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Enrico Carocci: “Empatia incarnata, narratologia affettiva per un nuovo spettatore cinematografico”

 

“Empatia incarnata, narratologia affettiva per un nuovo spettatore cinematografico”

Una chiacchierata con Enrico Carocci sul suo “Il sistema schermo – mente”

Enrico Carocci

Corpo come elemento centrale per la comprensione delle condizioni prelinguistiche, sensoriali e affettive per la produzione del senso, anche per l’esperienza spettatoriale cinematografica. Vita affettiva che rende significativo ciò che ci accade anche quando, nel caso di un film narrativo, lo schermo sostituisce l’ambiente. Poi, empatia come termine che si riferisce a una gamma di meccanismi di condivisione delle emozioni. Inoltre, il cinema come medium che ci fa sperimentare la natura composita e stratificata di quella che si può definire “esperienza soggettiva”. Da non dimenticare, in tutto ciò, la “narratologia affettiva”, che si occupa di dinamiche narrative in quanto vissute, e non di strutture narrative considerate retrospettivamente. Infine, un’attenzione verso il film narrativo e non verso la serialità televisiva, che presenta modalità di fruizione diverse da quelle da “buio in sala”, anche se non mancano analogie tra i due generi (si vedano i serial cinematografici degli anni Dieci e fruizioni su più piattaforme anche del film). Questo, in sintesi, quanto emerso da una chiacchierata con Enrico Carocci, docente di Estetica del cinema e dei media all’Università Roma Tre, e autore de Il sistema schermo mente. Cinema narrativo e coinvolgimento emozionale, edito di recente da Bulzoni.

Come intende il concetto di mente secondo una prospettiva enattiva e incarnata e la mente dello spettatore di film narrativi?

Parto da un presupposto fondamentale: poiché un film può essere considerato come un gioco con le propensioni, gli automatismi e le potenzialità della mente umana, per comprendere l’esperienza spettatoriale è necessario tenere in considerazione i modelli proposti dalle scienze della mente. La riflessione sul cinema lo fa praticamente da sempre: fin dagli anni Dieci critici, intellettuali e cineasti hanno fatto riferimento esplicito al funzionamento della mente per comprendere il linguaggio audiovisivo, o per misurare il suo impatto sugli spettatori, oppure per tentare di realizzare film coinvolgenti. Nella seconda metà del Novecento, poi, alcune nozioni fondamentali per gli studi sul cinema sono state ispirate da modelli che provenivano dalla psicoanalisi e, poco dopo, dalla psicologia cognitiva. Oggi, grazie anche alla nuova fortuna delle neuroscienze, abbiamo a disposizione nuove ipotesi che possono darci molti spunti per comprendere l’efficacia dei film. Il dibattito contemporaneo è molto articolato; in generale, però, sembra impossibile oggi trascurare il ruolo del corpo, perché è il corpo a stabilire limiti e possibilità della nostra vita mentale; così come non è possibile sottovalutare la centralità dell’azione, dal momento che la mente possiede una fondamentale funzione di coordinamento dell’agire nell’ambiente. “Embodied cognition” è l’etichetta sintetica che si riferisce ai modelli di mente che riconoscono questa imprescindibilità del corpo e dell’azione. Potrebbe sembrare controintuitivo occuparsene in relazione allo spettatore cinematografico, cioè a un soggetto che non interagisce effettivamente con gli eventi narrativi, e che si trova in una situazione che sembra fatta apposta per fargli dimenticare di avere un corpo. Eppure, anche quando non è utilizzato per agire, il corpo rimane centrale per la comprensione delle condizioni prelinguistiche, sensoriali e affettive della produzione del senso. Gli studi sul cinema che si focalizzano sull’esperienza spettatoriale hanno ormai accolto ampiamente questa prospettiva: esiste ormai una quantità di studi, magari ispirati da presupposti diversi, che nel loro insieme ne hanno mostrato la produttività. Si può parlare di una diffusa “svolta corporea” nella teoria del cinema, che è cominciata nel corso degli anni Novanta e che sta continuando a mostrarsi vitale. Per quanto riguarda il mio lavoro, mi sono confrontato con la prospettiva della mente incarnata perché mi interessa il tema del coinvolgimento spettatoriale, e credo che dal paradigma dell’embodied cognition si possa imparare molto sulla natura delle emozioni. Perché è sul piano delle emozioni, prima che su quello dell’esperienza sensoriale, che il fenomeno del coinvolgimento si gioca. Il coinvolgimento non dipende soltanto dall’elaborazione degli stimoli audio-visivi che provengono dal film: immagini e suoni sono sì il canale attraverso cui facciamo esperienza, ma è la loro integrazione mentale a consentirci di incorporare il significato di una situazione narrativa. Nel mio libro, in particolare, ho fatto riferimento agli approcci enattivi, che sottolineano la natura dinamica, situata e primariamente affettiva del rapporto tra mente incarnata e mondo. C’è un primato dell’affettività nel nostro rapporto con l’ambiente, che è per noi sempre un ambiente fatto di significati e valori; e anzi la gamma dei nostri affetti può essere vista come la manifestazione della nostra fondamentale apertura, del nostro spontaneo “bisogno di essere coinvolti”. Siamo cioè, secondo questa prospettiva, dotati di una vita affettiva che rende immediatamente significativo quanto ci accade intorno. La differenza, nel corso della visione di un film, è che questa apertura si rivolge a significati e valori stabiliti dalla narrazione, cioè dal flusso di immagini e suoni organizzati narrativamente. Lo schermo sostituisce allora il nostro ambiente. Questo avviene soltanto nel momento in cui si attenuano gli altri stimoli esterni e interni: come è noto, quando lo spazio che circonda lo schermo si fa troppo presente, quando il nostro corpo è impegnato in un’altra azione, oppure quando siamo affettivamente disconnessi, un film semplicemente non ci coinvolge, anche se siamo in grado di percepirlo e magari comprenderlo senza difficoltà. Se si assume un’ottica relazionale, in ogni caso, è il nesso sistemico tra organismo e ambiente ad assumere rilevanza: ho intitolato il libro Il sistema schermo-mente proprio per evidenziare l’importanza di una prospettiva di questo tipo.

