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“Destinazione India”, e Bollywood sbarca in Trentino

 

Da Reset Doc


È l’India la protagonista del 63° Trento Film Festival, (dal 30 aprile al 10 maggio) dedicato alla montagna fin dalla sua nascita, ma aperto ora anche a temi legati ad essa, quali l’ambiente e i popoli che con la montagna convivono. Con la sezione “Destinazione India”, è in corso (dal 2 maggio al 9) una rassegna su questo paese con mostre fotografiche, dibattiti e appuntamenti letterari. Sarà poi proiettato un film cult, che con la montagna ha un legame particolare in quanto girato in Kashmir e che ha vinto il premio del pubblico al nono Festival di Roma. Si tratta di Haider, libero riadattamento bollywoodiano dell’Amleto di Shakespeare ad opera del regista Vishal Bhardvaj, che ha visto la vicenda sulla chiave degli scontri indipendentisti del Kashmir del 1995 e dei conflitti indo – pakistani relativi a quella regione.

Tra i punti di eccellenza del festival, anche i documentari di impegno sociale. Tra gli ospiti la regista e giornalista indiana Kavita Bahl che presenterà al pubblico italiano due documentari dedicati ai problemi causati da un’agricoltura non più compatibile con i ritmi del piccolo contadino. Le due opere, Candles in the Wind (“Candele nel vento”) e Damned, girate con il marito Nandan Saxena, anche lui filmamker e giornalista, saranno presentate al festival nella sezione documentari insieme ad altri lavori di impegno sociale. Vi saranno infatti anche lungometraggi come quello di Nishtha Jain dal titolo Gulabi Gang, del 2012, e dedicato ad un movimento di donne, la Gulabi Gang appunto, fondato nel 2006 dall’attivista sociale Sampat Pal e volto a combattere gli abusi sulle donne, la corruzione e l’ingiustizia sociale.

In particolare, Candles in The Wind parla della piaga degli agricoltori suicidi nel Punjab, che negli anni Sessanta è stato testimone della cosiddetta Green Revolution. Il documentario nasce nel 2014 dopo Cotton for my Shroud (“Cotone per il mio lenzuolo funebre”), sul genocidio dei contadini di cotone del Vidarbha, regione orientale dello stato indiano del Maharashtra, ed è dedicato alle vedove e ai figli dei contadini suicidi del Punjab, il bacino agroalimentare dell’India. Dopo un anno e mezzo di riprese e sei mesi di montaggio, racconta dei danni che la “Rivoluzione Verde” ha provocato nelle vite degli agricoltori della zona in termini di malattie, di cancri, di debiti non pagati e di conseguenti suicidi. La Green Revolution è iniziata negli anni Sessanta ed è anche oggi fortemente condizionata dalle multinazionali a causa dell’uso di pesticidi, di fertilizzanti chimici e piante transgeniche.

Un documentario girato in chiave minimalista, Candles in the Wind, che lascia spazio in modo semplice alle voci delle vedove e dei loro figli, attraverso una serie incrociata di interviste. “La macchina da presa, dice il regista Nandan Saxena a ResetDoc, è un’estensione della visione del regista. Un film può essere una semplice esposizione, oppure una narrazione stratificata che conduce all’interpretazione: la macchina da presa può essere o un dispositivo ottico – meccanico che “congela” i personaggi oppure essere come il pennello di un pittore, che nasconde più di quanto rivela.”

“Scegliendo lo stile di ripresa di Candles in the Wind, prosegue Saxena, si è deciso di rispettare il dolore delle vedove e dei genitori degli agricoltori suicidi, usando videocamere piccole, per non forzare troppo la sofferenza di quelle persone. Abbiamo mantenuto le nostre inquadrature semplici, e permesso al dramma di svolgersi, facendo sì che questo stile minimalista si adattasse a queste storie struggenti. Qualcosa di più avrebbe diluito il pathos.”

Nel documentario vi sono però anche “buoni samaritani”, come l’attivista sociale Inderjit Singh, detto “Jaijee”, e alcuni sindacati di sinistra. Jajiee è uno di questi filantropi, la cui organizzazione, la Baba Nanak Educational Society, è andata documentando i suicidi agrari in Punjab e offrendo aiuto a molte famiglie attraverso l’istruzione dei loro bambini. Per quanto riguarda i sindacati di sinistra, spiega Kavita Bahl, “questi hanno condotto indagini relative a vari villaggi per mettere a confronto i dati sui suicidi e hanno mosso accuse ai due partiti apparentati al governo, il BJP e l’Akali Dal (il più importante partito politico Sikh a livello mondiale) e, prima, al sistema politico del Congresso, a proposito del genocidio orchestrato dallo Stato.”

“I compagni hanno guadagnato credibilità, conclude Kavita Bahl, laddove altri partiti hanno tradito per sposare la causa delle multinazionali e dei ricchi contadini. Purtroppo, il Gurudwara (la rete filantropica Sikh) si fa sentire per il suo silenzio. La rete dei Gurudwara (“La porta del Guru”) potrebbe offrire rifugio, galvanizzare i contadini e costringere il governo ad annullare le sue politiche contrarie agli agricoltori, ma l’Akali Dal al governo controlla il Gurudwara.”

Un documentario sociale, quindi, che spicca per il suo interesse verso il mondo rurale e che fa il paio con Damned, sempre come detto girato dai due registi e che tratta dei trasferimenti forzati di persone dovuti agli allagamenti in seguito alla costruzione di dighe per sostenere lo sviluppo economico dell’India.

Ancora, interesse verso il sociale ma con in più un occhio alle donne per Gulabi Gang, il lungometraggio dedicato a Sampat Pal e alle sue lotte contro femminicidi, corruzione, ingiustizie. È Sampat Pal a denunciare alla polizia casi di finti suicidi di donne ad opera dei mariti avvenuti in alcuni villaggi rurali, mentre tutto il paese tace e magari anche alcuni genitori non parlano. È poi un’esponente della Gulabi Gang (si noti bene, tutte le attiviste per distinguersi vestono un sari rosa) a presentarsi come candidata e a vincere alle elezioni per il consiglio di villaggio di Brahmori (del distretto di Banta, in Uttar Pradesh) contro un capo villaggio, Rameshwar Thakur, che è un criminale e che terrorizza tutti gli abitanti della zona. Ma non tutto va bene: la sorella di un membro della Gulabi Gang viene uccisa dal fratello e lei, nonostante appartenga a questa organizzazione progressista, cerca di coprirlo con la sua influenza dimostrando una mentalità arcaica, ancora legata ai vecchi codici di comportamento.

Oltre a quelli citati, non mancheranno infine al festival altri lungometraggi dedicati alle donne e al sociale, ma ci saranno anche due anteprime italiane nella prima e ultima giornata di programmazione: si tratta di Monsoon, del regista canadese Sturla Gunnarsson, sul ruolo dei monsoni nei ritmi naturali di chi vive in India, e Fascinating India 3D del filmmaker tedesco Simon Bush, viaggio in tre dimensioni tra gli aspetti architettonici e paesaggistici più belli dell’India.

Tranne questi due casi, nella sezione dedicata all’India non si avranno inediti. “Il Festival ha diverse sezioni, programmate secondo diversi principi, afferma Sergio Fant, selezionatore dei documentari del festival. In quella dedicata all’India ci interessa non tanto la novità del prodotto da presentare, quanto che la programmazione sia completa. La panoramica sull’India guarda indietro fino a tre-quattro anni fa – perché il principio non è quello di offrire delle anteprime ma di far sì che questi film raccontino il paese con la varietà che ci interessa. ”Infatti, conclude Fant, dopo aver dedicato le nostre sezioni al mondo occidentale (i paesi precedentemente protagonisti sono stati, uno per ogni anno, Finlandia, Turchia, Messico, Russia), quest’anno per la prima volta ci siamo rivolti ad una zona altra, l’Asia appunto e l’India in particolare, in quanto la produzione cinematografica recente ci aiutava a sostenere un progetto di questo tipo. Per esempio, India: Matri Bhumi di Roberto Rossellini, del 1958 e restaurato nel 2011 dalla Cineteca di Bologna, sarà presentato simbolicamente come l’idea di un viaggio dall’Italia verso questo grande paese.”

India, la politica ‘anglofona’ di Bollywood

 

Da Reset-Dialogues on Civilizations

India – Un mercato che, dopo la liberalizzazione del 1991, ha indebolito lo Stato. Una classe politica che si trova delegittimata e che viene sostenuta solo dalle classi più deboli, mentre gli anglofoni con una spiccata propensione alla mobilità sociale verso l’alto l’abbandonano e tendenzialmente non vanno a votare. E poi, una classe sociale, i contadini, che ormai sono altro rispetto ai ceti urbani. Infine una grande industria cinematografica, Bollywood, che sta diventando il brand di se stessa. Di questo e di altro parla M. K. Raghavendra nella sua intervista a Resetdoc a proposito del suo ultimo libro The Politics of Hindi Cinema in the New Millennium. L’autore è noto anche per il suo Seduced by the Familiar: Narration and Meaning in Indian Popular Cinema (Oxford University Press, 2008). Nel 2013, oltre a registi indiani, si è occupato poi anche di filmografia occidentale con il suo Director’s Cut. 50 Film-makers of the Modern Era (Collins), in cui analizza, tra gli altri, anche Antonioni, Pasolini e Fellini.

L’immaginario filmico è stato definito da Rachel Dwyer nel suo ultimo libro (Bollywood’s Cinema. Hindi Cinema as a Guide to Contemporary India) come un elemento che continua a permanere nel pubblico indiano. Ma quanto è cambiato con la globalizzazione e come la descriverebbe a un pubblico occidentale?

Il cinema popolare Hindi era – ed è – un cinema nazionale che aiutò enormemente nel mantenimento della nazione come concetto immaginato dopo il 1947. Fece ciò usando un tipo molto basilare di Hindi non letterario accessibile alle persone che non parlavano l’Hindi e ‘narrativizzando’ le esperienze sociali della nazione-come-comunità nella lingua del mito. Facendo un esempio, è solo dopo il 1947 che il cinema Hindi ha scene in cui si raffigurano tribunali – in cui il tribunale diventa un luogo sacro in cui la verità è posta in maniera pura e semplice e lo stato stesso è interrogato – attraverso il motivo del poliziotto o del giudice accusato di cattiva condotta (CID, 1956, Awara, 1951). Questo è un modo di mostrare allegoricamente che lo Stato è un’autorità morale ma che i suoi servitori sono anche i suoi garanti. Altre esperienze narrativizzate furono la sconfitta della guerra Sino-Indiana del 1962 (che compare indirettamente e più come un’assenza), l’ascesa della signora Gandhi, il suo populismo, l’erosione dell’autorità dello stato nel 1980 attraverso i movimenti separatisti del Punjab e di altre regioni, l’abbandono del socialismo nehruviano nel 1991 quando l’economia venne liberalizzata e allineata con il mercato. Ho trattato tutto questo in un mio precedente libro, Seduced by the Familiar: Narration and Meaning in Indian Popular Cinema. L’avvento della globalizzazione nel nuovo millennio ha fatto qualcosa di diverso, e cioè ha creato una nuova audience più in sintonia con l’ambiente sociale globale che con l’India locale, un’audience urbana che era anche più familiare con la lingua inglese – la lingua della globalizzazione.
Il cinema Hindi cominciò a rivolgersi verso questa classe dotata di mobilità sociale verso l’alto in maniera consistente. I motivi nel nuovo cinema sono perciò molto diversi da ciò che erano prima del 2000. La tradizione non è più esaltata e le questioni etiche hanno perso terreno – con l’implicazione che il melodramma non è più la forma narrativa dominante – e l’aspirazione individuale (con l’esibizionismo consumistico) diventa un motivo chiave. Il cinema Hindi, che era una volta consumato nel “Terzo Mondo” ora è fruito principalmente dalla diaspora Indiana e del Sud dell’Asia. Come ci si può aspettare, c’è qualche resistenza a questo cinema anglofono in India e c’è anche un cinema che si rivolge a una classe non anglofona nelle aree rurali/semi-urbane che ha come sua icona la star Salman Khan.

