderno. Una delle osservazioni che si possono fare è che esistono tracce di narrazione classica all’interno del cinema postmoderno, nelle sue varie tipologie, così come ci sono elementi di modernità del racconto che rimangono anche dopo questa corrente cinematografica. La storia del cinema è un percorso di tipo diacronico-evolutivo, in cui alcuni elementi permangono a livello sincronico.

Io mi sono occupato dunque dell’inquadramento storico, Bernardelli, invece, che è il massimo esperto a questo riguardo, dell’aspetto narratologico. La narratologia è una disciplina che studia ogni forma di racconto nelle sue diverse declinazioni: abbiamo provato a vedere quali sono gli elementi linguistici tipici del film che costruiscono la narrazione. Ci sono tutte le diverse fasi della preparazione pre-filmica, quella che va dal soggetto, al trattamento fino alla sceneggiatura, poi c’è la dimensione di produzione che è la ripresa e la scelta di tecniche di ripresa particolari-tutto ciò implica naturalmente una forma di narrazione-, infine c’è la post-produzione, che sarebbe il montaggio. Con il montaggio si arriva alla versione definitiva e più conclusa del racconto.

L’ultimo tra i punti di vista che abbiamo analizzato era il genere. Nel cinema, riferendosi alla letteratura, si dice che il genere è una forma che si basa sul riconoscimento da parte del pubblico. Questo impara, dalla storia, dall’esperienza, a riconoscere in un film certe caratteristiche, e ha delle attese nei confronti di una tipologia di cinema. Nel momento in cui il film risponde a una serie di attese, si definisce il riconoscimento, da parte del pubblico, di quel genere. E a generi diversi corrispondono strutture di racconto differenti.

BERNARDELLI. Io mi sono occupato di scrivere di narratologia, ma di una narratologia di base, essendo questo un manuale. Ad esempio non ho parlato della narratologia cognitiva, perché la cosa sarebbe stata troppo complessa. Di fatto la traccia era sempre quella, fare un manuale sul cinema che avesse come filo rosso la narrazione. È venuto a mancare un interessante capitolo sulle nuove frontiere, ma purtroppo lo spazio del volumetto era quello che era.

BELLAVITA. Hai ragione. L’altro aspetto che è rimasto fuori è quello dell’autore, perché normalmente, quando si lavora sul genere, è frequente dargli come prospettiva anche quella dell’autore. La cifra su cui avevamo pensato di lavorare era su una serie di autori, tutti contemporanei, che fossero esemplari. Per esempio, il cinema di Eastwood è esemplarmente neoclassico, o meglio classico-classico, che è diverso dal racconto alla Tarantino, da quello di registi come Nolan, come Fincher, ecc.. Comunque, ci saremmo mossi in un modo del tutto confrontabile con la letteratura: come è possibile conoscere lo stile di un romanziere, allo stesso modo si può individuare lo stile di racconto di un regista. Riconoscere da tutti i punti di vista, nel senso che lo riconosce lo studioso, ma anche lo spettatore.

Quest’ultimo sa cosa si trova di fronte a un racconto di Tarantino, a un nuovo film di Nolan, ecc. Il pubblico sa perfettamente che una storia gli verrà raccontata da un autore che ha imparato a conoscere e di fronte al quale si pone nelle condizioni di seguire il suo racconto.

Si può dire che il montaggio, partendo dai piani autarchici degli anni Dieci del ‘900, è stato un fattore fondativo per il cinema? Qual è stata la sua evoluzione?

Andrea Bernardelli

BELLAVITA. Si potrebbe arrivare a dire che il montaggio è l’essenza narrativa del cinema. Ogni prodotto audiovisivo ha una dimensione narrativa, e anche ogni prodotto visivo la ha in sé. L’audiovisivo ha una duratività, ed essa implica una trasformazione. Nel libro ci siamo concentrati su quello che si può definire il cinema narrativo, cioè quello che esplicitamente racconta una storia, e che quindi mette al centro dell’evoluzione dei personaggi il contenuto del film. Abbiamo così lasciato da parte tutte le forme di cinema sperimentale, di cinema d’arte, per certi versi pure il cinema documentario. Anche in tutte queste tipologie di cinema esiste la dimensione narrativa, ma un volume che vuole essere una soglia d’entrata all’argomento deve operare delle semplificazioni. Tuttavia, dovrà vedere che cos’è narrazione: c’è narrazione anche nella camera fissa di Warhol, nel cinema contemporaneo di Lav Diaz o in certo cinema sperimentale, che lavora sull’annichilimento del racconto. Piuttosto che lavorare per differenze, abbiamo preferito puntare al bersaglio del cinema narrativo.