In che modo definirebbe il concetto di empatia, alla luce dei neuroni specchio e della situazione mentale dello spettatore nell’atto della fruizione filmica?

Non è semplice dare una definizione: e il problema è innanzitutto nella nozione stessa di empatia, che nel corso del tempo è stata riferita a una serie di meccanismi diversi attraverso cui riusciamo a “metterci nei panni” di un personaggio. Di sicuro, tra gli studiosi dell’empatia cinematografica, nessuno ha potuto ignorare la scoperta dei neuroni specchio: nemmeno quelli che, negli anni Novanta, avevano definito l’empatia in termini “disincarnati” e privilegiandone gli aspetti cognitivi. Questo non significa però, appunto, che si sia giunti a una definizione condivisa, né che tutte le spiegazioni proposte convergano unicamente sull’attivazione di meccanismi specchio. Per questo motivo credo sia preferibile considerare l’empatia come un termine che si riferisce a una gamma di meccanismi di condivisione delle emozioni, cioè all’intreccio di reazioni che vanno dal rispecchiamento alle forme più complesse di mind reading. È una gamma eterogenea: a volte si tratta di reazioni involontarie e quasi automatiche, altre volte il cinema ci richiede sforzi cognitivi maggiori, che ci impongono per così dire di rimodellare le risposte affettive più immediate. In ogni caso, se si assume una prospettiva incarnata, queste ultime rimangono il fondamento delle nostre dinamiche reattive (e sottolineo a proposito che il coinvolgimento emozionale è fatto anche di dinamiche anticipatorie, “pro” – attive, che difficilmente si potrebbero definire empatiche). Per tornare alla domanda, credo che l’implicazione più interessante della scoperta dei neuroni specchio sia il modello della “simulazione incarnata” proposto da Vittorio Gallese, che si riferisce a un meccanismo generale di funzionamento del cervello: è la condizione di ogni relazione intersoggettiva, perché ci consente di creare uno spazio di interazione condiviso che si basa sul “noi”, sul riconoscimento dell’altro come simile a noi. Si tratta di una nozione produttiva per gli studi sul cinema, come hanno mostrato in Italia lo stesso Gallese con Michele Guerra, oppure Adriano D’Aloia e Ruggero Eugeni: il cinema può essere molto coinvolgente anche perché gli spettatori possono comprendere in maniera diretta lo stato in cui si trova un personaggio, in quanto utilizzano in parte le proprie stesse risorse motorie, sensoriali o affettive per “incarnare” il senso di una particolare situazione. In qualche modo si tratta di una versione del tutto aggiornata del fenomeno che, tradizionalmente, gli studi sul cinema chiamano “identificazione”. O almeno, di alcuni suoi aspetti.

Alla luce delle teorie sull’empatia incarnata, cosa avviene nel cambiamento del Sé dello spettatore, del suo essere – al – mondo e della sua azione nel mondo?

