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La filmografia asiatica oltre Bollywood raccontata da Italo Spinelli

 

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Una location diversa, al Teatro Argentina per la serata inaugurale, al Teatro India per il resto, con la programmazione di oltre quarantacinque film. Una edizione che vede solo tre opere indiane ma, in compenso, mostra le altre cinematografie, qualitativamente altrettanto valide, del subcontinente. E, quest’anno, un focus particolare sulla Mongolia. Infine, la serata finale, il due ottobre, ispirata alla giornata mondiale della non violenza e dedicata a Gandhi, con un’ospite d’eccezione, Tara Gandhi, la nipote del Mahatma. Sono questi i tratti salienti della 17^ edizione di Asiatica Film Mediale, che si è tenuta a Roma dal 17 settembre al due ottobre, sempre curata dal regista Italo Spinelli, grande esperto di cinematografie asiatiche.

Nella rassegna che, come anticipato, quest’anno si rivolge come nazione privilegiata alla Mongolia, è quasi del tutto assente la cinematografia indiana, tranne che per il documentario Nabarun di Q (2015), per il film The Head Hunter, di Nilanjan Datta (2015), nonché per una breve clip di due minuti, Buddhas Within, di Satish Gupta (2012), che illustra la monumentale scultura di Buddha realizzata da Gupta stesso, artista e scultore. Nabarun parla dello scrittore bengalese Nabarun Bhattacharya, andando dal documentario alla fiction: dello stesso regista Asiatica Film Mediale ha presentato anni fa Gandu, un film che rappresenta la new wave del cinema bengalese, in particolare di Calcutta.

The Head Hunter racconta invece di un gruppo che deve intervenire in una foresta e che all’interno di questa scopre un uomo che ancora appartiene alla tribù dei tagliatori di teste e che tra l’altro ha un dialetto poco comprensibile ai bengalesi se non per via di un personaggio che è in grado di decifrarlo, e che parla anche quella lingua. In seguito tale aborigeno viene convinto a visitare la città, e si muove attraverso essa con difficoltà e con grandi scoperte per poi, al momento di ritornare nella sua foresta, scoprire che quella natura che ha lasciato si è trasformata. “Si tratta di un film originale, molto ben recitato, ha detto Italo Spinelli a ResetDoc, con una persona che appartiene veramente alla tribù dei Wancho, ed è un film che il pubblico ha apprezzato.” Ma l’Asia non è soltanto India, e copre tantissime realtà diverse. “Il continente asiatico, ha proseguito Spinelli, è molto vasto, quest’anno abbiamo avuto una tenuta di 16 giorni, con film dalla Turchia fino al Giappone, alla Mongolia, al Kazakistan, al Kyrgyzstan, alla Cina, e a tanti altri paesi, quindi non possiamo tutti gli anni privilegiare una cinematografia piuttosto che un’altra. Molto probabilmente l’anno prossimo saremo più presenti con la cinematografia indiana. Inoltre, la nostra rassegna non è particolarmente interessata al colosso Bollywood.”

Al contrario, in questa edizione del festival ci sono film e documentari provenienti da zone limitrofe, come il Bangladesh, il Pakistan e il Nepal. Tutto questo può sembrare strano, soprattutto se si pensa che l’India almeno a livello quantitativo è senz’altro superiore ad esse. “Una delle vocazioni di Asiatica Film Mediale, ha detto sempre Spinelli, è quella non solo di favorire la conoscenza di nuovi talenti, ma anche di presentare delle cinematografie che altrimenti rimarrebbero, almeno per quanto riguarda l’Italia, sostanzialmente invisibili. Inoltre, se a livello quantitativo e anche qualitativo l’India è molto valida, vi sono altre cinematografie del subcontinente indiano che qualitativamente lo sono lo stesso. Dal Pakistan per esempio abbiamo avuto sorprese con il film Manto, di Sarmad Sultan Khoosat (2015), che nulla ha da invidiare al cinema dell’alta produzione indiana di Mumbai.” Questo film racconta della vita di Saadat Hassan Manto, uno scrittore molto controverso, che ha parlato di prostituzione, di alcolismo e che, per anni rivendicato all’India, pur essendo nato in Pakistan, ora viene “restituito” a questa nazione con un film che nulla ha da invidiare alla cinematografia indiana dal punto di vista tecnico, della recitazione e della spettacolarità, con una forte impronta sociale e politica, nel senso che lo scrittore Manto ha subito degli arresti, delle denunce per ciò che scriveva, ed è stato addirittura sottoposto a un trattamento psichiatrico.