Al suo interno il montaggio è la cifra essenziale, perché il montaggio è quello che mette in sequenza tutto ciò che si è girato. Tralasciando tutta la fase iniziale, cioè il cinema dell’attrazione (anni Dieci del ‘900), si possono delineare alcune caratteristiche del cinema “classico”. Esse sono la trasparenza, l’immediatezza: lo spettatore non deve percepire la finzione, anche se in realtà la coglie benissimo, ma deve sublimare questa percezione, cioè non deve avvertire il lavoro che sta dietro il montaggio, deve vedere tutto come se fosse la cosa più naturale possibile. Questo è uno straordinario paradosso: se io vedo un campo-controcampo per un dialogo, in realtà sto guardando la cosa più innaturale del mondo, perché vedo prima un attore poi l’altro, mentre nella realtà non è così. Invece, quello che stiamo facendo noi in questa videointervista è naturale, perché ci sono tre persone che condividono lo stesso spazio, per quanto digitale.

Quanto da lei affermato riguarda il cinema classico hollywoodiano…

BELLAVITA. Sì, il montaggio di questo tipo è formalizzato nel cinema classico hollywoodiano, che è alla base di ciò che noi intendiamo per montaggio e che oggi vediamo sempre, anche nella fiction seriale. Questa è la fase più pura e più semplice del montaggio.

Quello moderno, invece, non lavora più sulla trasparenza, ma sull’opacità, e quindi si deve vedere la mano, la caméra-stylo, si deve vedere la presenza del lavoro, e quindi il montaggio gioca anche sulle infrazioni, sul tempo perso, sulle peregrinazioni, sul pedinamento.

Il montaggio postmoderno, invece, opera sull’accelerazione, che significa spezzettamento delle inquadrature, e la moltiplicazione dei punti di vista.

Nel vostro testo voi esaminate, tra le tante tipologie del prodotto filmico, soprattutto la sua narratività. Quanto invece essa è assente nei cosiddetti film “sperimentali”, e quanto ha informato il cinema “classico,” intendendo con questo termine anche il cinema moderno degli anni Quaranta-Sessanta della cinematografia europea?

BERNARDELLI. Rispetto a quello che diceva Bellavita, nel testo mi sono trovato di fronte alla necessità di identificare, da un punto di vista narratologico, un corrispettivo cinematografico del narratore, della voce narrante. Non è un caso che molti teorici, tra cui Gaudreault, l’abbiano identificato nel montaggio, che sarebbe quel momento nel film in cui emerge la guida di una voce narrativa, quella che ha un corrispettivo nel letterario. La cosa che ho fatto io nel libro è stata appunto quella di identificare, rispetto alla già nota narratologia del letterario, i dispositivi corrispondenti nell’ambito cinematografico.

BELLAVITA. Sono assolutamente d’accordo. Forse l’unica cosa che si può aggiungere è che il modello della narrazione moderna è forse quello che si è più storicizzato, cioè che si è più concluso. Quel tipo di racconto lo ritroviamo ancora oggi in certo cinema d’autore, che volutamente ed esplicitamente rende omaggio a quella modernità (quella di Truffaut, di Godard, del Neorealismo, ecc.). Non usiamo il termine “si è concluso, si è superato”, diciamo che si è storicizzato, per cui viene ancora utilizzata quella forma di narrazione ma come un omaggio, un’esplicitazione, un riferimento. La si trova moltissimo anche in tanto cinema contemporaneo di genere statunitense, quello da Sundance. Curiosamente, anche film come Malcolm & Marie, che va su Netflix, che ha avuto un successo straordinario e che è cinema puro, ma cinema da piattaforma, è un omaggio quasi letterale per certi versi al Disprezzo di Godard. È un film che parla di cinema e che ha tantissimi elementi che sono proprio di una narrazione francese pura, godardiana.

Qual è il rapporto tra film e serie televisive? Quali sono i metodi di analisi per due prodotti apparentemente così vicini, ma ognuno con caratteristiche peculiari (prima tra tutte, la lunghezza)?

BERNARDELLI. Agli inizi si parlava di nuove serie TV di qualità, ma non si capiva bene cosa si intendesse con quel termine. Si diceva cioè che le serie TV della fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila fossero molto cinematic, ovvero molto cinematografiche. Si affermava cioè che le caratteristiche tecniche delle serie TV cambiavano in direzione del cinema, non fosse altro per quei tanti registi, sceneggiatori, attori, che si volgevano dal cinema alla serialità.