Tra i film che lei cita uno, Rang De Basanti (2006), sembra esprimere il disagio giovanile di fronte alla corruzione politica e sembra piuttosto innovativo, in quanto parla di un gruppo di ragazzi di tutte le estrazioni sociali che vive all’occidentale, compie atti di terrorismo contro un politico corrotto e che muore come un terrorista, non senza aver mandato il proprio messaggio da una radio privata. Come lo spiegherebbe?

Rang De Basanti, secondo il mio punto di vista, è stato il primo film a rivolgersi deliberatamente alla nuova classe urbana che parla inglese e ha i suoi protagonisti che imprecano con naturalezza in inglese. Senza considerare l’ascesa di questa classe urbana in termini materiali, i ceti più poveri non istruiti esercitano molto più potere nel determinare l’esito delle elezioni. Ciò che perciò è successo è che la classe sociale dotata di mobilità verso l’alto è diventata disincantata nei confronti della politica e dei politici, mentre la restante parte della popolazione è interamente dipendente da questi. In Rang De Basanti i protagonisti assassinano un politico corrotto e io valuto questo fatto come una rappresentazione della disillusione verso la politica da parte della classe urbana dotata di mobilità sociale verso l’alto. Questa classe favorisce la governance nella politica, cioè l’economia senza la politica – in cui vengono mandate avanti le riforme economiche, orientate al mercato. I poveri favoriscono il populismo, il clientelismo la politica, tutti elementi che appartengono alla figura dell’uomo politico tradizionale.

Un altro film, Rajneeti (2010), è una saga a metà tra il Mahabharata e Il Padrino. Quiuna dinastia politica si autodistrugge mentre rimane Primo Ministro solo la vedova di uno degli uccisi, e non a caso è figlia di un grande imprenditore. Perché lei definisce questa vicenda “una soap opera”?

Questo film continua alcune delle posizioni di Rang De Basanti in un modo differente. I politici non si preoccupavano delle questioni politiche ma si comportavano come degli uomini d’affari che proteggono un impero combattendo i rivali e/o i competitor. L’elettorato non è in evidenza eccetto che come folla plaudente. Il fatto che la maggior parte dei politici muoiano per lasciare il loro impero alla figlia di un imprenditore mostra una mancanza di fede nella classe politica al governo. Rajneeti poi è una soap opera da due punti di vista. In primo luogo, essa partecipa in modo vicario alle vite della gente potente e, in secondo luogo, cerca di mantenersi equidistante tra le due famiglie in guerra tra loro. Essa esprime emozione nel processo di godimento del potere e della ricchezza e non c’è alcuna distinzione tra bene e male. Le soap opera hanno bisogno di mantenere un’uguale distanza tra i personaggi cosicché l’emozione possa essere tenuta viva settimana dopo settimana.

Neanche un film come Peepli (Live) (2010) che parla di un contadino ridotto sul lastrico che pensa di uccidersi per ottenere un sussidio dal governo e salvare la sua famiglia dalla rovina per lei si può dire “impegnato” (non va dimenticato che intorno alla storia si crea un polverone mediatico assurdo). Come valuta questo film?

Il film parla della dichiarazione da parte del governo di un compenso per i contadini che si suicidano, e di un contadino che cerca di far sì che suo fratello si suicidi in modo tale che ne possa trarre beneficio. Il film è stato definito una black comedy e fa dell’umorismo sulla classe dei contadini poveri. È come se la comunità dei contadini sia l’altro rispetto alla classe urbana e non possa essere identificata con essa. Il cinema Hindi una volta si identificava con i contadini e i poveri, poiché li interpretavano grosse star – come in Mother India (1956) e Upkaar (1967). Invece qui i contadini sembra che vengano trattati come soggetti da antropologia. La legenda finale è in inglese, cosa che significa che il film è per persone che parlano inglese – una classe distante dalla situazione tratteggiata. Allo stesso tempo Peepli (Live) sta ben lontano dalle questioni politiche ed economiche sottostanti al suicidio dei contadini – come l’indebitamento da microcredito. Il film suggerisce che l’alcool abbia condotto quei contadini a tale stato. Esso inoltre finge che tratti dei media che vanno a caccia di storie eccitanti, ma ritrae le persone collegate ai media più seriamente – almeno alcuni di loro fanno domande sull’etica del loro lavoro – di quanto faccia con i contadini, che sono comici in modo uniforme. Penso che la black comedy abbia bisogno di distribuire il suo scherno in modo uniforme – cosa che il film certamente non fa. Ovviamente, io ho dei problemi con gli atteggiamenti accondiscendenti del film.

Anche il middle cinema partecipa al cambiamento avvenuto nel nuovo millennio. Cosa potrebbe dirci a proposito di Madhur Bhandarkar e dei suoi film?

La carriera di Bhandarkar come regista è costruita intorno alle denunce di varie industrie – la carta stampata in Page 3, l’azienda in Corporate, l’amministrazione comunale e le sue connessioni con i costruttori in Traffic Signal e l’industria della moda in Fashion. Ma lui ha sempre un approccio politicamente discutibile verso il soggetto che tratta. In Page 3, per esempio, giustifica velatamente la liquidazione extra – giudiziaria dei criminali. Ma il problema principale è che mentre usa la denuncia come forma, comincia ad apprezzare e a penetrare nel glamour di ciò che si suppone stia criticando – come in Fashion. Ciò che comincia come una critica sociopolitica finisce col diventare un advertisement o una pubblicità per l’istituzione che sta criticando a causa del quantità di glamour che vi mette.

Anche Bollywood diventa un brand di se stesso con il film Om Shanti Om (2007). Che valenza ha questo film?

Il cinema popolare Hindi in precedenza è stato definito “sentenzioso” per i suoi messaggi morali melodrammatici e d’evasione per il fatto di celebrare la ricchezza e di fornire happy ending, ma entrambi questi fenomeni si riferiscono al fatto di cercare un modo di vivere idealizzato – ideale in senso morale o materiale. Om Shanti Om non è nessuna di queste cose perché funziona come una pubblicità di lunghezza pari a un film per Bollywood come marchio globale. Gli attori del film recitano se stessi come le riviste di gossip li ritraggono. Il film è stato descritto come un simulacro poiché è come una copia per cui non c’è l’originale. Esso si riferisce a Bollywood che diventa un marchio globale con nessun ruolo nella vita sociale indiana. Questo è legittimo ma significherà che Bollywood nel prossimo futuro non avrà niente a che fare con la nazione. Il film è molto divertente e ha avuto grande successo globalmente – anche al di fuori della diaspora.

Ci sono molti altri argomenti che potrebbero essere toccati: il patriottismo, lo sport, l’amicizia, l’istruzione, la piccola illegalità appoggiata dallo Stato per evitarne una più grande. Su quale di questi temi si sentirebbe di concludere l’intervista?

Un aspetto di grande importanza è il fatto che i film Hindi hanno incominciato ad assumere una posizione molto ambivalente a proposito dell’illegalità nel perseguire le proprie aspirazioni. Film come Bunty Aur Babli, Om Shanti Om, Dhoom 2, Guru, Kaminey mostrano azioni illegali ma sorvolano su di esse. E’ stato anche suggerito che questo è il modo di fare globale. Quando la polizia viene mostrata come egoista e corrotta, ciò non è fatto vedere come deplorevole, ma come opportunità per fare impresa. Io attribuisco questo fattore all’indebolimento dello stato a causa di un lassismo nel far rispettare la legge. Ci sono altri film – come i film sullo sport – nei quali lo stato è sminuito e viene lodata l’impresa privata – come se l’impresa privata potesse intervenire dove lo Stato ha fallito! C’è stata un’enorme quantità di corruzione nell’ultimo governo, ma poco è stato fatto per portare il corrotto all’arresto. Molti segmenti, anche quando si rammaricavano di ciò pubblicamente, hanno visto tutto questo come un vantaggio per un avanzamento personale. Il cinema Hindi riecheggia questo sentimento in molti dei film menzionati sopra. Poiché esso è la voce di un vasto segmento del pubblico indiano, si riferisce al pubblico stesso che è stato corrotto dallo stato debole e dalle opportunità materiali che offriva. Come si possa avere un governo pulito con un pubblico corrotto è una questione che suscita molta preoccupazione.

 

Titolo: The Politics of Hindi Cinema in the new Millennium. Bollywood and the Anglophone Indian Nation
Autore: M. K. Raghavendra
Editore: Oxford University Press
Pagine: 265
Prezzo: 37,30 €
Anno di pubblicazione: 2014

 

L’India e le sue religioni raccontate da Bollywood

 

Da Resetdoc.org

Una nuova middle class nata dopo la liberalizzazione come potente fattore di cambiamento di contenuti del cinema hindi mainstream dal 1991 ai giorni nostri. Una classe media che attualmente annovera 250 milioni di persone, un 20 – 25% della popolazione, contro il 5% del 1947, anno dell’indipendenza dell’India dalla Gran Bretagna. Ma l’immaginario filmico, nonostante questi cambiamenti, continua a rimanere lo stesso: “Ciò che esso permette, e sembra continuare a permettere, è la creazione di un nuovo spazio entro cui uomini e donne indiane possono immaginare come possono vivere la loro vita.” Con queste parole, poste alla fine del saggio, si può ben sintetizzare l’idea di fondo del libro di Rachel Dwyer Bollywood’s Cinema. Hindi Cinema as a Guide to Contemporary India. E i film, prodotti culturali che sono essi stessi sogni e fantasie, creano sogni in tutti gli ambiti, sociali, politici e culturali della società indiana. Partendo da questo presupposto la Dwyer tocca molte questioni relative ai rapporti tra società indiana e immaginario filmico, tra cui l’epica, il mito, la religione.

Per molti, anche in India, dire India è un po’ come dire induismo, visto non solo come religione, ma come modo di vita e pratica culturale, sociale e politica, per cui è difficile dire dove finisce la cultura e dove inizia la religione. Nei film hindi post-1991 esso è rappresentato come induismo dell’India settentrionale e di casta alta, per cui alcune pratiche religiose, castali o regionali, vengono standardizzate come pan-hindu. Nel tardo XX secolo si assiste poi alla nascita del fondamentalismo e del nazionalismo religioso, per cui la religione diviene strettamente correlata con la politica con l’ascesa al potere del BJP (Bharatiya Janata Party). In generale, nel cinema, sembrano non esserci comunque tracce di fondamentalismo indù, forse per ragioni di mercato, forse per autocensura, forse per il tradizionale secolarismo delle maestranze che lavorano a Bollywood.

Ma nella società indiana non possono non assumere un ruolo preponderante anche i musulmani, rappresentati a loro volta più come un gruppo politico che religioso. Anche qui, tuttavia, il discorso è articolato. Il comportamento religioso è visto in generale come una norma che unisce le persone in quanto i rituali domestici sono parte della vita quotidiana. In Jodhaa Akbar (La sposa dell’imperatore), del 2008 (regista, Ashutosh Gowariker), l’adorazione di Krishna da parte di Jodhaa, la sposa dell’imperatore Moghul Akbar, islamico e vissuto nel XVI secolo, dimostra la tolleranza di quest’ultimo nei confronti l’induismo, e la coppia regale si comporta come una normale coppia della middle class.

Tuttavia la minoranza musulmana ha più rappresentazioni. Il film devozionale e mitologico hindi sta scomparendo, mentre i due grandi poemi epici indiani, il Mahabharata e il Ramayana, hanno visto negli anni Ottanta solo trasposizioni televisive ma sono rimasti fonte di ispirazione, in film più recenti, nel raccontare le relazioni familiari e politiche. Invece, il cosiddetto Islamicate film (film “islamicizzato”), cioè quello che tratteggia la vita sociale e culturale – più che quella religiosa – dei musulmani indiani, è tuttora vivo. I sottogeneri tipici dei primi anni del cinema indiano – lo stile da Mille e una notte, il film storico, quello devozionale, quello che racconta della vita delle cortigiane, permangono anche dopo gli anni Novanta. Questi, anche se poco numerosi e spesso confinati in circuiti di serie B, comprendono anche film ad alto budget (unico grande film storico sull’Islam in India è però Jodhaa Akbar). Molti elementi hanno cambiato però valenza dopo la liberalizzazione: un esempio è offerto dal velo, oggi il capo d’abbigliamento più associato con l’Islam. Mentre nel passato era usato come elemento romantico, per scambi di persona o per travestimenti, in alcuni film contemporanei, come Kurbaan (Sacrificio), del 2009 (regista, Rensil D’Silva), è utilizzato per descrivere un Islam sinistro, oppressivo. Allo stesso modo oggi barbe e berretti sono un segno di fanatismo, mentre nei film delle epoche precedenti indicavano semplicemente l’essere musulmano.