Queste cinematografie del subcontinente indiano al di fuori dell’India sono fortemente impegnate da un punto di vista sociale e politico: per esempio ci sono documentari relativi alla condizione femminile come il pakistano è A Girl in the River: the Price of Forgiveness, di Sharmeen Obaid (2015), un documentario che ha vinto l’Oscar nella sua categoria, che è un atto di denuncia rispetto alla pratica del delitto d’onore. Il tema della condizione femminile è molto trattato anche in Nepal. Interessante è poi il film del Bangladesh Under Construction di Rubaiyat Hossain (2015), che è la storia di una giovane borghese che sta recitando Tagore e che, attraverso la sua cameriera, una giovane che la segue dappertutto, essendo lei borghese e ricca, scopre la realtà di una condizione economica molto più difficile e problematica. Invece, il Nepal dei corti che abbiamo presentato è un Nepal post terremoto, fondato sulle sue conseguenze.

L’ultima giornata del festival è dedicata al Mahatma Gandhi, in occasione dell’anniversario della sua nascita. Tutto questo però non va in controtendenza con la scelta di sottorappresentare cinematograficamente l’India. “Quanto alla serata conclusiva della rassegna, ha concluso Spinelli, non mi sembra che ci sia nessuna contraddizione con il fatto che vi siano solo due film indiani. Infatti appunto in questa giornata la nipote del Mahatma, Tara Gandhi, ha tenuto un discorso relativamente al valore della non violenza, e tutto ciò in occasione della giornata mondiale della non violenza e nella ricorrenza della nascita di Gandhi.” Infine, anche un italiano ha omaggiato Gandhi: si tratta di Massimiliano Troiani, regista e fotografo che, con il suo documentario Le ceneri di Gandhi (2001), proiettato la serata finale, ha illustrato la vita del grande statista attraverso spezzoni e filmati inediti nonché con testimonianze come quelle di Gino Strada e di Mario Luzi.

India, centri commerciali e soap opera. Realtà o finzione?

 

Da Reset Dialogues on Civilizations

Pubblicità per la classe media, pubblicità che sembra la stessa di quella di un paese occidentale, qualche volta con gli stessi prodotti reclamizzati. Centri commerciali simili a quelli europei, a più piani e puliti, che contrastano con l’esterno. Canali televisivi che mandano in onda circa ventiquattro soap opera e che trattano problemi sociali e politici nei talk show e con le star di Bollywood. Enormi disparità tra classi sociali, con una diffusa povertà e, in molti casi, carenza di infrastrutture, come la mancanza di autostrade. Largo consenso per Modi, che, secondo molti, “è una brava persona e lavora bene”. Infine, Delhi come “salotto buono” dell’India, dove vivono i politici e dove si fanno le grandi parate d’occasione, a cui è invitato ogni anno un grande del mondo.

Queste le prime impressioni di chi scrive a termine di un viaggio durato venti giorni in Gujarat, in Rajasthan, a Mumbai, capitale commerciale dell’India, e dove una persona su dieci è un mendicante, a Kolkata e a Delhi.

Dopo un’unica TV di stato, Doordarshan, a partire dalla liberalizzazione si è assistito a un proliferare di canali televisivi privati come Zee TV, Star Plus, Sony TV, ecc. La pubblicità si rivolge in ogni caso alla classe media: per esempio, se in Italia Federica Pellegrini era la testimonial dello shampoo antiforfora Head & shoulders, qui un ragazzo mostra i capelli puliti dopo una passata dello stesso shampoo. Allo stesso modo, ecco marchi come Dove, Pond’s e Nestlè. Non mancano neanche le televendite, con i presentatori con un tono enfatico come da noi. Naturalmente però, in India tutto è “localizzato” con donne che vestono il sari e che vivono in una famiglia felice, dove sono loro che fanno i lavori di casa.