La questione del coinvolgimento emozionale, in effetti, è direttamente collegata al tema dei confini del Sé e al livello di “immersione” che un film ci consente di raggiungere. Anche la nozione di “Sé”, però, è complessa. Anche a volersi concentrare soltanto sul Sé esperienziale, direi che si tratta di una struttura all’interno della quale coesistono diversi livelli di coscienza: livelli che sono normalmente integrati, in modo da consentirci di avere esperienze unitarie e coerenti, e delle quali sentiamo di essere i “soggetti”. Davanti a un film narrativo, gli schemi di integrazione del Sé vengono per così dire riconfigurati: è un po’ come se si verificasse una disconnessione tra i livelli corporei-affettivi e quelli più riflessivi e consapevoli, tra i livelli che generano la sensazione di essere soggetti dell’esperienza in atto e quelli che ci consentono di ricordare che siamo individui, che possediamo una biografia fatta di esperienze sedimentate. Per questo, nel momento in cui siamo spettatori appassionati, siamo noi stessi e allo stesso tempo non lo siamo: il coinvolgimento vive di questa alternanza, tra la sensazione di essere immersi nella storia e il riaffiorare della consapevolezza del luogo in cui ci troviamo. Come ha scritto Francesco Casetti, si tratta di una negoziazione che riguarda l’integrità e la posizione dell’“io” che vive l’esperienza filmica. Uno dei motivi di interesse del cinema, mi sembra, è proprio questa capacità di far emergere questa natura paradossale, niente affatto monolitica, dell’esperienza “in prima persona”: ciò che sentiamo davanti a un film si riferisce ai personeggi e alle vicende narrate, e tuttavia riguarda profondamente noi, anche a un livello viscerale. Faccio un esempio personale: talvolta mi trovo a temere per la vita di un personaggio che deve essere giustiziato, ma quando la situazione diventa particolarmente intensa e l’esecuzione si avvicina non sono più in grado di dire se temo per la sua vita o per la mia; talvolta, lo dico con qualche imbarazzo, mi trovo addirittura a sperare che arrivi un ordine di sospensione dell’esecuzione, e che per una volta le cose possano andare diversamente, anche quando so già che non accadrà. Tutto questo può accadere anche se conosco già il film, e so come andrà a finire: il fatto di essere alla seconda o terza visione, in molti casi, non intacca l’efficacia del coinvolgimento. Sospetto chi siano esperienze sostanzialmente condivise: quello che accade è che, nel momento in cui un film evoca emozioni primarie, ad esempio legate alla sopravvivenza, si attivano strutture affettive di base, che costituiscono il nucleo preriflessivo del Sé, e che sono autonome rispetto a quelle più consapevoli e riflessive. Anche dinamiche legate all’attaccamento possono essere molto efficaci in questo senso. Per concludere, il cinema ci fa sperimentare con estrema evidenza la natura composita e stratificata di quella che chiamiamo “esperienza soggettiva”, e di questa capacità le scienze della mente possono darci spiegazioni convincenti. Davanti a film astratti o di poesia il coinvolgimento piò essere anche molto intenso, basato su emozioni estetiche difficili da sperimentare nell’esperienza ordinaria, ma funziona diversamente rispetto alle dinamiche su cui mi concentro nel libro. Per questo mi riferisco sempre a un cinema narrativo o rappresentativo: un film narrativo è una macchina che sfrutta la nostra costitutiva apertura al mondo per riconfigurare le nostre esperienze affettive, ad esempio disconnettendole dagli aspetti più consapevoli della nostra coscienza. Il che ci consente di partecipare più liberamente, e talvolta in maniera più intensa, alle vicende: in una maniera che tra l’altro può essere estremamente efficace per la regolazione del Sé e degli affetti. A questo proposito, ad esempio, Michele Cometa ha mostrato come una delle funzioni dei racconti sia in qualche modo terapeutica, e riguardi il contenimento dell’ansia.

In che misura la narratologia affettiva si differenzia da quella tradizionale che è stata a lungo oggetto degli studi semiotici, e che ha preso in esame tanto la produzione scritta quanto quella filmica?