I film ambientati nella società islamica contemporanea non compaiono nella mainstream, ma nella tradizione dei film realisti, come nella trilogia di Shyam Benegal Mammo (1994), Sardari Begum (1996) e Zubeidaa (2001).

In ogni caso i confini tra comunità religiose, al di là di quanto siano in contatto l’una con l’altra, rimangono netti, e il cinema può solo porre soluzioni emotive al problema. Per fare un esempio, i matrimoni “misti” sono ancora un tabù, a meno che uno dei partner non sia un Cristiano. Ci sono film che condannano le rivolte intercomunali come momenti di follia collettiva, ma non mancano opere di segno opposto. Sempre per ciò che concerne i musulmani nelle ultime due decadi è emerso un nuovo tipo di Islamicate film, che rappresenta i musulmani come terroristi o nemici dello stato, anche se spesso questi sono anche vittime di tale situazione. In quest’ambito l’11 Settembre ha giocato un ruolo chiave. Nel 2009 e nel 2010 tre film ad alto budget hanno sollevato la questione del terrorismo: Kurbaan, New York (2009, regista Kabir Khan) e My Name Is Khan (2010, regista Karan Johar).

Nel primo una giovane hindu sposa un islamico, si trasferisce a New York con lui per insegnare insieme all’università per poi scoprire che questo è un terrorista afghano, che ha perso la sua precedente famiglia a causa della guerra, e che la risparmia in un attacco suicida solo perché è incinta. New York invece denuncia le conseguenze nefaste del clima e degli episodi di ‘brutalità’ nei confronti dei musulmani nell’onda lunga della guerra statunitense al terrore. In questo film una ragazza, sempre hindu, scopre che suo marito islamico appartiene a una cellula dormiente e che tiene una doppia vita dopo essere stato ingiustamente detenuto e torturato in un carcere USA. Infine, nel film più famoso, My Name Is Khan, Rizwan, un giovane musulmano autistico, sposa una hindu, ma il suo figliastro viene brutalmente ucciso da coetanei americani solo perché il patrigno è islamico.

Le location negli Stati Uniti per questi film sono significative, perché raccontano l’islamofobia in un modo differente dal sentimento anti-musulmano in India. È come se nei film mainstream post-1991 i problemi relativi ai musulmani indiani non potessero essere discussi nel contesto indiano senza sollevare sentimenti comunitari e quindi l’azione si debba spostare all’estero. Si solleva così la questione di un sentimento anti-musulmano generalizzato, che mostra l’Islam come una forza globale, spesso associata al fanatismo, che forma una comunità senza patria. Solo in alcuni film hindi mainstream degli ultimi anni si cominciano a vedere i musulmani anche come portatori di valori moderni, non religiosi, che partecipano alla cultura indiana. Per quanto riguarda le religioni minoritarie, il Cristianesimo è percepito come meno estraneo alla società indiana, anche per il retaggio culturale britannico e per l’influenza di Hollywood, e i Sikh compaiono di più delle altre minoranze religiose, forse anche per il fatto che ci sono molti Sikh importanti che lavorano nel cinema.

 

Titolo: Bollywood’s India. Hindi Cinema as a Guide to Contemporary India
Autore: Rachel Dwyer
Editore: Reaction Books
Pagine: 296
Prezzo: 16,41 €
Anno di pubblicazione: 2014

 

India, da Bollywood ai social network, ecco chi racconta (e cambia) il mondo delle caste

 

Da Reset Doc

Non una, ma più globalizzazioni a macchia di leopardo. Il sistema castale indiano messo in forse dalla generazione 2.0, con le conseguenze che questo comporta nei rapporti intergenerazionali e di genere. Di questo e altro si è parlato nel corso di un incontro tenutosi a Firenze il 7 dicembre scorso da Marco Restelli, giornalista e docente di cultura indiana presso l’Università “Statale” di Milano, e da Troy Nachtigall, esperto di social media e professore allo IED di Firenze, nell’ambito del Florence Indian Film Festival, una sei giorni (6 – 12 dicembre) dedicata al cinema indiano. 

La rassegna, prima nel suo genere in Europa, inaugurata nel 2001 e diretta intelligentemente da Selvaggia Velo, oltre a presentare attori del calibro di Irfan Khan, interprete, tra l’altro, del film Vita di Pi e di alcuni episodi della serie americana di In Treatment, ha deditato una specifica sezione alle Online Stories, cioè a tre mediometraggi dove si racconta di persone che agiscono attraverso Internet. Sui temi sollevati da questa sezione Reset-Doc ha intervistato Marco Restelli.

Esistono più globalizzazioni nel mondo oltre a quella USA?

L’Italia è geo-politicamente nella sfera americana e ciò provoca degli strabismi culturali. Proprio per questo il nostro paese tende a pensare che la globalizzazione è un’occidentalizzazione del mondo di tipo statunitense, ma questo è assolutamente falso, nel senso che non esiste un appiattimento su un’unica cultura. Quando parlo di globalizzazione non intendo solo circolazione delle merci e degli uomini, ma anche delle culture, dei costumi, dei comportamenti, quindi di nuove geografie delle relazioni culturali e tra i generi e di nuovi segni nell’inconscio collettivo.

Cosa si intende per globalizzazione indiana?

I segni di riferimento a livello di produzione culturale non sono più di marca unicamente americana, perché per esempio il cinema indiano, genericamente indicato con il termine di Bollywood, nel mondo è più visto di quello statunitense. Nel 2012 nel mondo i film indiani hanno venduto in un anno quattro miliardi di biglietti, mentre il cinema americano sempre nel pianeta in un anno ne ha venduti tre. Hollywood è più ricca solo perché i biglietti nelle aree in cui è visto costano di più. Il cinema indiano è più visto perché è diffuso non solo in India e in buona parte dell’Asia, ma anche in Medio Oriente e in buona parte dell’Africa. I film indiani sono anche visti in una parte degli Stati Uniti e dell’Europa: l’Italia è uno dei pochi paesi al mondo che non li importa, per questo non si rende conto di come essi stiano fortemente influenzando i comportamenti e i costumi di tutto il pianeta, e che siano la punta di diamante della globalizzazione di tipo indiano.

Esiste anche una globalizzazione cinese?

C’è anche una globalizzazione di stampo cinese perché basta andare in paesi come la Birmania o come tutta l’Indocina, ovunque insomma ci sia una comunità cinese all’estero, per rendersi conto di quanto sia significativa l’influenza cinese dal punto di vista del costume e della cultura (quanto poi sia importante la Cina sul piano economico è cosa nota a tutti).

Si può parlare anche di globalizzazioni a macchia di leopardo?

Si può parlare anche di globalizzazioni a macchia di leopardo perché la loro diffusione non è omogenea. L’India è un esempio perfetto, perché ha delle aree altamente sviluppate sul piano economico e culturale, dove le nuove tecnologie sono il pane quotidiano, e ha anche delle aree agricole ad alto tasso di analfabetismo e dove c’è ancora gente che ara i campi con l’aratro di legno. Non va poi dimenticato che il 40% degli indiani vive ai livelli di sussistenza, e che nelle campagne il matrimonio combinato è la norma. La scrittrice indiana Arundhati Roy, autrice del romanzo “Il Dio delle piccole cose”, ha scritto: “L’India è così grande che le sue diverse parti vivono in secoli diversi”.

In questo quadro si innesta la modernizzazione, che agisce da potente fattore di cambiamento per quanto riguarda le caste…

Nella società indiana tradizionale i valori erano determinati dall’appartenenza castale, e le caste sono una struttura gerarchica che va dalla purezza all’impurità. Esse non vanno confuse con le classi sociali perché si può essere di casta bassa ed essere ricchi o di casta alta e poveri. Sotto a tutte ci sono le categorie degli intoccabili considerate tali perché storicamente avevano a che fare con la morte e con tutto ciò che era impuro. La gerarchia castale è stata ben studiata nella sua struttura dall’antropologo Louis Dumont nel suo Homo Hierarchicus; in essa si poteva individuare un sistema con una bassissima mobilità sociale. Ognuno infatti in questa gerarchia aveva un posto ben definito, e siccome questo era in accordo con l’ordine del mondo, non c’era molta ragione di avere mobilità sociale. Viceversa la modernizzazione ha portato quest’ultima nei contesti urbani, e il cinema è stato lo specchio di essa, fatto che ha portato anche alla condanna dell’intoccabilità e, nei contesti urbani più avanzati, all’impraticabilità dell’intoccabilità (come si fa a non toccare un intoccabile in un metrò?) e il cinema è un esempio di tutto questo perché veicola valori di unità nazionale e sociale e quindi contrari all’esclusione sociale.

In questo contesto, dove agisce potentemente il cinema, si inseriscono anche le nuove tecnologie. In che senso queste sono fattori di cambiamento, a livello delle caste?

Il cinema, ma soprattutto i nuovi media, sono specchio e nello stesso tempo motore del cambiamento, in un circolo virtuoso. Il processo di accelerazione della società indiana rispecchiato e a sua volta causato dal cinema subisce una spinta fortissima a causa dei new media, perché questi abbattono gli steccati tra le caste. Se infatti due ragazzi videochattano non ha più molta importanza a che casta appartengano, entrano in un tipo di relazione in cui i genitori non hanno il controllo e non c’è un controllo sociale.

In che modo la generazione 2.0 cambia nei rapporti di genere?

Quanto detto ha una grande rilevanza nelle questioni di genere. Nella prima Online Story proiettata, “Hank and Asha”, si vedono due ragazzi, uno americano che vive a New York, e una ragazza indiana che vive a Praga per seguire un corso di cinematografia, che videochattano. Sempre in videochat prima entrano in amicizia, poi lui vorrebbe incontrarla e entrare in relazione più intima con lei, ma lei invece cede alla costrizione sociale perché baratta con suo padre la possibilità di rimanere un anno in più a studiare a Praga con un matrimonio combinato. In questo caso quindi la relazione che stava sbocciando attraverso i new media ha una conclusione tradizionalista e quindi negativa, ma ci sono casi molto diversi…

Esistono anche gli annunci sui giornali per fare i matrimoni combinati…

La jati (casta) è come una corporazione professionale al cui interno ci si sposa, e al cui interno vengono condivisi riti e costumi, è un piccolo mondo chiuso. Gli annunci sui giornali per i matrimoni combinati rispecchiano questo fatto, esistono da tanto tempo e sono del tipo: “Cercasi giovane di bell’aspetto, di questa casta, di questa regione, di questa lingua”, ecc.. La novità attuale è che le classi urbane medio – alte propongono, non impongono al giovane o alla fanciulla un candidato, che può essere rifiutato. Di tutto questo il cinema indiano è specchio, in quanto si vedono anche i cambiamenti, si osserva anche la tensione tra matrimonio combinato e matrimonio d’amore, con una molto maggiore tensione verso il matrimonio d’amore…

Questo avviene dopo la liberalizzazione o quando si diffondono i social network?

Il matrimonio d’amore è il classico sogno del cinema di Bollywood da prima dei social network, ma tutto questo ha un’accelerazione grazie ad essi perché su questi si può conoscere chi si vuole senza il controllo famigliare.

Questo si interseca con i social network? Cosa succede se la ragazza incontra un ragazzo in rete? Sceglie quello?

Si entra in conflitto, nel senso che quando un giovane conosce un possibile partner sui social network e lo propone alla famiglia, se è liberale dice sì, ma se questo appartiene a una casta, o a una religione, o a un ceppo etnolinguistico sgradito alla famiglia, questa dice no. Allora lì c’è il classico conflitto intergenerazionale per cui c’è chi cede alla famiglia e chi no.

Quando cominciano a comparire nel cinema indiano le storie legate ai social network?

Il conflitto castale all’interno della storia d’amore c’è sempre stato, ma legato ai social media comincia a farsi vedere in modo molto evidente negli ultimi quindici anni.

I social riflettono anche i rapporti tra uomini e donne al di là di quello intercastale?