Anche i centri commerciali stridono con l’esterno: ne sono stati visitati tre, due in un centro di medie dimensioni, Ahmedabad, nel Gujarat, e uno, grande, a Delhi. Quello che salta subito agli occhi è che sono puliti, a differenza dello sporco endemico all’esterno, dove convivono tranquillamente con le persone vacche, asini, capre, pecore e cammelli. E sono WP_20160821_17_36_52_Promolto simili ai loro omologhi occidentali: uno, ad Ahmedabad, di medie dimensioni, era quasi uguale ad uno di una media città di provincia italiana. A più piani, con negozi di articoli sportivi come Nike e Adidas, ma con negozi di scarpe e abbigliamento decisamente inferiori ai nostri. A Delhi, invece, si vendevano anche i Rolex. Nella zona sud orientale di Delhi, dove abitano i VIP, e dove tutte le ville hanno il custode e l’autista (il cui salario mensile è di circa 200 euro), in un’area dove c’erano molti negozi a guardia di due gioiellerie si trovava una guardia giurata con il fucile.

Ma quello che salta agli occhi sono le enormi differenze sociali, e la TV che si rivolge molto, forse troppo, alla classe media. Piacciono molto alle donne le soap, pesantemente interrotte dalla pubblicità. Una di queste, che è stata una pietra miliare in questo genere, Kyunki saas bhi kabhi bahu thi (“Perché una suocera una volta era una nuora”), e andata in onda dal 3 luglio 2000 al 6 novembre 2008, ha avuto anche un risvolto da “conflitto di civiltà”. Diffusa anche in Afghanistan e doppiata nella lingua locale, il pashto, ha interrotto le sue programmazioni a causa degli estremisti islamici (i talebani) che non accettavano in un paese musulmano un’opera che veicolasse valori hindu. Akkash Bharadwaj, uno degli attori della soap, attore ed entertainer di vari canali TV nonché attore di film, ha detto che intorno al 2004 è stata reintrodotta a furor di popolo nel Paese per le proteste della gente.

Ma di cosa parlano le soap e le serie TV e, soprattutto, in che modo considerano le donne? “Tutte le nostre serie TV e soap ruotano intorno ai personaggi femminili, ha detto a ResetDoc Akkash Bharadwaj, lei è come la divinità principale, la principale protagonista, sia che si parli di vita familiare, che di vita professionale, ecc. E i nostri TV shows (una specie di contenitore tipo Domenica In) trattano temi globali, non solo indiani, e non solo correlati alle donne.”

In TV si parla anche di problemi politici e sociali, sempre secondo la testimonianza di Bharadwaj. Alla domanda se sul piccolo schermo trattano temi scottanti come i problemi castali o i dalit (i fuoricasta), l’attore ha risposto: “Naturalmente, ci sono star molto famose di Bollywood come Aamir Khan che è andato su Staples TV, parlando di molti argomenti come quelli legati alla dote, ai dalit, spiegando quali sono e quale può essere la soluzione, e il pubblico ha partecipato alla discussione. Vi sono poi programmi dedicati alle news, su vari canali TV, ai quali intervengono esperti del governo o della polizia e che spiegano come si possono combattere tali problemi.”

Nonostante queste disparità e nonostante la mancanza di welfare state (solo chi lavora nello Stato ha diritto alla pensione, le altre sono tutte pagate privatamente dal cittadino) in India Narendra Modi, Primo Ministro (BJP, DSC_0822 (1)partito di estrema destra hindu) dal 2014, e in precedenza Primo Ministro dello Stato del Gujarat, sembra avere largo consenso anche tra le classi medio – basse. “Sta dando lavoro, promuove gli investimenti esteri”: sono queste le parole sentite più spesso dalle guide e dalla gente comune. Tutto ciò nonostante le enormi disparità: per fare un unico esempio, una città di circa 100mila abitanti come Bhuj, capoluogo del distretto del Kutch, nello Stato federato del Gujarat, distrutta da un terremoto nel 2001, non ha quasi mai marciapiedi, ed è fortemente inquinata dal traffico e dalla sporcizia, nonostante sia stata ricostruita. E poi, gente che dorme per strada dappertutto, mendicanti, donne che a Kolkata si devono rivolgere alle strutture di Madre Teresa di Calcutta per poter avere cure mediche.

