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Cristopher Cepernich: “Campagna digitale? Non in Italia, non in queste elezioni”

“Campagna digitale? Non in Italia, non in queste elezioni”

Cristopher Cepernich spiega come neanche stavolta l’interazione interpersonale, vitale alle presidenziali USA, si sia affermata da noi

Cristopher Cepernich

Una campagna, quella digitale, che tiene conto dei leader d’opinione intermediari tra cittadini e leadership politica, e della microtargetizzazione, per cogliere segmenti sempre più specifici dell’elettorato. Al contrario, una strategia elettorale basata sulla televisione, quella delle attuali elezioni. Una modalità di fare comunicazione politica, quella italiana, che anche stavolta non ha tenuto conto dell’interazione interpersonale tipica della campagna digitale che, alle presidenziali di Obama, ha portato a una maggiore affluenza al voto e a una maggiore partecipazione politica. Un modo obsoleto di relazionarsi con l’elettorato anche da parte del Movimento 5 Stelle, che solo negli intenti aveva detto che sarebbe andato casa per casa, ma che ha saputo cogliere bene il clima d’opinione corrente e per questo ha vinto. Così Cristopher Cepernich, direttore dell’Osservatorio sulla Comunicazione Politica e Pubblica all’Università di Torino, nonché docente di Sociologia dei Media e dei Fenomeni Politici, autore di Le campagne elettorali al tempo della networked politics, edito da Laterza, commenta le attuali elezioni.

Qual è la differenza tra campagna online e campagna digitale?

La differenza è sostanziale, nel senso che la campagna online si esaurisce nella dimensione di Internet. Il concetto di campagna digitale invece è molto più ampio: contiene quella online ma non la esaurisce. Per esempio, gran parte della comunicazione politica che durante questa campagna elettorale ha circolato girava sulla messaggistica, cioè su una serie di piattaforme che mettono in relazione una persona con un’altra. Questo mettere in gioco di nuovo la relazione interpersonale, la comunicazione one – to – one, spiega cosa sia la comunicazione digitale. Essa è la comunicazione di tipo relazionale che si determina sulla base delle nuove tecnologie e di Internet nella sua ultima versione.

In essa rientra anche il cosiddetto microtargeting, che è quella funzione della comunicazione che oggi i social network mettono a disposizione per mirare molto meglio di un tempo il messaggio dal politico all’elettore. La microtargetizzazione può essere un modo per tarare meglio il messaggio sugli interessi specifici di ogni singolo elettore, per bucare quel muro di disattenzione che caratterizza la comunicazione politica di questi tempi. Essa infatti è satura.

Sara Bentivegna oggi a Rainews24 ha detto che la comunicazione politica di queste elezioni è avvenuta principalmente sulla TV. Lei è d’accordo?

Assolutamente sì, questa è stata una campagna elettorale fortemente costruita intorno alla televisione, e ciò era prevedibile. È stata infatti effettuata senza soldi, senza grandi investimenti da parte dei partiti, e quindi come soluzione si è scelto di saturare gli spazi TV. Allora i talk show sono diventati il luogo della presentazione del programma e dei messaggi elettorali. In ogni caso, poi, oggi quando si parla di televisione non la si può immaginare slegata dal web e dai media digitali. Attualmente, diversamente dal passato, la TV e il politico in TV vivono anche di second screen. Quindi se uno spettatore la guarda, è probabile che guardi anche i tweet e le interazioni su Facebook del candidato, che usa anche i social e Internet.

Quando comincia a riaffermarsi, da parte dei partiti italiani, la consapevolezza di quanto sia importante il paradigma del two step flow of communication di Katz e Lazarsfeld (1955) nella strutturazione delle campagne elettorali?

A differenza degli Stati Uniti e di alcune esperienze europee, in Italia la cosa non si è compresa. Il problema della comunicazione interpersonale è legato alla comprensione corretta di cos’è una campagna digitale, solo che i politici italiani non l’hanno capita per le ragioni dette prima. Essi immaginano di usare il web come fosse la TV e non cercando di coltivare la relazione con l’elettore. Seguendo i twitter e le interazioni su Facebook dei candidati, scopriamo infatti che questi erano più funzionali alle rappresentazioni televisive del leader che non invece a una vera e propria relazione con i possibili elettori. Ciò significa che la lezione delle campagne di Obama del 2008 e del 20012, e poi anche quelle successive come le presidenziali del 2016 tra Trump e la Clinton, che puntavano sulla relazione interpersonale, non è passata per niente.

Inoltre, ciò che differenzia le campagne elettorali USA da quelle italiane, e che rendono difficile fare interazione face – to – face, è la temporalità. Noi abbiamo una campagna elettorale molto corta: in un mese è difficile costruire relazioni che non si sono coltivate per cinque anni di governo e di opposizione. Invece, si può sfruttare bene la potenzialità del digitale, e quindi le relazioni interpersonali, se si tiene conto che la comunicazione politica non può avere una temporalità così contenuta e che si deve continuare a stare in contatto con il cittadino anche dopo che la campagna è finita.