Sì. In un’altra Online Story proiettata al festival, “Diary of an Overly Reactive Middle Aged Teenager”, si parla di una giovane donna che si comporta come una teenager pur non essendolo più, che ottiene dai genitori il permesso di andare a Mumbai per tre mesi per provare la strada del cinema. All’inizio è tutta entusiasta, posta video pieni di smorfie, di urletti di entusiasmo, dopo però si scontra con la dura realtà, nel senso che fa un video musicale che piace un po’ a tutti tranne che al suo fidanzato. Nel video successivo che lei posta raccontandosi la si vede infatti con una guancia tumefatta, perché il suo ragazzo ha visto il video, l’ha giudicato volgare e l’ha picchiata, cosa che causa la fine della sua storia con lui. Qui si vede appunto la prima contraddizione: i maschi indiani sono disposti a sognare le sexy girl del mondo del cinema, ad ammettere che a qualsiasi donna sia offerta la possibilità di fare film purché non sia la sorella e la fidanzata. La seconda realtà contro cui va a sbattere questa ragazza che decide di farsi forza, nonostante questa delusione, è che a un certo punto le dicono “Sì, piaci molto, e c’è una parte importante per te in un film, ma devi andare a letto con il regista.” Lei pensa seriamente a questa proposta, perché si tratta di una volta sola e non lo saprà nessuno, ma alla fine dice no, perché pensa: “Lo saprò io”. Quindi lascia Mumbai, torna dai suoi genitori, però dopo aver fatto una cosa che ha vinto un premio. Non torna quindi da sconfitta, ma torna arricchita, cambiata, non più una teenager ma una donna.

Anche la Rai trasmette Bollywood Ma è (quasi) assente il grande cinema indiano

 

Da Resetdoc.org


Una programmazione che preferisce la mainstream, che non osa, sia per problemi di budget che di ascolto. Sono questi i principali inconvenienti della messa in onda in terza serata di sette film di Bollywood su Rai Movie dall’11 novembre al 16 dicembre. Già uscite sulle reti Rai, sono pellicole indiane della post globalizzazione, girate tutte dopo gli anni Duemila, e che preferiscono il genere disimpegnato, con una particolare predilezione per il romantico. Mancano del tutto film d’autore che potrebbero far conoscere al pubblico italiano una realtà cinematografica più attenta ai problemi sociali e politici. Non vi sono, tanto per dire, film come quelli della regista bengalese Aparna Sen, da sempre rivolta al mondo femminile soprattutto della middle class ed al modo in cui esso cambia nell’India contemporanea. Mancano anche film come quelli di Govind Nihalani, regista che ha esplorato i problemi degli scontri intercomunitari dell’epoca recente tra hindu e musulmani, nonché il tragico problema della partizione. Altro must che non sarebbe dovuto mancare, i due capitoli di Gangs of Wasseypur, film di Anurag Kashyap del 2012, una mafia story che per epicità potrebbe essere accostata alla saga de Il Padrino e che sarà distribuito anche in America.

Ma quali sono i motivi di questa scelta così riduttiva? “Noi avevamo già fatto due rassegne di Bollywood in prima serata con repliche variamente articolate nel palinsesto”, afferma Alberto Farina, responsabile per Rai Movie di questa rassegna, che Reset-DoC ha intervistato. “Quella che facciamo adesso è una terza serata, che in gran parte ripete le altre due. Il ciclo non è nato da una scelta editoriale di Rai Movie ma dalla valutazione di quanto già presente nel catalogo Rai in seguito a due precedenti rassegne estive. Come canale satellitare invece tendiamo a fare acquisti più legati a un cinema di library degli anni Ottanta – Novanta – inizio anni Duemila, naturalmente per quanto riguarda programmazioni occidentali.”

“Quanto alle scelte fatt – continua Farina – occorre dire che bisogna rispettare determinati obiettivi di ascolto che questi film disimpegnati hanno dimostrato di sostenere. All’interno del nostro ciclo infatti si è riscontrato che i titoli un po’ più d’autore, un po’ meno fatti di balletti, tendevano a essere accettati con molto meno interesse dal pubblico. La rete fa una proposta generalista, non di nicchia e poi non può acquistare film che trasmette durante la notte. Rai Movie può comprare film di prima e seconda serata, ma qui si ferma la sua programmazione. Comunque ciò non significa che non siamo aperti anche ad altre possibilità, come quella, l’anno scorso, di dedicare a tarda notte un cospicuo numero di titoli non doppiati al cinema giapponese degli anni Sessanta e Settanta. In questo caso ci siamo rivolti ad un pubblico di nicchia, ma questo lo si può fare una volta ogni tanto. Inoltre il cinema indiano viene più facilmente riconosciuto dal pubblico, anche quello più attento come quello di Rai Movie, con un cinema più di genere. Sui social network anche i fan continuano a chiederci titoli di questo tipo.”

Una cosa interessante è poi il fatto che ragazzi indiani ma naturalizzati italiani, che non conoscono più la lingua dei loro genitori, apprezzino il fatto che questi film siano doppiati in italiano ma che contemporaneamente appartengano alla loro cultura. Ma tutto questo non basta: “Probabilmente, sostiene Stefano Beggiora, docente di Storia e Letteratura Hindi presso Ca’ Foscari di Venezia, tutti i film che diventano di cassetta in patria, e che quindi dal punto di vista dell’acquisizione dei diritti non comportano una forte spesa, passano anche in Italia. Ciò è un po’ triste, perché anche da noi vi sono esperti che potrebbero consigliare un livello diverso di qualità. Tuttavia circa tre – quattro anni fa in tarda serata è passata su Raitre una rassegna in lingua originale con sottotitoli di film di Satyajit Ray, famoso regista indiano che ha ricevuto anche un Oscar alla carriera, ma tutto ciò va in controtendenza con le scelte attuali. Recentemente su Internet ho trovato una ventina di fan club, anche italiani, di film e star indiane. Ecco, sarebbe bello che questi appassionati vedessero la Rai fare scelte più interessanti rispetto a questi ricicli.”

Ma sempre in questi ricicli non mancano le novità. Fiore all’occhiello dell’attuale programmazione è infatti La sposa dell’imperatore (titolo originale, Jodhaa Akbar).

“Un cosa che forse merita segnalare ai fan, conclude Farina, è l’unico film che proponiamo quasi ex novo, La sposa dell’imperatore, che avevamo trasmesso in un’edizione tagliata: in seguito alle segnalazioni online degli appassionati abbiamo scoperto che esisteva una versione integrale e che di questa avevamo anche i diritti. All’epoca sulla nostra pagina Facebook avevamo promesso che avremmo proposto tale versione e ci siamo riusciti: La sposa dell’imperatore sarà trasmessa su Rai Movie domenica 30 novembre in prima serata.”

La storia prende le mosse dalla vita di un imperatore Mughal che è una figura chiave della storia indiana (Akbar significa infatti “grande”). Conquistatore islamico di stirpe turco-afghana, Akbar, vissuto nel XVI secolo, riuscì a fondere con la conquista dell’India le due culture, quella indù e quella musulmana. Lo fece anche attraverso il matrimonio con Jodhaa, una principessa Rajput figlia cioè di aristocratici guerrieri indù che erano sempre stati la spina nel fianco dei conquistatori. Tale matrimonio, simbolo di tolleranza, fu il punto nodale della sua politica, tanto che nel palazzo reale dove visse con la sposa fece anche costruire un tempio indù.

Nel riprendere questa vicenda la cinematografia indiana batte un sentiero già percorso ma con ben altri risultati. Un precedente illustre e più significativo di Jodhaa Akbar è Mughal-E-Azam, del 1960. Di fronte a un capolavoro come quello, che narra la lotta tra Akbar e suo figlio, il principe Salim, per una storia d’amore tra il giovane e una danzatrice (forse si tratta di una leggenda), l’altro film non appare esente da critiche. Cecilia Cossio, docente a riposo presso Ca’ Foscari, per Jodhaa Akbar ha per esempio parlato di “bellissimo polpettone pseudostorico”, mentre altri hanno notato lungaggini e tempi morti, nonostante quasi tutti elogino lo sfarzo delle scenografie. “La cosa più interessante del film, sostiene Stefano Beggiora, è che le immagini sono state girate nel luogo originale dove la storia è avvenuta, tutto il resto è opinabile. La protagonista, Aishwarya Rai (nella finzione Jodhaa), che è anche una modella ed è anche molto nota al di fuori dell’India, in questo ruolo ha ricevuto parecchie critiche, mentre Hrithik Roshan, che impersona Akbar, è belloccio, ma la personalità dell’imperatore era tutt’altro. Nel film tutto si appiattisce sulla storia d’amore, e ciò appare riduttivo.” Anche in un titolo di punta di Rai Movie si parla quindi di film di genere, spettacolare, ma con dei limiti. Fino a quando dovremo aspettare che la Rai dia alla cinematografia indiana tout court il suo giusto peso?

 

Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv

 

Da reset.it


Una storia della televisione vista da un’ottica sociologica, storica, giuridica. Una costante attenzione alle fonti giornalistiche, oltre che librarie, per delineare tutte le fasi della storia del medium. E, inoltre, una posizione equilibrata nella querelle tra apocalittici e integrati che da sempre, tranne qualche eccezione negli anni Sessanta, ha caratterizzato gli studi teorici sulla tv. Infine un forte rilievo, nella televisione delle origini, attribuito a Ettore Bernabei, direttore generale della Rai dal 1961 al 1974. Sono questi i tratti distintivi del libro di Irene Piazzoni Storie delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv (Carocci 2014).

L’autrice, professore associato di Storia della Radio e della Televisione all’Università “Statale” di Milano, ha strutturato il volume in quattro parti: “Gli esordi e gli esuberanti sviluppi nel segno della Rai” (si parla degli albori della tv), “Apogeo e crisi: la televisione di Bernabei”, “Dalla rivoluzione dell’etere al duopolio”, periodo caratterizzato dalle radio libere e dal consolidamento del monopolio di Berlusconi, e “Verso più fertili e delicati equilibri”, in cui viene preso in esame il periodo da Tangentopoli alla discesa in campo del leader di Forza Italia.

Tra le informazioni presentate nel libro spicca quella del primo tentativo di creazione di televisioni private che, si badi bene, non risale alla metà degli anni Settanta, bensì agli albori della nascita della televisione. Sono gli anni Cinquanta: Milano si sente esclusa dalla leadership romana sulla tv, legata al potere politico. Per questo ecco i primi fautori del servizio privato a Milano: nel 1957 nasce Televisione Libera (TVL), società per azioni che vede il gotha dell’imprenditoria, della finanza e della politica milanese per i capitali e di know how statunitense per quanto riguarda la fornitura degli impianti e di alcuni programmi. Ma questa non è l’unica iniziativa: c’è anche Tempo – TV, di Renato Angiolillo, direttore del quotidiano Il Tempo, che dovrebbe coprire, con il suo segnale, Lazio, Campania e Toscana, mentre a Napoli Achille Lauro pensa a una tv per il Sud. Tutto questo sulla base di precedenti europei, come quello che autorizza, nel 1955, la nascita nel Regno Unito della tv commerciale ITV (Independent Television). Ma dopo varie vicende e prima che possano cominciare le trasmissioni la storia si conclude con una sentenza della Corte Costituzionale del 1960 che riafferma il monopolio della Rai.

A differenza di altre opere che si occupano di comunicazioni di massa, che citano soprattutto testi, dalle note a margine di Storia delle televisioni in Italia risulta un notevole utilizzo, come fonti, di quotidiani e di riviste specializzate, prime tra tutte Problemi dell’informazione e Prima comunicazione. “Un lavoro gravoso, alle cui spalle ci sono circa dieci anni di ricerca, afferma Irene Piazzoni. Per esempio il periodo della formazione delle tv private negli anni Settanta per la mancanza di archivi e documenti aperti si ricostruisce molto bene con il materiale a stampa, anche se questa è una fonte che va maneggiata bene.”

Il climate of opinion degli studi mass mediologici afferenti alle varie epoche non è stato, sempre per la Piazzoni, sufficientemente equilibrato, in quanto caratterizzato soprattutto da tendenze apocalittiche, specie per il periodo berlusconiano, in cui molti hanno gridato al golpe mediatico, in primis da sinistra.