Solo gli intellettuali sembrano accorgersi dell’atteggiamento liberticida di Modi, che ha scandalizzato tanta parte dell’intelligentsia indiana. Una politica comunicativa accurata, la sua: tappezzano le città e gli autobus enormi manifesti con la sua faccia che invitano ad avere un atteggiamento tollerante verso le donne, o che cercano di convincere gli indiani a far saltar fuori l’economia sommersa. Modi è anche molto sensibile all’informazione digitale: è il Primo Ministro dell’India ad avere una propria App (“Narendra Modi Mobile App”), in inglese, dove si possono leggere tutti i suoi programmi e le sue attività.  Molti hanno lamentato però che siano stati cambiati i contenuti di alcuni libri di testo così come era successo da noi durante il fascismo. Ma un attore di medio livello come Aakkash Bharadwaj, che ha lavorato in circa 40 programmi televisivi (TV shows, soap opera, serie TV) tra canali pubblici e privati, è entusiasta di questa scelta. “Molti degli avvenimenti storici indiani, ha affermato, sono stati adattati dai colonizzatori che hanno governato il Paese per secoli. Prima i Moghul, poi i britannici, poi i francesi e i portoghesi con le colonie rispettivamente di Pondicherry e di Goa hanno “creato” la storia secondo il loro tornaconto. Quando Modi è andato al potere ha corretto tutte queste parti, e tutti i raja, maharaja e perfino Gandhi sono stati visti nella loro vera luce. Quindi, Modi non ha cambiato i libri di testo, ma li ha semplicemente corretti. Cosa direste voi francesi o italiani se doveste studiare che Hitler era un eroe?”

Infine, Delhi “salotto buono” dell’India. Qui, a differenza di Mumbai, che ha potuto svilupparsi solo in altezza perché è sul mare e quindi manca di spazio con i suoi venti milioni di abitanti, ci sono viali alberati, marciapiedi nella zona nuova, ampie strade. Un’autostrada collega Agra a Delhi, e numerose città – satellite crescono intorno perché qui la città si può estendere anche orizzontalmente. Unica pecca, il traffico, da delirio durante le ore di punta. A Delhi vi sono i palazzi del Governo, i ministeri, le ville dei deputati, quartieri molto esclusivi, paragonabili alla zona dell’EUR a Roma. Qui, come a Mumbai, le grandi firme occidentali della moda. E mentre Kolkata ha molti edifici coloniali perché è stata fondata dai britannici (prima era un villaggio) ed è stata la capitale dell’India fino al 1911, dopo il testimone è passato a Delhi, dove il Governo indiano, con la sua pulizia, i suoi viali alberati e i suoi parchi, deve far colpo sull’Occidente (la vecchia Delhi però mantiene però tutte le caratteristiche di una tipica città indiana).

Tra illusione e realtà, un film racconta l’integrazione indiana

amar-akbar-anthony- Un testo filmico sfaccettato, a più mani. E anche l’interpretazione dei personaggi sfaccettata, a più mani, cosicché non c’è una sola verità. Ancora, l’illusione di un’India che verrà ma che in realtà non esiste, dove hindu, musulmani e cristiani potranno convivere pacificamente. Infine, un’opera dove reali sono i personaggi, ma dove il contesto è irreale, come se la realtà dovesse essere indorata, quasi data a dosi omeopatiche. Queste, in sintesi, le conclusioni a cui arrivano i tre coautori, W. Elison, C. L. Novetzke e A. Rotman di Amar, Akbar, Anthony. Bollywood, Brotherhood, and the Nation.