Il rapporto tra fiction e cinema c’è, c’è continuità, nel senso che le serie TV hanno ricevuto una bella iniezione di qualità dall’ambito cinematografico. Per quanto riguarda le caratteristiche peculiari delle due forme, più che la lunghezza, conta il diverso ritmo, cioè l’esigenza proprio diversa della serialità televisiva di tenere in piedi una narrazione lunga, o che tale si presuppone debba essere, anche se per motivi produttivi una serie può essere chiusa e durare una stagione sola. Il principio formale di costruzione della serie TV è che deve continuamente tenere in piedi una costante fidelizzazione dello spettatore, per cui c’è un ritmo molto diverso da quello del film, che in due ore circa deve chiudere un arco narrativo. Il formato della fiction, 40-50 minuti, deve potersi chiudere e potenzialmente riaprire ogni volta. Al di là del cliffhanger, che è il trucchetto della sospensione del finale di ogni episodio, preso dall’ambito delle soap opera, in realtà è proprio questa continua tensione, questa curiosità che lo spettatore della serie TV deve tenere attiva e che deve essere alimentata da un certo tipo di ritmo di costruzione narrativa.

BELLAVITA. La fiction lavora sempre sull’equilibrio tra due modelli narrativi, uno verticale e uno orizzontale, con infinite possibilità di combinazione, dal massimo della verticalità, la sitcom e il procedural, al massimo della orizzontalità, la soap. In mezzo ci sono tutte le possibili combinazioni: la complex TV, la supersoap, la serie di qualità, chiamiamola come vogliamo, è un modello di serialità che ha una strutturazione sostanzialmente orizzontale ma che poi, per tante ragioni, non ultima quella di attirare, come diceva Bernardelli, sempre l’attenzione del pubblico, lavora su innesti con la cultura verticale.

Attualmente, quando si parla di complex TV o quality TV, si parla anche di tecniche di ripresa cinematografiche. Come valutate tutto questo alla luce di period drama complessi come Mad Men? Esso infatti usa un décupage classico, estremamente lineare, mentre la stratificazione avviene soprattutto a livello di introspezione psicologica e di costruzione della trama…

BERNARDELLI. Mi veniva in mente, rispetto all’idea che si usano tecniche tradizionali di ripresa dal punto di vista formale, una serie TV, True Detective, che ha colpito tutti per questi aspetti, la ricercatezza, la raffinatezza formale, a volte quasi dei virtuosismi (in un episodio ci sono 12-14 minuti di piano-sequenza). Se la trama di True Detective nella prima stagione era piuttosto banale, un noir con tracce di mistery e una spolveratina di horror, dal punto di vista formale colpiva molto proprio anche per questi aspetti della raffinatezza, dell’uscire dalla tradizione. Penso invece a Colombo o a La signora in giallo, che dal punto di vista delle riprese e del montaggio non tendevano certo a creare qualcosa di nuovo.

BELLAVITA. Se non mi sbaglio, era proprio l’episodio 6 della prima stagione di True Detective quello del piano-sequenza, girato da Cary Joji Fukunaga, che poi non ha fatto una grande carriera come regista di cinema.

Tornando alla fiction seriale in genere, essa oggi è molto eterogenea: per esempio, Lost è già storia. Quando esce, essa costituisce qualcosa di innovativo, e ancor prima lo era stata Twin Peaks, e in precedenza Miami Vice¸ che ha l’intento visivo di Michael Mann, anche se non era stata direttamente girata da lui.

Tutte le volte che una personalità autoriale si avvicina al mondo della fiction fa qualcosa di strano. Rivisto adesso, Lost è assolutamente tradizionale, anzi è un po’ sorpassato. Oggi ci sono lavori, in termini di costruzione del racconto, che sono tutt’altro che tradizionali. Pensiamo a una serie come Fargo, allo sviluppo delle serie antologiche: attualmente c’è veramente di tutto. Prendiamo, ad esempio, una serie contemporanea come la tedesca Hausen, che di fatto è una Twin Peaks ambientata in un palazzo popolare della ex DDR: essa lavora tutta, fino all’iperbole, sulla frantumazione del racconto. Altro esempio, Apple TV ha appena fatto uscire Calls, che è una serie di nove episodi di 22 minuti tutti parlati, chiamate telefoniche senza immagini.