Se ci si concentra sull’efficacia emotiva di una narrazione, è necessario pensarla in termini di esperienza vissuta, “istante-per-istante”. Una narrazione, in questa prospettiva, è l’organizzazione gerarchizzata di nuclei micro-narrativi, cioè delle piccole unità esperienziali che costituiscono una storia vissuta, e che corrispondono ampiamente al modo in cui organizziamo anche le nostre esperienze quotidiane. Fin dalla prima infanzia, ancor prima di imparare a parlare, organizziamo i nostri vissuti in piccoli episodi che sono già forme narrative, sebbene non verbali. Sono proto-narrazioni di natura affettiva. Una “narratologia affettiva” (il termine è proposto da Patrick C. Hogan) si occupa di dinamiche narrative in quanto vissute, e non di strutture narrative considerate retrospettivamente. Secondo questa proposta le unità minime del racconto, ad esempio, non andranno individuate in costrutti spazio-temporali oggettivi, quanto piuttosto in episodi di salienza emozionale soggettiva, dal momento che sono le emozioni a conferire significati particolari a determinate situazioni. Se ci limitassimo a decodificare eventi dislocati in uno spazio-tempo coerente sperimenteremmo soltanto una catena di eventi privi di significato e di forza. Una narratologia affettiva aggiunge insomma la consapevolezza degli aspetti vissuti di quegli eventi: ad esempio la loro rilevanza emozionale, oppure la sensazione che il loro susseguirsi implichi una progressione che genera quel senso di “spinta in avanti” che fonda il coinvolgimento narrativo. È una prospettiva dinamica e qualitativa che si concentra sulla coerenza e coesione emozionale del racconto, a vari livelli di complessità; ed è una proposta, mi sembra, complementare rispetto al progetto della semiotica. La semiotica si è occupata tanto delle “passioni” quanto dell’esperienza mediale, e non ha rifiutato peraltro il confronto con le scienze cognitive; il suo obiettivo, come ha scritto bene Ruggero Eugeni, è lo studio del “design dell’esperienza mediale”, cioè dei progetti che costruiscono l’esperienza di fruizione, a partire da immagini e suoni ordinati narrativamente (nel caso degli audiovisivi). Se le narratologie cognitive di stampo anglo-americano non sottolineano questa complementarità, credo, è per trascuratezza, o perché intendono la semiotica come una disciplina fondata su teorie linguistiche da rigettare in blocco.  È una questione di tradizioni accademiche. Per quanto mi riguarda è sempre più interessante individuare i punti di contatto tra approcci diversi, quando esistono, e naturalmente fatta salva la necessaria cautela sul piano dei presupposti teorici di fondo. Per altri versi, credo che l’incontro tra prospettive umanistiche e scientifiche, quando queste si trovano a condividere gli stessi oggetti o gli stessi problemi, sia per molti aspetti necessario. Non è un’integrazione semplice; esistono però molti modi per realizzarla, e tutti contribuiscono allo sviluppo di quella che Murray Smith ha chiamato “terza cultura”, un’ipotesi che prevede una reciproca cooperazione tra modelli umanistici e modelli scientifici.

Cosa ne pensa delle serie televisive narrative (penso, ad esempio, a Homeland), che richiedono una fruizione lenta e continua nel tempo, e che non hanno uno spazio di fruizione come (spesso) la sala buia tipica dei film?

Faccio una premessa. Nel mio libro mi sono concentrato sul piano della sistemazione teorica: non ho cercato, per il momento, di trarre una vera e propria metodologia per l’analisi dell’emozione a partire da costrutti filmici, sebbene credo ci sia già qualche spunto in tal senso. È una parte del lavoro che vorrei sviluppare in futuro, ma che non considero come un passaggio automatico né scontato, come non lo è mai il passaggio dal piano della teoria a quello della metodologia. Ora, mi sembra, è su quest’ultimo piano che emergono le maggiori differenze tra il film di finzione e la serialità televisiva. I racconti seriali sono concepiti e strutturati secondo principi in parte diversi rispetto a quelli cinematografici e tutto questo ha ricadute sul piano metodologico, ragione per cui gli strumenti per l’analisi della narrazione televisiva sono in parte diversi da quelli per l’analisi del cinema narrativo. Per il resto, però, bisogna ricordare che anche la fruizione di un film può avere luogo in forme non tradizionali: attraverso nuovi dispositivi, su nuove piattaforme, secondo nuove strategie produttive e distributive. Le storie del cinema, d’altra parte, includono tra i propri oggetti i serial cinematografici, prodotti già negli anni ’10 e fruiti in sala con tempi paragonabili a quelli della fruizione televisiva (la quale, da parte sua, può essere fruita oggi in forma bulimica, come dimostra la pratica del binge watching). Quello che mi preme sottolineare è che i meccanismi e i regimi emozionali tipici delle narrazioni audiovisive dipendono in generale dalle condizioni che caratterizzano le situazioni di fruizione cinematografica. Considero “cinematografica” ogni situazione di fruizione in grado di soddisfare alcuni requisiti tipici dell’esperienza in sala, ma che possono avvenire in contesti diversi: il corpo tendenzialmente immobile, l’impossibilità di interagire con la vicenda narrata intervenendo sul corso degli eventi, un relativo oblio dello spazio circostante, risorse cognitive focalizzate su ciò che avviene sullo schermo. È in condizioni di questo genere che funzionano i meccanismi e regimi emotivi tipici dell’esperienza spettatoriale, oppure le dinamiche di integrazione del Sé cui accennavamo prima. Se le consideriamo sotto questi aspetti, le narrazioni cinematografiche e quelle televisive si somigliano.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Enrico Carocci