ResetDoc parla di questo libro con M. K. Raghavendra, che al film ha dedicato un capitolo del suo 50 Indian Film Classics (Noida, India, HarperCollins, 2009).
Ma prima occorre esporre la trama, ricca e complessa, piena di digressioni, di Amar, Akbar, Anthony (regia, Manmohan Desai, 1977). Un uomo, Kishanlal, va in prigione per salvare il suo padrone, Robert, che aveva investito una persona, con la promessa che la sua famiglia avrebbe ricevuto il doppio del suo salario durante la sua assenza. Ma Robert non fa niente di tutto questo e, quando Kishanlal esce di galera, trova i tre figli affamati e la moglie tubercolotica. Adirato, va da Robert e questo lo umilia. Fuori di sé, prende una macchina di Robert dove è nascosta una cassa d’oro, torna a casa e trova un biglietto dove Bharati, la moglie, gli comunica di volersi suicidare per non essere un peso per la famiglia. Allora parte con i bambini per ritrovarla. Inseguito dagli scagnozzi di Robert, lascia i tre figlioletti in una piazza sotto la statua di Gandhi e scappa via. Dopo una rocambolesca fuga, dove la macchina prende fuoco, ritorna ma non ritroverà più i bambini. Uno, il più piccolo, sarà adottato da un musulmano, Haider Ali, prendendo il nome di Akbar, il più grande dall’ispettore di polizia Khanna (si chiamerà Amar) e il mezzano da un prete cristiano, che gli darà il nome di Anthony. Intanto Bharati, salvata proprio da Haider Ali, perde la vista e apprende che tutta la sua famiglia è morta. Tutta la vicenda ruoterà sul ricongiungimento, ventidue anni dopo, dei tre fratelli che finalmente potranno abbracciare i loro genitori biologici (a quel punto Bharati riacquisterà la vista). E, alla fine, una bella girata in macchina concluderà la storia, con i tre fratelli e le loro fidanzate, naturalmente una islamica, una hindu e una cristiana.

ReseDoc ha deciso di parlare con M. K. Raghavendra perché c’è una fitta rete di rimandi, di interpretazioni – contrastanti e no – tra il testo preso in esame e il suo.
Elison, Novetzke e Rotman vedono i quattro personaggi principali del film, Amar, Akbar, Anthony e Bharati, in modi diversi, in modo tale che non c’è solo una verità. Così, nel capitolo dedicato ad Amar, lui è considerato il personaggio principale, e così avviene per gli altri tre. “Non conosco il libro, dichiara Raghavendra, ma da quanto detto deduco che la storia di ciascun personaggio è vista come una rappresentazione soggettiva. Ciascuno ha la sua verità. Ma non posso accettare questo, poiché il cinema indiano non ha niente di corrispondente a un punto di vista. È come se tutto fosse visto da un occhio onnisciente. Secondo me il cinema indiano non può avere un Rashomon che insiste sulla soggettività dello spettatore – perché l’occhio della macchina da presa in India vede ogni cosa. Non ci sono verità parziali a Bollywood. C’è una sola verità.”

Sempre secondo gli autori, Amar viene visto come una sorta di hindu protestante secondo la famosa formula di Max Weber. Infatti, egli dona il sangue alla madre, ferita in un incidente stradale, e ancora a lui sconosciuta, in quanto rappresentante dello Stato. Inoltre offre la sua casa a una ragazza, Lakshmi, (e a sua nonna) salvandola da una vita di ladrocinio, a cui l’avevano costretta il fratellastro Ranjeet e la matrigna, e poi la sposa, in questo modo offrendole però, per così dire, un’altra forma di prigionia.
Poi, nella scena finale, quando i tre fratelli si ritrovano insieme per salvare Jenny e Lakshmi, Amar è travestito da suonatore d’orchestra, e i suoi fratelli, travestiti rispettivamente da sarto musulmano e prete cattolico, danzano al suono della sua musica, e quindi sono a lui sottomessi.