Pertanto, la complex TV contemporanea, e tra un po’ dovremo trovare un termine che superi il concetto di complex, così come complex superava quello di quality TV, oggi ha davvero una molteplicità di soluzioni, sia in termini di scrittura, che di ripresa, che di montaggio. Però, di fianco a questo, ci sono decine e decine di serie che sono le più tradizionali del mondo. C’è tanto prodotto superclassico, e poi c’è tanto prodotto propriamente innovativo.

Nicola Dusi e Giorgio Grignaffini, che lei ha già intervistato, nel loro ultimo volume Capire le serie TV, hanno un capitolo molto interessante. In esso vanno proprio a vedere, in casi come The Young Pope, Gomorra, Il nome della rosa, come questi showrunner, questi scrittori, questi montatori, questi registi (in casi come Sorrentino, un regista di film a tutti gli effetti), utilizzino delle tecniche squisitamente cinematografiche per far evolvere il modello del racconto TV seriale in una dimensione sempre più ricca.

Come valutate una serie come Mad Men, che ha una bibliografia sterminata per quanto riguarda i contenuti, lo stile, le tematiche femministe, ecc.? La cosa a cui mi sembra gli studiosi non abbiano guardato a sufficienza è la sua tecnica di ripresa molto lineare, con una struttura da soap opera, perché con una multiplot narrative. Al contrario, tutta la sua innovatività risiede nella complessità dell’intreccio, nell’introspezione psicologica, nello stile…

BELLAVITA. Mad Men è quella che potrebbe essere definita super soap, cioè una struttura completamente orizzontale con poca verticalità di episodio, quindi il modello raffinato, super, della soap. Non c’è dubbio che, tranne alcuni episodi, alcune situazioni, alcune immagini, Mad Men abbia una struttura narrativa a tutti i livelli, di montaggio e di scrittura, piuttosto classica, la profondità la fanno tutti gli altri aspetti. Mad Men è una delle serie sulla quale, secondo me, si è scritto di più, anche perché contiene un aspetto, cioè il concetto di nostalgia, che è il motivo per cui anche io la sto riprendendo e analizzando.

In proposito si potrebbe citare l’ultimo, famoso episodio della prima stagione, The Wheel (La ruota del destino), quando Don Draper pubblicizza il proiettore di diapositive della Kodak…

BELLAVITA. L’episodio simbolico è proprio quando Don Draper fa la campagna pubblicitaria per questo prodotto: su questo hanno scritto veramente tutti. Di Mad Men si può dire tutto tranne che sia nostalgico, cioè che guardi con favore a ciò che è accaduto prima. Quello che affronta la serie è un modo di vedere il passato per capire le criticità del presente.

BERNARDELLI. Mi viene in mente che una serie forse da mettere in parallelo con Mad Men, anche se lontana temporalmente, è l’italiana Made in Italy. Anche qui c’è il senso di nostalgia per quello che era il mondo della moda degli anni ’70-’80 e anche lì c’è un recupero quasi filologico degli abiti, di quell’epoca. Però lì forse c’è una visione quasi positiva, nostalgica in senso proprio, del tipo “Quant’era bello allora e quanto invece è confuso e complesso adesso”. Sia Mad Men che Made in Italy sono serie storiche. Un convegno organizzato a Varese, dove io e Bellavita ci siamo conosciuti e che era intitolato “Storia e televisione”, era incentrato proprio sul fatto che, attraverso la fiction televisiva, si faccia anche storia, recupero di ciò che è stato in passato. Sono, Mad Men e Made in Italy, di sicuro due serie nostalgiche, più o meno critiche…

Un’altra cosa interessante in Mad Men si ha quando Don Draper, nella puntata finale della sesta stagione, davanti a un gruppo di executive esterrefatti, fa la pubblicità della barretta di cioccolato Hershey. Qui racconta della sua infanzia in un bordello, e come la barretta Hershey, che si procurava attraverso degli spiccioli che gli dava una prostituta, è un modo per ricordare. Questa volta, però, l’idea del ricordo è rovesciata negativamente rispetto alla nostalgia “positiva” del prodotto Kodak…

BELLAVITA. Mad Men è tutto fatto di giochi di questo tipo, il passaggio dal presente al passato, cioè il presente e il passato dei personaggi in scena, e quindi tra il presente dello spettatore e il passato raccontato nella serie, di andare e venire apparentemente, di stabilire dei punti, che apparentemente sono nostalgici, anche perché poi la base della nostalgia è il famoso surface realism, il realismo di superficie e il deliberato arcaismo. Questi due elementi sono le due componenti che definiscono il concetto di nostalgia, cioè il non approfondimento, ma il realismo superficiale, e poi la rappresentazione del passato come deliberato arcaismo, quindi di tipo elegiaco. Mad Men apparentemente fa questo lavoro, ma tutte le volte che ci fa guardare indietro, lo fa mostrando un lato oscuro.