“Il mondo della cultura italiana si pone su posizioni piuttosto arretrate per ragioni complesse, sostiene Irene Piazzoni. Negli anni Cinquanta – Sessanta lo era a maggior ragione: gli uomini di cultura si sentivano appartenenti a un’élite. Il sentirsi tali è avvenuto senza che gli intellettuali avessero strumenti adeguati per avvicinarsi al tema della comunicazione. C’è un momento felice negli anni Sessanta, con Umberto Eco, Tullio De Muro, la rivista Pirelli, le edizioni di Comunità, legate agli olivettiani, periodo in cui si lavora su vari piani, sociologico, semiotico, linguistico. Ci sono poi i contributi della Scuola delle Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano e gli studi di Francesco Alberoni con un approccio diverso dal mainstream, ma senza dubbio proficuo. Ma, se ci si pensa bene, non a caso questo momento è anche un periodo di grande slancio economico per il paese: proprio in quel momento gli intellettuali della cultura laica, cattolica, marxista si interrogano sul significato di cultura popolare, cultura per tutti, in un’ottica di mediazione che cerca di venire incontro a un pubblico medio.” “La mia sensazione, prosegue Piazzoni, è che negli anni successivi questa limpidezza si sia un po’ perduta per vari fattori: innanzitutto l’alta temperatura ideologica che caratterizza il dibattito culturale dal Sessantotto in poi, poi la crisi economica degli anni Settanta e quella della società in generale. In questi anni si ritorna a una polarizzazione tra cultura alta e bassa, in un ritorno al cinema d’essai o a qualcosa di profilo molto basso, mentre negli anni Sessanta c’era la commedia all’italiana, c’era il bestseller medio per tutti. E penso che gli anni Ottanta – Novanta non siano usciti da quest’ottica.”

“Per quanto riguarda Berlusconi, sostiene Irene Piazzoni, le norme antitrust sono il segno distintivo di una democrazia e in questo senso la nostra classe politica non si è dimostrata all’altezza del compito. Per ciò che concerne le teorie sul berlusconismo e quindi sul golpe mediatico, sul partito tv, che si concentra su un unico mezzo, la tv appunto, l’attenzione va posta invece su elementi più importanti. Nella attuale comunicazione politica addirittura si è ritornati al comizio, conta la famiglia. Il problema in tutte le campagne elettorali non è lo strumento, ma sono gli argomenti e le linee scelte. È la sostanza della proposta politica che dal 1994 ha vinto grazie a vari fattori: la fine della DC, il vuoto politico che si è creato al centro, la formazione di un aggregato sociale e ideologico che faceva riferimento a Berlusconi. Le tv semmai hanno rassicurato questo tipo di elettorato, non convinto, perché già lo era.”

Infine, nel libro grande rilievo, nella storia della tv degli anni Sessanta e primi anni Settanta è dato a Bernabei. Questo va in controtendenza con opinioni come quella di Massimo Scaglioni che assegna invece un ruolo fondativo a Filiberto Guala, amministratore delegato della Rai dal 1954 al 1956. “Guala gestisce la Rai per soli due anni, afferma Piazzoni, ed oltre a ciò Bernabei è più raffinato e più abile di lui nel portare a compimento il progetto della sinistra DC di una tv come agenzia culturale e di entertainment, capendo che tutto passava attraverso la qualità dei programmi. Si capisce ancor meglio la sua figura esaminando la sua dirigenza, dal 1956, a Il Tempo, prima dell’incarico in Rai. Questo giornale della DC, piuttosto bacchettone, grazie a Bernabei e ad altri suoi collaboratori che poi entreranno in Rai diventa interessante, riflette una grande apertura di orizzonti, guarda moltissimo anche al cattolicesimo francese di carattere molto più aperto rispetto al nostro ed è molto attento ai mass media nell’ottica di una cultura per tutti. Quella di Bernabei è una figura su cui è pesata l’ombra del lottizzatore, ma non va dimenticato che è stato guardato con attenzione da tutti, dai socialisti e anche dai comunisti. Poi Bernabei è importante per il momento in cui assume la direzione della Rai. È il periodo del centro sinistra, siamo in pieno boom economico. Una battuta d’arresto – Bernabei ha “portato avanti l’asticella” ma a un certo punto c’è un limite – si registra quando ci sono mutamenti politici, nel 1964, quando il centro sinistra ripiega perché si rumoreggia di colpi di stato, c’è il Presidente della Repubblica Segni che trama, l’opinione pubblica moderata conservatrice del paese guarda con sospetto alle trasformazioni, per non parlare della destra pura. La seconda fase del suo mandato è più problematica, più controversa, ma perché si muove in un contesto diverso dai primi anni Sessanta. Fanfani stesso, che è il suo referente, si attesterà su posizioni molto più moderate e si avvicinerà ai dorotei.”

 

Titolo: Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv
Autore: Irene Piazzoni
Editore: Carocci
Pagine: 320
Prezzo: 19 €
Anno di pubblicazione: 2014

India, its women and cinema. Interview with film director Aparna Sen

 

Da Reset Doc

Constant attention to the world of women, to Indian social situations and policies that are only now slowly changing; violence, rape, or threats made against women, only nowadays at times reported with all the risks and dangers this involves, are words the Bengali director Aparna Sen, born in 1945, has always used with the special attention she has always paid to social issues and especially the feminine universe.

 

How have femal characters changed in your film production? Is there a difference between your first works and the actual situation, when women seem to have acquired deeper autonomy?

In my first film 36 Chowringhee Lane, which was made in 1981, the protagonist Miss Violet Stoneham could as easily have been a Mr. Stoneham – an elderly Anglo-Indian gentleman instead of an elderly spinster. I chose to make her a female school teacher only because I had personal experience of studying in an all-girl’s school and knew how such schools functioned. This film is less about gender than about loneliness. Miss Stoneham’s loneliness is compounded because she belongs to a minority community. However, having said that, I must also add that the stoicism with which Miss Stoneham accepts her lot at the end of the film is, to me, a very feminine strength. I imagine that an elderly gentleman in such a situation would have broken down instead of finding solace in Shakespeare the way Miss Stoneham did.

My second film Paroma was much more about gender, an account of how a woman discovers her identity. By the time I made “Yugant” (What the Sea Said, 1995), I had progressed to making the woman less a victim who has to fight for her rights and more a woman of the world who was slowly being corrupted by success. In a later film 15 Park Avenue, Anu – the much older half sister of the psychotic Meethi – is a professor who is also the primary care-giver of her schizophrenic sister. Anu typifies the modern urban Indian woman who is burdened with work and familial responsibilities. As a result she is stressed, filled with guilt and anxiety, prone to losing her temper, and is both aggressive and gentle in turns.

“36, Chowringhee Lane” deals with an old Anglo-Indian unmarried woman whose dull life is suddenly overturned by a young Indian couple. They take advantage of her using her house as their meeting place and, once married, they abandon the woman to her previous and monotonous life. What is the image of Anglo-Indian middle class which, after India has gained independence, has lost many of its social privileges?

One of the questions that I had asked myself while making this film was – what is the real tragedy of the Anglo Indian in post-independence India? The answer that had presented itself to me was: the departure of the British. For this reason I had introduced a scene between Violet Stoneham and her brother Eddie at the old-age home where Eddie resided. He suffers from dementia and believes that King George is still the ruler in the British Raj of colonised India. His sister gently explains the real situation to him saying, “There is no King anymore Eddie dear. The Raj is over. India has been independent now for over 30 years.” This film was, of course, made over 30 years ago! When it was made in 1981, the Anglo Indians were looked down upon by the local population. The irony is that the British treated the Anglo Indians as second class citizens because they were not of pure British blood, while the Indians looked down upon them for being sycophants of the British and for thinking of England as “home.” The Bengali middle class did not mind their children marrying into British families, but found the idea of marrying into Anglo Indian families quite abhorrent. In 36 Chowringhee Lane, Miss Stoneham’s niece Rosemary has a “cultured” Bengali boy-friend who ditches her because she is Anglo Indian.

The situation is somewhat different now. Most of the next generation of Anglo Indians have migrated to either Australia or Canada or New Zealand, just like Rosemary did in the film. Those that did not go away, have gradually been absorbed into the mainstream and are no longer marginalized. Being of Anglo Indian descent is no longer an issue in present-day India.

In “Paroma” (1985) a beautiful middle-class Indian woman, who has lost her youth, has a relationship with a photographer. After her husband discovers her affair she tries to commit suicide, then she acquires a new conscience. What was the woman you described in the 1980s like?

There were many different kinds of women that co-existed in the 80-s. There were women like Paroma who were financially dependent on their husbands and whose lives were defined by their familial roles of mother, wife, daughter-in-law, sister-in-law or aunt-in-law. If anything happened to jeopardize her primary relationship with her husband, all her other relationships were jeopardized in turn. Yet there were others like Paroma’s friend Sheila, far fewer in number, who lived life on their own terms.

The character of Paroma was inspired by a real-life person, a girl who had studied in school with me. She had been an excellent student, academically brilliant, a keen sports person, a good actress who always took part in the school plays and was what is known as an all-rounder. She did very well at college and stood first in the university when she completed her masters in history. Then she was given away in marriage as was the custom in the conservative Bengali family that she came from. She had a reasonably happy married life and became the mother of two lovely children. I met her again at her son’s first birthday party, which was a big affair. We had all been invited, her classmates from school and college. She greeted us warmly and we lapsed into giggles as we talked of our pranks during lessons at school. Then an elderly relative from her husband’s side of the family arrived, with daughter-in-law in tow. Our friend greeted the elderly woman respectfully, touching her feet in customary greeting. She was then introduced to the daughter-in-law who, in turn, touched her feet. Our friend touched the younger girl’s chin in a gesture of blessing and affection. When they left, she turned back to us and became once again our classmate, laughing and joking with us. This left me wondering as to who she really was under the various social and familial roles she was constantly playing out. Yet some of her other friends, I among them, were financially independent and pursuing careers of their choice. I think she and I were the bases of the characters Paroma and Sheila in the film.

“Paromitar ek din” (House of Memories, 2000) shows a special relation between a mother-in-law with her former daughter-in-law, who is the divorced wife of her son. Is the friendships relating the two women more important than the familiar bondage? How can this be considered a novelty in  the cultural Indian scene?

I would not call it a novelty, but it is not very common either. At least, it was not very common in 2000 when Paromitar Ek Din was made. It was expected by the family that a mother would remain loyal to her son and therefore go against her divorced daughter-in-law, particularly if the girl were to remarry. But I have noticed that a kind of sisterhood often grows between women who live in close proximity despite differences in age, a sisterhood that endures despite changing situations in life. I know of many instances where mother and daughter-in-law have bonded and continued to remain in touch even after the daughter-in-law has been divorced from the son. However, this is rare in situations where the daughter-in-law has married again, because it is often difficult for a mother-in-law to accept the new husband who has taken the place of her son. The daughter-in-law would also probably have a new set of in-laws in such a circumstance, or even a new set of children, and it would be difficult for an ex mother-in-law from a conventional family to interact with them. It would also go against the traditional belief that a woman may marry only once in her life.

In “Mr. and Mrs. Iyer” (2002) a young hindu woman with a child travelling on a coach pretends to be the wife of a muslim photographer and, by doing so, she saves his life when a group of fanatical Hindu try to lynch him. Again, at the end of the story everything goes back to normal as the young woman cannot find the courage to establish a relationship with her newly met companion. From this point of view, what is the role of the woman confronted with intercommunal fights?

I can’t say that there is any specifically assigned role. A woman from an orthodox Hindu family like Meenakshi’s would probably stay away from the Muslim man and concentrate on just saving herself and her baby. But, in our story, Meenakshi’s humanity comes to the fore. She cannot sit by silently and watch her Muslim co-passenger, who had been so helpful to her during the journey, be butchered by the Hindu extremists. This strength of character is what makes her worthy of being the protagonist of a film. One must also remember that she is still very young and very green – only twenty-two years of age – and she has probably not seen any violence before this. All her conditioning since childhood about cast and community urges her to revile the man that she has just discovered to be a Muslim. But her innate goodness as a human being wins over this conditioning and makes her save him. I think it is very difficult to say what the role of a woman would or should be in such a situation. It would depend totally on her and what she feels her priorities are. There is no hard and fast rule as such.

What about your latest film “Goynar baksho” (the Jewellery Box, 2013) in which three generations of women are connected by a jewellery box?