AAA non è incentrato intorno a un musulmano, a un cristiano, e a un hindu, ma intorno a un musulmano, a un cristiano, e a un ufficiale di polizia, risponde Raghavendra. La mia interpretazione del film è che esso fa l’allegoria della riconciliazione dello Stato (rappresentato dall’ufficiale di polizia) con le classi emarginate. Lakshmi (una criminale) che sposa il poliziotto è una figura ripresa in altri film (Sholay, Zanjeer, “Catene”, di Prakash Mehra, 1973), nei quali un ufficiale di polizia arruola un criminale per combattere un nemico più grande. Questa è fondamentalmente un’allegoria del governo che cerca di ridefinire la legalità attraverso la nozione dell’“ordinamento giudiziario socialmente impegnato.” Tutti questi sono temi portanti del periodo di Indira Gandhi. Non ha senso che le minoranze si assoggettino a un hindu, ma ha senso che si assoggettino allo Stato rappresentato da un ufficiale di polizia.”

Akbar, con le sue canzoni Urdu, fa una parodia del vecchio ordine sociale islamico, nonché dei Muslim social, film indiani degli anni Sessanta i cui protagonisti sono islamici, e il cui ambito è circoscritto non solo alla religione, ma anche alla classe sociale, al genere sessuale, alla geografia e alla storia. Nondimeno, sempre Akbar descrive una realtà che non è vera, come se attraverso il velo della sua innamorata o quello delle antiche tradizioni islamiche ci sia solo inganno. Ma anche nella società indiana, e a Bombay, dove il film è ambientato, ogni cosa è ingannatrice, e solo una cosa è importante: il sangue, con i suoi conseguenti fratellanza, famiglia, unione.
“L’essere musulmano nel cinema hindi (per es. nei Muslim social), prosegue Raghavendra, è in qualche modo una categoria barocca nella quale la consuetudine sociale è esagerata come modo di enfatizzare l’identità religiosa, sebbene la fede stessa non giochi alcun ruolo nella narrazione. L’induismo (a differenza dell’Islam) è una religione in cui la fede non è importante, ma lo sono le consuetudini sociali (e l’appartenenza) (a causa della formazione del forte legame di casta/jati); il Muslim social perciò “induizza” l’Islam, in un certo senso. Esso trasforma “l’essere musulmano” in un attributo tipico della jati e perciò mostra la formazione di forti legami in un modo non possibile tra i reali musulmani, poiché essi provengono da differenti classi/gruppi sociali che non possono essere riuniti come famiglia.”

“Ma non penso, conclude Raghavendra, che AAA faccia una parodia dei Muslim social: esso semplicemente sta reintroducendo gli stessi motivi in un tono adatto ad esso.”
Amitabh Bachchan gioca un ruolo preponderante come Anthony, che è il leader carismatico del film. Lui è l’unico personaggio capace di essere un cristiano senza essere ciò che il sociologo e psichiatra Ashis Nandy, in un libro del 1983, definì come “il nemico intimo” della società indiana, ovvero, non l’essere cristiano, ma l’essere cristiano in quanto colonizzatore. Sempre secondo Elison, Novetzke e Rotman, Anthony mette alla berlina la società cristiana: lui è un contrabbandiere di liquori, e ciò che governa il suo quartiere, Anthonyville, è lui stesso, non il Padre che lo ha allevato come un figlio o istituzioni cattoliche filantropiche.
“Concordo, controbatte Raghavendra, sul fatto che “cristiano” di solito indica colonizzatore, ma non è sempre così. Vorrei citare Jaal (“La trappola”, diretto da Guru Dutt, 1952) e Bobby (“Bobby”, diretto da Raj Kapoor nel 1973) come film in cui i cristiani del luogo sono tratteggiati senza riferimento agli inglesi. Il loro ritratto è estremamente caricaturale e ciò vale anche per AAA. Il cristiano in Jaal è un criminale, ma tutti nel film (inclusa la brava gente) sono cristiani; in Bobby i cristiani amano scherzare e consumano bevande alcoliche. La religione non è problematizzata in Bobby quando ha a che fare con una storia d’amore interreligiosa, sebbene la classe lo è.”