Perché in Italia, a differenza degli Stati Uniti, nel campo della comunicazione politica ricerca accademica e ricerca sul campo non sono andate, tranne qualche caso, d’accordo?

Tendenzialmente la politica italiana, per quanto riguarda la comunicazione, ha sempre cercato di evitare le innovazioni. Si è fatto fatica negli anni Novanta a immaginare che essa andava verso il marketing elettorale, ad immaginare che il web ha caratteristiche che possono essere sfruttate meglio. Inoltre, probabilmente le innovazioni che vengono dalla ricerca implicano anche che il politico ceda un po’ del suo potere decisionale, e che faccia fatica a cederlo.

Qual è stato, secondo lei, il partito o la coalizione che in queste elezioni ha fatto più uso della comunicazione interpersonale, online e offline?

Se ne è fatto pochissimo uso: è stata propagandata, questo sì. Il Movimento 5 Stelle con Roberto Fico all’inizio ha fatto un lancio sul suo Facebook in cui diceva che avrebbe fatto la campagna elettorale dei condomini, andando casa per casa, Renzi ha detto la stessa cosa sulla sua newsletter e in alcune comparsate TV. In realtà sia nell’uno che nell’altro caso si è trattato più di retoriche che non di un reale impianto di campagna elettorale.

Qual è stato il fattore o i fattori decisivi per la vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle? Crede che la qualità dei contenuti abbia contato, oltre ad un buon (se c’è stato) ground game?

Il ground game, come già detto, non è stato effettuato. È difficile e anche metodologicamente scorretto immaginare che ci siano un mezzo, una strategia che abbiano determinato l’esito di una buona campagna elettorale, in quanto le condizioni sono sempre molte e diverse. Probabilmente in questo caso come in altri contesti è contato molto il clima d’opinione generale nel quale la comunicazione politica è stata prodotta. C’è stata una grossa polarizzazione emotiva intorno ad alcuni temi particolarmente mobilitanti. Penso al ritorno della dimensione fascismo – antifascismo, a tutta la questione legata a Macerata e quindi al razzismo. Tutta questa emozionalità che ha permeato la campagna elettorale ha forse favorito un certo tipo di retorica: penso a quella di Salvini, a quella del Movimento 5 Stelle che puntavano sulla mobilitazione cognitiva di alcuni settori specifici di pubblico intorno ai temi della paura, dell’ansia.

Lei nel suo libro ha parlato della qualità dei contenuti che si veicolano in una campagna elettorale, nel senso che nessuna buona campagna può funzionare senza contenuti dietro.

Faccio fatica a rispondere sulla qualità dei contenuti perché implica un giudizio di valore. Posso dire invece che buona qualità dei contenuti significa dire qualcosa che ha una presa effettiva per i cittadini che votano, entrando in sintonia con i temi nella loro agenda. Se ciò si può chiamare qualità dei contenuti, il Movimento 5 Stelle è stato il partito più capace di colpire il suo settore di riferimento.

Per quanto riguarda il PD, per qualità dei contenuti, mi riferisco al fatto che, nei suoi quattro anni di governo, ha fallito con i giovani, non ha valorizzato la ricerca scientifica, la scuola e ha mostrato, a detta di molti, una scarsa incisività nei confronti dei migranti…

Sì, però quando si governa, rivincere le elezioni o comunque andare bene a quelle successive, è una cosa sempre difficile. In Italia, dalla Seconda Repubblica in avanti, ogni governo che va alle elezione perde. Quindi, il problema forse non è legato a Renzi o al PD, ma a un dato strutturale. Quando si governa in periodi così complicati come il nostro il governo in carica perde sempre. Evidentemente la percezione che i cittadini hanno di ciò che sta capitando è sempre molto distante da quella che ne danno i politici. Anche se raccontano i loro successi oggettivi, come le rilevazioni dell’ISTAT sul lavoro, sul PIL, ecc., se la percezione del cittadino è quella di una quotidianità sofferta e quindi distante da quella rappresentazione, tutto è inutile.

Forse Renzi si è fatto sfuggire la vittoria, oltre al fatto di non essersi dimostrato in sintonia con gli elettori, anche per una eccessiva personalizzazione della sua figura…

Oggettivamente Renzi è una figura che personalizza, ma anche questo è un dato di struttura: anche Berlusconi rappresenta Forza Italia, Grillo, Di Maio e Fico il Movimento 5 Stelle, così come Salvini è la Lega. La personalizzazione è qualcosa che tutti i leader hanno fatto: il fatto è che ci sono leader più empatici e leader meno empatici, e probabilmente Renzi non lo è molto, e questo può essere un problema, non la personalizzazione in sé.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

 

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