Goynar Baksho is a story told as a comedy in a light-hearted fashion; but, underneath that light-heartedness, is actually the story of woman’s deprivation in a male dominated society. It is also the story of the changing social status of women, which is seen vis-à-vis their changing attitude towards a box of jewelry that is passed down from one generation to the next.

In Goynar Baksho, the first generation woman is Rasmoni, a child widow who had been deprived in every way all her life. Ever since she became a widow at twelve, she was not allowed to eat meat or fish; she was not allowed to wear anything except the traditional widow’s garment of a borderless white sari; she was not allowed sex or the company of any man aside from those of her father and brothers. All she had was her box of jewellery that she had received as her dowry, none of which she was allowed to wear, and she guarded this box with her life. It was her only wealth and her only strength. She was intelligent enough to realize that without her box of jewellery she was financially helpless and could be thrown out of her brothers’ home at will. But nothing had succeeded in vanquishing Rasmoni’s spirit and her will to live, and she reigned supreme in her brothers’ household.

The second generation is Somlata, the nervous and stuttering young bride from a poor home who has been given in marriage to Rasmoni’s nephew. But, under her apparent frailty, Somlata has a core of steel. Rasmoni obviously recognizes this because, even though she bullies the young bride mercilessly, it is to her that Rasmoni’s ghost entrusts the precious box after she dies. She threatens the young girl with dire consequences if she breathes a word about this to her relatives who are waiting to get their hands on her box. Somlata hides the box, but dips into it to pawn some of the jewellery in order to raise capital to start a sari shop and thereby save her husband’s family from financial ruin. She also has the good sense to name the shop after Rasmoni, thus allaying the older woman’s initial anger at having her precious jewellery pawned. Rasmoni’s ghost starts living vicariously through Somlata and enjoys the exprerience of being an enterpreneur. Somlata, for her part, functions very much within the patriarchial system, but negotiates a space for herself all the same by being gentle and understated, rather than aggressive.

The third generation is Somlata’s daughter Chaitali who is the darling of the family. She is modern, educated and self-willed, and enjoys the freedom that her great aunt Rasmoni never did. She is not interested in jewellery and returns the box to her mother who had given it to her on her eighteenth birthday. Finally, Chaitali gives away the jewellery for a cause – to help the impoverished freedom fighters during Bangladesh’s war of freedom.

Thus, it is through the woman’s changing attitude to jewellery and wealth that Goynar Baksho examines her social evolution and also celebrates her unbreakable spirit.

Episodes of rape and assault are dramatically increasing in today’s India; is that true or is it simply that women are more ready to denounce?

Rape was always there – rape of poor subjects by rich landlords; rape of lower caste women by upper caste men; rape of local women by British Indigo planters; rape within the family where uncles would rape nieces and fathers in-law would rape daughters-in-law; marital rape. All of this was rampant. It was always the weak raped by the strong, the helpless raped by the powerful; and it was always the victim who was blamed and cast out by society. Rape within the family was always hushed up. Sometimes, if a woman became pregnant as a result of rape, she would be forced to go to a quack to have the fetus aborted, and often die in the process. Sometimes, if the pregnancy was quite advanced, the woman would even be poisoned in order to hush up the scandal. Women never came forward to denounce their rapists because they knew it would be useless and it would be they who would be held responsible anyway. Often they would not speak up for fear of breaking up the family. Today, the situation has changed radically. There are strong laws in workplaces where sexual abuse is taken very seriously and strong action is taken against the perpetrators. Women are much more ready to come forward and denounce their rapists today; in rare cases a woman may even take advantage of the laws that are tilted in her favour and denounce a man wrongfully.

One of the reasons that rape continues in spite of strong anti-rape laws is because justice is not sure and swift. Rich men used to get away because of their powerful connections, but since the “Nirbhaya” rape case in Delhi last December, all that has changed. Fast track courts have been put in place to ensure swift and sure justice. Just a few weeks ago, the editor of a newspaper, a powerful and well-connected man, was charged with sexual abuse and arrested. In spite of all these measures, rape is reported somewhere or the other in India every single day! The police often do not accept FIR-s (first instance reporting), the attitude and mindset of the police being very much in accordance with the old patriarchal values where a woman is considered chattel. The tendency to blame the victim is still there in some measure, but there is a process of change underway.

Some months ago a young girl was raped and then burnt alive because she had dared to denounce her assailants…

This sort of thing is often done by thugs who have political backing and feel that they can get away with doing whatever they want. It is the same mindset as that of the rich landlords who felt they could have any woman they fancied, except that it is now the politically strong rather than landlords. There is a tendency to threaten the victim and her family not to open their mouths to denounce the rapist. If they don’t listen, stronger measures are taken such as killing or burning the victim or her family members. Men like this cannot come to terms with the emergence of the new, financially independent woman and want to punish her by humiliating her. They feel that they have the right to have any woman they want; and if the woman objects or fights back, she has to be punished. This sort of thing is rarely done by a sole rapist; it is usually perpetrated by a gang who feel safe because of their numbers and their political backing.

L’India, le sue donne e il cinema. Parla la regista Aparna Sen

 

Da Reset Doc

Un’attenzione sempre costante verso il mondo femminile, verso situazioni sociali e politiche indiane che solo oggi stanno lentamente cambiando. La violenza, lo stupro, o le minacce contro le donne ancora presenti, solo che oggi – qualche volta – si ha il coraggio di denunciare, anche se con tutti i rischi e pericoli che questo comporta. Sono queste le parole con cui si esprime Aparna Sen, regista bengalese, classe 1945, che ha sempre avuto un occhio privilegiato verso il sociale e soprattutto verso il mondo femminile.

 

Com’è cambiata la figura della donna nella sua produzione cinematografica? C’è una differenza tra le sue prime opere e la situazione attuale, dove le donne sembrano avere acquisito una maggiore autonomia?

Nel mio primo film, 36 Chowringhee Lane, che fu girato nel 1981, la protagonista Miss Violet Stoneham avrebbe potuto benissimo essere Mr. Stoneham, un anziano signore anglo–indiano, invece che un’anziana zitella. Ho scelto di rappresentare un’insegnante avanti con l’età solo perché personalmente avevo studiato in una scuola femminile e sapevo come funzionavano scuole come queste. Questo film tratta più di solitudine che di questioni di genere. La solitudine di Miss Stoneham è aggravata perché la signora appartiene ad una minoranza. Tuttavia, detto questo, devo anche aggiungere che lo stoicismo con cui Miss Stoneham accetta la sua sorte alla fine del film è, per me, una forza veramente femminile. Penso che un anziano in una situazione simile sarebbe crollato invece che trovare conforto in Shakespeare come ha fatto Miss Stoneham.

Il mio secondo film, Paroma, trattava molto più questioni di genere, ed era una descrizione di come una donna scopre la sua identità. Dal periodo in cui ho fatto “Yugant” (What the Sea Said, 1995), sono andata avanti, rendendo la donna meno una vittima che deve lottare per i suoi diritti e più una donna di mondo che lentamente veniva corrotta dal successo. In un film successivo, 15 Park Avenue, Anu – la sorellastra molto più anziana della psicotica Meethi – è un professore che è anche la persona che più si prende cura di sua sorella schizofrenica. Anu è la tipica donna indiana moderna che vive in città e che è oberata sia dal lavoro che dalle responsabilità familiari. Di conseguenza è stressata, piena di ansia e di sensi di colpa, pronta a perdere le staffe, ed è sia aggressiva che gentile a seconda dei momenti.

“36, Chowringhee Lane” parla di un’anziana signora anglo-indiana la cui vita vuota all’improvviso è messa in subbuglio da una giovane coppia indiana. I ragazzi si approfittano di lei usando la sua casa come luogo di incontri e, una volta sposati, l’abbandonano alla sua precedente, monotona vita. Qual è l’immagine che lei tratteggia della middle class anglo-indiana che, dopo che la nazione ha raggiuto la sua indipendenza, ha perso la maggior parte dei suoi privilegi?

Una delle domande che mi sono posta facendo questo film è: “qual è la reale tragedia degli anglo-indiani nell’India dopo l’indipendenza?” La risposta che mi si è presentata spontaneamente è: “la partenza dei britannici”. Per questa ragione ho introdotto una scena tra Violet Stoneham e suo fratello Eddie al ricovero per anziani dove risiede Eddie. L’uomo soffre di demenza e crede che Re George sia ancora il re della dominazione Britannica dell’India colonizzata. Sua sorella gentilmente gli spiega la reale situazione dicendo: “Non c’è più nessun Re George, Eddie caro. La dominazione britannica non esiste più. L’India è indipendente da oltre trent’anni.” Questo film è stato, naturalmente, girato oltre trent’anni fa! Al momento della sua realizzazione gli anglo-indiani erano disprezzati dalla popolazione locale. L’ironia è che i britannici li trattavano come cittadini di seconda classe perché non avevano puro sangue inglese, mentre gli indiani li guardavano male per il fatto che erano servili verso gli inglesi e per il fatto che sentivano l’Inghilterra come la loro “casa”. La middle class bengalese non aveva nulla in contrario al fatto che i propri figli si sposassero con dei britannici, ma reputavano assolutamente disgustosa l’idea di un matrimonio con degli anglo-indiani. In 36 Chowringhee Lane la nipote di Miss Stoneham, Rosemary, ha un boyfriend bengalese “acculturato” che la lascia perché lei è anglo-indiana.

In qualche modo la situazione ora è cambiata. La maggior parte della nuova generazione di anglo-indiani è emigrata o in Australia, o in Canada o in Nuova Zelanda, proprio come ha fatto Rosemary nel film. Quelli che non sono andati via sono stati gradualmente “assorbiti” entro la mainstream e non sono più emarginati. Essere discendenti da anglo-indiani non è più un problema nell’India di oggi.

In “Paroma” (1985) una donna indiana della middle class, ormai non più giovanissima, ha una relazione con un fotografo. Dopo che il marito scopre la tresca la donna tenta il suicidio, poi però acquisisce una nuova consapevolezza di sé. Ci può parlare di questo? Com’era la donna che lei ha descritto negli anni Ottanta?

C’erano molti tipi diversi di donne che coesistevano negli anni Ottanta. C’erano persone come Paroma, finanziariamente dipendenti dal marito e le cui vite erano definite dai loro ruoli familiari di madre, moglie, nuora, cognata. Se succedeva qualcosa a minacciare la loro relazione primaria con il marito, tutte le altre erano messe in pericolo a sua volta. Tuttavia c’erano altre persone, come l’amica di Paroma, Sheila, certamente di gran lunga meno numerose, che vivevano la loro vita autonomamente e come volevano.

Il personaggio di Paroma è ispirato a una persona reale, una ragazza che è stata mia compagna di scuola. Era un’eccellente studentessa, accademicamente brillante, un’appassionata di sport, una brava attrice che prendeva sempre parte alle recite della scuola e che era per così dire una persona a tutto tondo. Andava molto bene al college ed era prima all’università, dove ha completato un master in storia. Poi fu “data in matrimonio” com’era in uso nella tradizionalista famiglia bengalese da cui proveniva. Ebbe una vita matrimoniale ragionevolmente felice e diventò madre di due deliziosi bambini. L’ho incontrata di nuovo in occasione della prima festa di compleanno del suo figlio più grande, cosa che fu un grande evento. Lei aveva invitato tutti i suoi compagni di scuola e del college. Ci ha salutato con grande affetto e siamo scoppiati a ridere parlando degli scherzi durante le lezioni a scuola. Poi arrivò una parente anziana della famiglia di suo marito con la nuora al seguito. La nostra amica salutò l’anziana signora rispettosamente, toccandole i piedi in un saluto tradizionale. Poi fu presentata alla cognata che, a sua volta, le toccò i piedi. La nostra amica toccò il mento della ragazza in un gesto di saluto e affetto. Quando se ne andarono, ritornò da noi e diventò di nuovo la nostra compagna di classe, che rideva e scherzava con noi. Questo fatto mi ha lasciato perplessa su chi lei fosse realmente tra i vari ruoli sociali e familiari che costantemente assumeva. Tuttavia alcuni dei suoi amici, io fra questi, erano finanziariamente indipendenti e portavano avanti delle carriere scelte proprio da loro. Penso che lei ed io fossimo le basi dei personaggi di Paroma e di Sheila nel film.