Bharati, o Maa, è la madre cattiva, il villain, nonostante il fatto che impersoni Mother India, la dea venerata in India a partire dal 1977. Essa può essere considerata come il potere femminile del film che sovrasta anche le sue controparti maschili (per esempio, Amar, che costituisce lo Stato come insieme astratto di principi).
“Non concordo con quanto affermato, dice Raghavendra. Bharati è devota e un cobra viene da lei a salvarla contro l’effettivo villain quando lei sta pregando. Nessuno che è devoto può essere cattivo in un film popolare hindi.”
Alla fine, un verso di una canzone, Anhoni ko honi kar de (“C’mon, let’s make the impossible possible.”) Nella scena finale, i tre fratelli, riuniti per salvare due delle loro innamorate, Jenny e Lakshmi, cantano questa canzone e, secondo gli studiosi che hanno scritto il libro, si rivolgono agli spettatori del film, in una sorta di mascherata: è realmente vero che hindu, musulmani e cristiani si riconoscono l’un l’altro come veri fratelli? “Let the impossible become possibile.”
“Amar, conclude Raghavendra, non è “hindu” nel modo in cui gli altri due appartengono alla propria religione. Una volta che lo si vede come persona che fa l’allegoria del potere statuale, il significato cambia.”

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India: da Londra a Heidelberg uno sguardo sulla società di New Delhi

 

Da Reset Dialogues on Civilizations

Una significativa novità negli studi sull’India contemporanea, che coniuga due distinte scuole di pensiero, una tedesca e una inglese. E Un validissimo aiuto anche per chi vuole approfondire il background storico, politico e sociale della filmografia bollywoodiana ma, soprattutto, del cinema indiano indipendente. E, ancora, una lezione per cui lemmi quali razza, casta, religione, hanno assunto, durante gli ultimi due secoli, significati differenti. Sono questi i punti salienti per un libro che ancora è un unicum nell’ambito delle scienze sociali e politiche, perché finora nessuno ha mai intrapreso un’impresa simile. Si tratta di Key Concepts in Modern Indian Studies, dizionario a più mani pubblicato nel 2015 ed edito da Gita Dharampal – Frick, Monika Kirloskar – Steinbach, Rachel Dwyer e Jahnavi Phalkey per la New York University Press.

Il libro è strutturato secondo quattro aree tematiche (storia sociale, filosofia, media studies, storia della scienza), con un ampio approccio multidisciplinare, con lemmi di lunghezza standard, tranne alcuni (come democrazia, ambiente, economia politica, nazionalismo religione) che richiedono spiegazioni più dettagliate. Ciascuna voce ha una succinta bibliografia per chi volesse approfondire la materia.

Come già anticipato, si sono incontrate, per la redazione del volume che, a detta degli stessi autori, subirà molti aggiornamenti successivi data la complessità degli argomenti trattati, due scuole di pensiero. La sua ideazione è infatti cominciata indipendentemente a Londra e a Heidelberg, anche se con propositi molto simili. E se il progetto originale della SOAS, Università di Londra, era per saggi più lunghi (circa 3.000 parole) e online, molti autori non hanno aderito preferendo il cartaceo: un’iniziativa simile stava nascendo a Heidelberg e i due progetti si sono incontrati con successo, con apporti anche di altri esperti internazionali.

Solo la voce di Rachel Dwyer è destinata espressamente alla cinematografia (Bollywood), anche se moltissime altre ci aiutano a capire il suo funzionamento e i problemi politici, culturali ed economici ad essa sottesi. Così, si apprende poco di cui già la vulgata non abbia tramandato su Bollywood: che il termine è nato negli anni Settanta o Ottanta per diventare la denominazione standard a livello giornalistico, e che nei circoli accademici è di solito ristretto agli ultimi vent’anni, quando il cinema diventa parte di una più ampia industria dell’intrattenimento. In ogni caso, nonostante le varie interpretazioni, Bollywood denomina, secondo molti, il cinema popolare indiano. La Dwyer nomina poi il cinema parallelo, detto anche middle cinema o new cinema che ha come suo massimo esponente Shyam Benegal (nato nel 1932), e il multiplex “hatke” (“differente, indipendente”) dei giorni nostri. Non manca, infine, la grande produzione realistica di un grande del cinema di tutti il tempicome Satyajit Ray (1921 – 1992). Infine, il lemma contiene una breve storia circa la diffusione del cinema indiano nel mondo, con il suo scarso appeal verso gli occidentali fino agli anni Novanta quando, oltre agli indiani della diaspora, sta registrando anche un successo di nicchia.