BERNARDELLI. Ogni tanto però la serie è anche didascalica. Mi ricordo che nella prima stagione Mad Men citava la famosa pubblicità della Volkswagen che era stata geniale, quella del “Think small”, quella in cui la VW Beatles era definita piccola, e così rappresentata graficamente, perché era una vettura piccola per il mercato statunitense. Ne parlava anche Umberto Eco in un suo famoso saggio sulla pubblicità: nel caso della Volkswagen Mad Men fa storia della pubblicità, e lo fa in modo neutro, cioè non c’è né il senso della criticità, né il senso della nostalgia. Un manuale di pubblicità con meccanismi semplicemente espositivi del passato.

TV series, soprattutto quelle della terza Golden Age (primi anni Duemila), quindi come filiazione o evoluzione del cinema?

BELLAVITA. No, TV series, quelle della Golden Age dei primi anni Duemila, come evoluzione della storia della fiction seriale. La fiction seriale nasce essenzialmente nel 1950, e ha un percorso evolutivo lunghissimo, che arriva fino ai nostri giorni. Il vero discrimine è che attualmente, all’interno della fiction seriale, lavorano moltissime professionalità (registi, sceneggiatori, tecnici, attori), che condividono anche l’esperienza cinematografica.

BERNARDELLI. Sì, poi ci sono dei fenomeni come Sorrentino, che si mette a fare The Young Pope e The New Pope. Tuttavia, casi come questi costituiscono un esperimento fino a un certo punto, nel senso che i registi trasportano il loro stile cinematografico nella serialità televisiva, non cambiando qualcosa, ma semplicemente facendo un cameo di loro stessi, con il loro stile, il loro modo di fare fiction. Certo, la presenza di persone provenienti dal cinema ha alzato un po’ il tiro, come dicevi tu.

Ho visto The Undoing, quella miniserie andata in onda su Sky Atlantic, che era farcita di attori hollywoodiani famosissimi, come Nicole Kidman e Hugh Grant. Tuttavia, la trama è molto deludente: si tratta di un thriller molto interessante ma molto tradizionale, con un finale piuttosto scontato. Non è che in questo caso il passaggio del materiale umano, soprattutto attori, dall’ambito hollywoodiano abbia poi realmente inciso, semplicemente è stato realizzato un bel prodotto “laccato”, perfetto, ma niente di che.

BELLAVITA. Sono due fattispecie diverse, nel senso che ci sono casi molto particolari come quelli di Sorrentino, di Guadagnino, di Lynch, ecc., che giustamente fanno una mithology series, cioè una fiction in cui il regista porta dentro il prodotto seriale tutta la sua mitologia pregressa. Casi come questi saranno sempre più frequenti, questa sarà probabilmente una delle evoluzioni della fiction seriale, ma finora si tratta di casi molto particolari. Poi ci sono forme di travaso, che dal massimo al minimo arrivano a prendere degli attori per farli recitare in una fiction, come The Undoing. Si arriva poi fino a Fincher o a registi che si prestano a dirigere alcune puntate di qualche TV series, ed è chiaro che lì vedi una mano diversa, ed un valore aggiunto. Tuttavia, il cinema rimane un’altra cosa, dove, attenzione, non si tratta di una questione qualitativa, ma di qualcosa di diverso. Sono due sport diversi proprio dal punto di vista narrativo. Il cinema costruisce la narrazione in un certo modo, la fiction in un altro, anche se dal cinema alle serie televisive ci può essere un travaso di professionalità, di esperienze, di immaginari. Secondo me le TV series sono l’evoluzione della fiction seriale, che strutturalmente è seriale, che dialoga molto con il cinema, che è però un’altra forma, perché ha una struttura narrativa di tipo puntuale e circoscritto. Ovviamente, ci sono punti d’incontro: Il Marvel Cinematic Universe è sicuramente un punto d’incontro, perché è un mondo, un vecchio mondo narrativo che ha declinazioni cinematografiche puntuali, che ha saghe in cui è implicita la consequenzialità, l’orizzontalità tra un film e l’altro, ha serie TV molto diverse tra loro, perché i prodotti Marvel per Netflix sono molto diversi da quelli per la Disney e da quelli per i canali generalisti. Casi come questi, tuttavia, sono, secondo me, piuttosto circoscritti.

MARIA GRAZIA FALÀ