“Paromitar ek din” (House of Memories, 2000) delinea un rapporto speciale tra una suocera e la ex nuora, che è la moglie divorziata del figlio. L’amicizia che lega le due donne è più importante del legame familiare? Come può questo fattore essere considerato una novità nella scena culturale indiana?

Non la chiamerei una novità, ma comunque non si tratta neppure di un fenomeno molto comune. Almeno, non lo era nel 2000 quando fu girato il film. Ci si aspettava dalla famiglia che una madre rimanesse leale verso suo figlio e perciò mettersi contro la nuora divorziata, particolarmente se si era risposata. Ma ho notato che spesso nasce una specie di fratellanza tra donne a stretto contatto nonostante differenze di età, fratellanza che dura nonostante i cambiamenti che avvengono nella vita. Conosco molti esempi in cui suocera e nuora hanno stabilito dei forti legami e hanno continuato a rimanere in contatto anche dopo che la nuora ha divorziato dal figlio. Tuttavia questo è raro in situazioni nelle quali la nuora si risposa, perché spesso è difficile per una suocera accettare il nuovo marito che ha preso il posto del figlio. In casi come questi la giovane donna probabilmente avrà un nuovo insieme di legami acquisiti, o anche nuovi figli, e sarebbe difficile per una ex suocera proveniente da una famiglia convenzionale interagire con quelli. Una simile fratellanza andrebbe anche contro l’opinione tradizionale per cui una donna può sposarsi solo una volta nella vita.

In “Mr. and Mrs. Iyer” (2002) una giovane donna hindu che viaggia con un bambino a bordo di un autobus finge di essere la moglie di un fotografo musulmano e così facendo gli salva la vita quando un gruppo di fanatici hindu assalta il mezzo e fa giustizia dei musulmani che vi sono a bordo. Di nuovo, alla fine della storia tutto torna alla normalità, in quanto la donna non trova il coraggio di iniziare una relazione con il suo compagno di viaggio e torna dal marito. Da questo punto di vista, qual è il ruolo della donna in relazione agli scontri intercomunali?

Non posso dire che c’è un ruolo specifico. Una donna proveniente da una famiglia hindu ortodossa come quella di Meenakshi forse starebbe lontana dal giovane musulmano e si concentrerebbe solo sulla sua salvezza e di quella di suo figlio. Ma nella nostra storia emerge l’umanità di Meenakshi. Non può stare seduta silenziosa accanto al compagno di viaggio musulmano e vedere quello, che era stato così servizievole con lei durante il viaggio, massacrato dagli estremisti hindu. La sua forza di carattere è ciò che la rende degna di essere la protagonista di un film. Non va dimenticato che è ancora molto giovane e molto inesperta – ha solo ventidue anni – e probabilmente non ha visto nessuna violenza prima di questa. Tutti i suoi condizionamenti dall’infanzia relativi alle caste e alla collettività la spingono a insultare l’uomo che ha appena scoperto essere un musulmano. Ma la sua innata bontà come essere umano vince su questo condizionamento e fa in modo che lo salvi. Ritengo che è molto difficile dire quale dovrebbe o non dovrebbe essere il ruolo di una donna in una situazione simile. Dovrebbe dipendere totalmente da lei e da cosa sente che siano le sue priorità. Non c’è regola così categorica come questa.

Ci potrebbe dire qualcosa a proposito del suo film più recente, “Goynar Baksho” (the Jewellery Box, 2013), in cui tre generazioni di donne sono collegate da un cofanetto di gioielli?

Goynar Baksho è una storia raccontata come una commedia in modo spensierato; ma, al di sotto della spensieratezza, è effettivamente la storia della discriminazione di una donna in una società dominata dagli uomini. E’ anche la storia del cambiamento dello status sociale delle donne, che è visto davanti al loro cambiamento di atteggiamento verso un cofanetto di gioielli che è passato da una generazione a quella successiva.

In Goynar Baksho la donna della prima generazione è Rasmoni, una vedova bambina privata di tutto nella vita. Da quando divenne vedova a dodici anni, non le fu permesso di mangiare carne o pesce; le fu vietato di vestire qualunque indumento tranne quello tradizionalmente destinato alle vedove, un sari bianco senza bordo; non le fu permesso il sesso o la compagnia di ogni altro uomo al di fuori del padre e dei fratelli. Tutto ciò che aveva era il cofanetto di gioielli che aveva ricevuto come dote, gioielli che non poteva indossare, e lei custodiva questo cofanetto a prezzo della vita. Era la sua unica ricchezza e la sua unica forza. Era abbastanza intelligente da rendersi conto che senza di questo era finanziariamente senza aiuto e poteva essere buttata fuori dalla casa dei fratelli a loro piacimento. Ma niente aveva successo nel vincere la forza d’animo di Rasmoni e la sua voglia di vivere, e lei regnava incontrastata nella famiglia dei suoi fratelli.

La seconda generazione è rappresentata da Somlata, la moglie giovane, nervosa e balbuziente proveniente da una famiglia povera che è stata data in sposa al nipote di Rasmoni. Ma, sotto la sua apparente fragilità, Somlata ha un cuore d’acciaio. Rasmoni ovviamente riconosce questo perché, anche se tiranneggia la giovane sposa senza pietà, è a lei che l’anima di Rasmoni affida il prezioso cofanetto dopo la morte. Lei minaccia la ragazza di tremende ritorsioni se riguardo a ciò dirà una parola ai suoi parenti che aspettano di mettere le mani sul cofanetto. Somlata lo nasconde, ma vi attinge per dare in pegno alcuni gioielli per procurarsi del denaro al fine di aprire un negozio di sari e salvare così la famiglia del marito dalla rovina finanziaria. Ha anche il buon senso di chiamarlo con il nome di Rasmoni, placando la rabbia iniziale della vecchia donna per aver impegnato i suoi preziosi gioielli. L’anima di Rasmoni comincia a vivere in maniera vicaria attraverso Somlata e prova l’esperienza di essere una entepreneur. Somlata, da parte sua, funziona molto bene entro la famiglia patriarcale, ma negozia lo stesso uno spazio per se stessa essendo gentile e discreta piuttosto che aggressiva.

La terza generazione è costituita da Chaitali, la figlia di Somlata, che è la cocca della famiglia. E’ moderna, istruita e ostinata, e si gode la libertà che sua prozia Rasmoni non ha mai avuto. Non è interessata ai gioielli e restituisce il cofanetto alla madre che glielo aveva dato in occasione del suo diciottesimo compleanno. Infine Chaitali dà via i gioielli per una causa – aiutare i combattenti per la libertà impoveritisi durante la guerra di liberazione del Bangladesh.

Così è attraverso i mutamenti di atteggiamento della donna verso i gioielli e la ricchezza che Goynar Baksho esamina la sua evoluzione sociale e ne celebra lo spirito indomabile.

Attualmente in India si registra un numero crescente di episodi di violenza: quanto affermato è vero oppure è dovuto al fatto che oggi le donne sono più inclini a sporgere denuncia?

La violenza carnale c’è sempre stata: violenza verso le donne povere soggette ai ricchi proprietari terrieri; violenza verso le donne di casta bassa da parte di uomini di casta superiore; violenza verso le native da parte dei colonizzatori britannici; violenza entro la famiglia dove gli zii violentavano le nipoti e i suoceri le nuore; violenza da parte dei mariti. Tutto ciò dilagava. Era sempre la donna debole stuprata dal forte, l’indifesa violentata dal potente; ed era sempre la vittima ad essere biasimata e bandita dalla società. La violenza carnale entro la famiglia era sempre tenuta nascosta. Qualche volta, se una donna rimaneva incinta per uno stupro, veniva forzata ad andare da una mammana per abortire, e spesso moriva. Altre volte, se la gravidanza era in stato avanzato, veniva persino avvelenata per coprire lo scandalo. La donne non si facevano mai avanti per denunciare i loro violentatori perché sapevano che sarebbe stato inutile e sarebbe stato in ogni caso come se loro fossero le responsabili. Spesso non parlavano per paura di sfasciare la famiglia. Oggi la situazione è cambiata radicalmente. Ci sono delle leggi severe sui luoghi di lavoro dove l’abuso sessuale è preso molto sul serio e si prendono misure molto dure contro chi lo commette.

Attualmente le donne sono molto più pronte a venire allo scoperto e a denunciare i loro assalitori; in rari casi una donna può perfino approfittarsi delle leggi che sono dalla sua parte e denunciare un uomo ingiustamente.

Una delle ragioni per cui lo stupro continua nonostante leggi severe contro questo reato è perché la giustizia non è sicura e rapida. Gli uomini ricchi riuscivano a sfuggire in virtù delle loro connessioni politiche, ma dal caso di stupro di “Nirbhaya” avvenuto a Dehli il dicembre scorso, tutto questo è cambiato. Sono stati istituiti dei rapidi iter giudiziari per assicurare una giustizia veloce e sicura. Proprio alcune settimane fa il direttore di un giornale, un uomo potente e con forti agganci è stato accusato di abuso sessuale e arrestato. Nonostante tutte queste misure la violenza sessuale si registra in qualche luogo in India ogni singolo giorno! La polizia spesso non accetta il cosiddetto FIR-s (first instance reporting), l’atteggiamento e la mentalità che tiene concordano molto con i vecchi valori patriarcali dove una donna è considerata un bene di proprietà. La tendenza a biasimare la vittima è ancora presente in qualche misura, ma c’è un processo di cambiamento sotterraneo.

Cosa ne pensa della ragazza recentemente violentata e poi bruciata viva perché aveva osato denunciare i suoi assalitori?

Questa sorta di cose è fatta da delinquenti che hanno appoggi politici e che pensano che possono farla franca facendo ciò che vogliono. E’ lo stesso atteggiamento dei ricchi proprietari terrieri che ritenevano di poter avere qualunque donna che desideravano, tranne per il fatto che ora può farlo il politico potente anziché il proprietario terriero. C’è una tendenza a minacciare la vittima e la sua famiglia per non fargli denunciare il violentatore. Se questa non dà ascolto, sono prese misure più forti come uccidere o bruciare viva lei o i membri della sua famiglia. Uomini come questi non possono venire a patti con l’emergere di una donna nuova, finanziariamente indipendente e vogliono punirla o umiliarla. Sentono di avere il diritto di possedere qualunque donna vogliono; e se la donna fa obiezione o reagisce, deve essere punita. Questa sorta di fenomeno raramente viene messo in atto da un unico stupratore; di solito è perpetrato da una gang che si sente sicura a causa del numero e delle sue aderenze politiche.

Tempo di fiction. Il racconto televisivo in divenire

 

Da Resetdoc.org



Una quality television americana diversa da quella italiana, che si basa sulle miniserie. Una quality television nostrana che può anche valere come good television, e tutto questo in opposizione al panorama statunitense. E poi nuovi scenari nel fictionscape dovuti all’ingresso del narrowcasting e della crossmedialità. Tutto questo e altro in Tempo di fiction. Il racconto televisivo in divenire (Liguori 2013), a cura di Milly Buonanno, miscellanea che raccoglie gli atti del terzo incontro del “Fiction Day della Sapienza” tenutosi a Roma nel 2011.

“Si è soliti chiamare quality television, afferma Milly Buonanno, solo un certo tipo di tv americana che è soprattutto quella delle reti via cavo, molto glamour, stilisticamente sofisticata, esteticamente elevata, con seguito di fan.” Questa tv ha finito sostanzialmente per coincidere con un genere, come per es un poliziesco o un teen – drama. Ma dire qualitytelevision implicitamente comporta anche che si parli di good television, e questo è un giudizio di valore.

Tuttavia nel panorama italiano, anche se non ci sono i canoni tipici di questo genere televisivo statunitense, si può parlare lo stesso di quality television. È il caso delle miniserie che, spesso bollate come antiquate, con un atteggiamento da cultural cringe, portano anch’esse dei valori, sociali, culturali, eccetera. Una serie come la meglio gioventù, di Marco Tullio Giordana, su quarant’anni di storia socio – politica italiana è quality television, ma anche good television, tant’è vero che è stata inclusa dal “New York Times” nella lista dei migliori film distribuiti negli USA nel 2005. Quindi, niente “TV di papà”, come direbbe dispregiativamente Truffaut, mutatis mutandis, parlando di una certa fiction italiana. “Noi nella serialità non siamo forti, prosegue la Buonanno, ma detto questo non è perché non siamo ancora forti nella serialità non abbiamo buona televisione.”

Fiction italiana, dunque. E proprio nell’analisi del fictionscape italiano si differenzia la scuola romana da altre, soprattutto milanesi, che studiano le serie made in USA, con un certo trasporto verso il transatlantic romance, come scrive sempre la Buonanno nel suo saggio, riprendendo le parole di Charlotte Brundson.

E, oltre al contributo citato, che verrà pubblicato in inglese in forma ampliata, spicca il saggio di Silvia Leonzi. Dexter o Don Matteo? E su quali piattaforme? Nella seconda fiction, italiana, rassicurante, un prete “poliziotto” si serve della tonaca quasi come una “coperta di Linus” per arrivare dove altri non arrivano, nella prima un ematologo della polizia di Miami di giorno di notte si trasforma in un serial killer per uccidere devianti. Oltre alla diversa concezione delle due fiction compensative (Dexter un noir, Don Matteo un giallo, Dexter cosmopolita, Don Matteo provinciale), si pone il problema dei canali su cui vanno in onda. Don Matteo è sulle reti generaliste, Dexter prevalentemente su Sky. Sembra quindi che nel primo caso ci si voglia rivolgere a uno spettatore non adulto, da tener fuori “dalla seduzione del male, nascondendo una concezione ancora pericolosamente incline alla concezione dei powerful media.” (Leonzi)

E la diversità, declinata in tutte le sue forme nella fiction di un quindicennio, dal 1996/97 al 2009/2010 viene affrontata in una cursoria analisi quantitativa da Fabio Corsini. La diversità, compresa la devianza, definita come forma generica di disagio sociale, è vista come “problema sociale” che necessita di strategie culturali in grado di integrarla. E se a spiccare sono soprattutto gli elementi di contorno al diverso (genitori, operatori sociali, istituzioni, ecc.), e nella fiction italiana c’è solo qualche timido accenno al diverso come tale.

Ma Tempo di fiction nella seconda parte, stimolante e che si avvicina però più a un work in progress che a certezze definite, affronta i problemi relativi alla cultura convergente (Jenkins). Siamo in un momento di transmedialità ma soprattutto di crossmedialità. Si parla di transmediale in un contributo di Giovanni Ciofalo. Un (raro) prodotto italiano come Romanzo Criminale è transmediale, nel senso che ha al centro di tutto la storia, e attraversa vari media: è un fatto reale poi diventato romanzo, poi film, serie tv. In casi come questi il fruitore, messo al primo posto, sulla base dell’incrocio tra pratiche culturali e tecnologiche, genera “un’esperienza unificata e coordinata, che gli garantisce un’inedita capacità di scelta, azione e interazione. Il punto di partenza non è più uno specifico mezzo (device driven), ma una storia (story driven).” (Ciofalo)

In questo periodo le forme di interazione e di incrocio tra i media generano anche nuove forme di serie tv, nonché nuove forme di fandom. Nel primo caso, si può parlare, in un momento di fiction in crisi, di fiction della crisi. È il caso delle webserie, meno costose delle tv serie tradizionali, come scrive Sergio Brancato. Infatti alcune serie tv partono direttamente sul web, come Kubrick. Una storia porno, del 2012, ideata e diretta da Ludovico Bessegato, nella quale giovani cineasti di belle speranze ma squattrinati sono costretti a girare una serie porno per finanziare un loro prodotto di qualità. In lavori come questi cambia anche il concetto di audience: quantitativamente meno esteso, ma qualitativamente più raggiungibile, come dimostrano i dati Audiweb, molto più affidabili delle misurazioni tradizionali.

E cambia anche il concetto di fandom: come scrive Romana Andò, mentre prima della rete i fan compensavano l’isolamento del mezzo attraverso raduni, visioni pubbliche, ecc., ora, tramite i social network, si registra una pervasività di questi nella vita di tutti i giorni e l’uso di schermi addizionali al tradizionale tv set. Ma la fruizione differenziata attuale isola le audience a livello spaziale (rispetto a una comunità con un segnale tv comune) e temporale (il tempo dell’utente è diverso da quello del broadcaster a quello degli altri utenti per via della visione differita della serie tv attraverso varie piattaforme).

 

Partizione, minoranze, pluralismo nel cinema indiano dall’indipendenza a oggi

 

Da Resetdoc.org


Cecilia Cossio parla con Maria Grazia Falà

Partizione come follia collettiva di musulmani, hindu e sikh, che sconvolge una convivenza secolare relativamente pacifica. È il momento in cui, nel 1947, il movimento di liberazione dalla Gran Bretagna si conclude con la divisione dell’ex colonia in due nazioni: l’India, a prevalenza hindu, e i due Pakistan, tendenzialmente islamici. Tutto questo ha causato esodi biblici, con circa dodici milioni tra hindu e musulmani che si spostarono da una parte all’altra dei due paesi, a seconda della fede di provenienza, per evitare massacri e persecuzioni. Gli scontri tra le comunità che esplosero al momento della partizione, non prima, furono violentissimi, ma il cinema indiano, popolare e “impegnato”, per molti anni ha mantenuto rispetto a questo dramma un atteggiamento “neutrale”.

Un rigurgito anti-musulmano nella società civile indiana si ha soprattutto negli anni Novanta, con l’ascesa al potere del partito conservatore BJP, il referente politico dell’induismo militante. E proprio a partire dagli anni Novanta nel cinema mainstream è emerso diffusamente un sentimento anti-musulmano mascherato.

È questo, in sintesi, il quadro delineato da Cecilia Cossio, docente a riposo di lingua e letteratura hindi, che ha scritto, su cinema e partizione, i saggi All’inferno e ritorno, del 1999, Dharmputr e la partizione dell’India del 2002 (trad. inglese in Heidi R.M. Pauwels (ed.) Indian Literature and Popolar Cinema: Recasting Classics, Routledge, 2007), La ferita della fede: individuo e comunità in Dharmputr e Zakhm, del 2004, nonché, raccontando le vicende di Rahi Masum Raza, indiano musulmano, famoso scrittore e dialoghista cinematografico, il libro Il talismano che rapisce i sensi, e-book di prossima pubblicazione. Parlando di odi religiosi, spiega Cecilia Cossio negli ultimi due saggi del libro, sono sintomatici due film hindi, Dharmputr (Figlio per fede), del 1961, diretto da Yash Chopra, e Zakhm (La ferita), uscito nel 1998 per la regia di Mahes Bhatt, nei quali due hindu scoprono di avere origini musulmane. Entrambe le storie sono ambientate durante momenti di grave tensione tra le due comunità: in Dharmputr nel periodo della partizione, in Zakhm negli anni Novanta, quando avvenne, nel 1992, la demolizione della moschea di Babur, ad Ayodhya, ad opera di fanatici hindu. In tutti e due i casi ancora si parla della composita, tollerante, “vera” India, retorica destinata a cambiare nella cinematografia indiana dagli anni Novanta in poi. Ma, per vedere come il problema della partizione e degli odi religiosi è stato affrontato nel cinema indiano, occorre operare delle distinzioni su cosa si intende con questo termine.

Cominciamo dal termine più diffuso quando si parla di cinema indiano: come si può definire Bollywood?

Per Bollywood si intende quel cinema popolare hindi che si sviluppa intorno agli anni Ottanta – Novanta del Novecento. Prima si parlava genericamente di cinema popolare, cinema hindi, sempre, come per Bollywood, caratterizzato dall’inserimento nella trama di canti e danze. Dagli anni Sessanta tale cinematografia ha cominciato ad essere definita anche cinema masala (“spezie”), impostasi con Amitabh Bachchan, ancora famosissimo, con un’audience prettamente indiana, ma con esportazioni in Medio Oriente, nel Sud Est asiatico o nelle zone di emigrazione. Allora c’era solo il cinema “impegnato” o puramente di evasione.

Quando nasce il cosiddetto nuovo cinema o cinema parallelo?

Occorre aspettare la fine degli anni Sessanta per poter avere il cosiddetto cinema parallelo. A basso budget, con temi in prevalenza sociali, è spesso aiutato finanziariamente dalla Film Finance Corporation, istituzione governativa del 1960, e viene influenzato anche dai film stranieri, conosciuti attraverso i festival. Dopo un periodo di splendore negli anni ’70 – ‘80, con la liberalizzazione degli anni ‘90 si è praticamente rifuso con il mainstream, per cui finalmente si può riparlare solo di “cinema”.

La partizione ha aperto vecchie ferite oppure è un fenomeno che affonda le proprie radici solo nella storia contemporanea?

La partizione non è l’esito di un odio antico, secolare tra hindu e musulmani, ma con le caratteristiche attuali si sviluppa proprio con la lotta per l’indipendenza. Inoltre questa non è un risultato del separatismo musulmano. Certamente c’è stato anche questo problema, ma nella creazione dei due stati le leadership della Lega musulmana e del Congresso hanno avuto le stesse responsabilità. Questa divisione sanguinosa ha lasciato una frattura tra le comunità che non è mai stata del tutto rimarginata.

Come viene affrontato nella filmografia indiana tale tema?

Il cinema si pone in maniera relativamente “oggettiva” di fronte a questo problema, anche perché è un’impresa collettiva, in senso comunitario, e ci sono musulmani, hindu, cristiani e sikh che vi lavorano. Nel periodo immediatamente successivo i film che trattano la partizione sono pochissimi. Tra questi, due del 1949, dove le protagoniste sono le donne, violate in tutti i sensi, uccise dagli stupratori o dagli stessi familiari.

L’argomento è stato trattato continuativamente nel tempo?

Occorre aspettare il 1960 per avere altre due pellicole, ma è nel 1973 che esce Garm hava (Vento caldo) di M. S. Sathyu, film della corrente del cinema parallelo che affronta non tanto la partizione quanto la difficile situazione dei musulmani rimasti in India. Infine, anche la televisione affronta il problema: nel 1987 manda in onda sulla tv di stato, Doordarshan, la serie Tamas (Il buio), di Govind Nihalani. Qui la partizione è vista attraverso la storia di un intoccabile costretto a fuggire con la moglie incinta. Il tema è ormai sdoganato, e negli anni Novanta diventa il soggetto di parecchi film in genere di cineasti “paralleli”. È importante rilevare che tutte queste opere non sono “di parte”, ma ritraggono la follia e la bestialità di questi scontri, come nelle opere letterarie che trattano un tema simile. Tutto questo avviene proprio negli anni ’80, quando si ha l’ascesa dell’induismo militante.

Quando arriva l’epoca dei grandi scontri intercomunitari…

In questo clima di intolleranza ci sono episodi come la distruzione, nel 1992, della moschea di Babur ad Ayodhya, a cui seguirono scontri sanguinosi in varie località, tra cui Bombay. Va poi ricordato, nel 2002, il pogrom anti – musulmano di Godhra, cittadina del Gujarat, in seguito all’incendio di un vagone di pellegrini hindu di ritorno da Ayodhya (il processo ha dimostrato che i musulmani non erano responsabili del fatto).

Come muta, in questo clima, l’atteggiamento dei cineasti?

Le cose, cinematograficamente parlando, cambiano verso la fine degli anni Novanta, soprattutto nel filone mainstream. Il mondo indiano rappresentato di questo periodo è quello hindu. È del 1997 Border, di J. P. Dutta, dove si narra un episodio dello scontro armato indo – pakistano del 1971. E vi saranno altri film, sempre del mainstream, dove si evidenziano sentimenti anti-pakistani e, di conseguenza, anti-musulmani.

Come sono viste infine le minoranze di tipo religioso – comunitario?

Nel mainstream si fa sempre professione di tolleranza religiosa e sociale. Per esempio in Amar Akbar Anthony (id.), del 1977, diretto da Manmohar Desai, tre fratelli, separati da bambini e allevati uno da un prete cattolico, uno da un poliziotto hindu e uno da un sarto musulmano, alla fine si riuniscono felicemente. Ma questo non avviene nel cinema più realista, dove si parla anche dell’emarginazione di strati sociali più deboli. È il caso dei dalit (“oppressi, schiacciati”), che sono gli ex – intoccabili.

 

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