Sempre da altre voci del dizionario si apprendono informazioni sui fenomeni dell’intrattenimento di massa. Per fare un esempio, sotto la voce religione si afferma che questa entra come messaggio in molti media: immagini religiose, musica, film, canali televisivi, e nuove forme di devozione popolare attraverso nuovi media, come Internet.

Sempre sotto questo lemma si dice che essa concerne la storia della colonizzazione e della post – colonizzazione, ma che tocca anche temi relativi alla modernità e alla modernizzazione che tanta parte hanno nel cinema hindi popolare e nel cinema indipendente. Così, anche un blockbuster del 1977 come Amar Akbar Anthony (“Amar Akbar Anthony”) di Manmohan Desai, dove tre fratellini divisi alla nascita vengono allevati da un hindu, un islamico e un cristiano, può essere letto alla luce della religione come indicatore di identità sociale e di dilemma tra fedi ancora presente e ampiamente spiegato nella voce.

Ma forme moderne di politicizzazione della fede hanno portato anche a fenomeni come il comunalismo e il fondamentalismo, come è ben identificato in Dev (“Dev”), film del 2004 di Govind Nihalani che parla di violente ritorsioni contro una comunità islamica inerme.

Tuttavia altre voci concernono film e mass media: la metropoli nell’epoca nehruviana era strettamente legata al suo hinterland rurale, e i film hindi dell’epoca la ritraevano come un luogo di immigrazione e di opportunità per i poveri (si vedano la Trilogia di Apu di Satyajit Ray (1955 – 1959) e Deewar “Il muro”, film del 1975 di Yash Chopra). Al contrario, attualmente il cinema hindi ha analizzato la città come entità culturale autonoma: tre esempi per tutti, Delhi – 6 (“Delhi – 6”) di Rakeysh Omprakash Mehra (2009), Dev. D (“Dev. D”) di Anurag Kashyap (2009) e Dhobi Ghat (“Dhobi Ghat”) di Kiran Rao (2011).

Il nucleo familiare come unità multigenerazionale, dove risiedono più nuclei, è definita nella cultura popolare dell’India del Nord (cinema o serie televisive) con il termine Khandaan (di qui il lemma), e tanta parte ha nelle trame sia del cinema indipendente che di quello mainstream. Anche qui si mostra come il termine abbia innumerevoli definizioni a seconda di come lo si veda. In ogni caso, il nucleo familiare è considerato spesso come l’unità fondamentale della società, ed è stato studiato soprattutto da storici, sociologi e antropologi. Non bisogna poi dimenticare la differenza tra famiglia nucleo familiare, in quanto la prima comprende solo i congiunti. Pur in questa difficoltà di definizioni la famiglia nel cinema hindi popolare rimane generalmente un caposaldo (matrimoni combinati, rispetto delle regole da parte dei giovani, sottomissione delle donne), anche se le cose stanno gradualmente cambiando.

Un prestito relativamente recente dal sanscrito, samachar, significa informazione a mezzo stampa. Il fatto che l’inglese fosse parlato da una minoranza ristretta faceva sì che le parole news samachar si riferissero ciascuna a uno strato distinto della società indiana, una delle quali parlante lingue regionali e quindi con media ad hoc. Dall’Indipendenza, l’importanza dell’inglese nei media è aumentata, anche se solo pochi indiani la parlano. Attualmente, tra i dieci maggiori quotidiani, solo uno, il Times of India, è in inglese, e le parlate regionali si stanno affermando sempre più con i media elettronici. Tuttavia, l’inglese è ancora oggi un mezzo di comunicazione universale che le lingue regionali non possono avere.

Quelle citate sopra sono le voci che hanno più o meno attinenza diretta con i media, ma ve ne sono molte altre che forniscono un quadro socio – politico per comprendere eventi significativi per la cinematografia indiana. Oltre alle voci casta intoccabili (Dalit), che tanta parte hanno in molte pellicole (basti pensare al recente Masaan (“Crematorio”)dell’esordiente Neeraj Ghaywan (2015), che parla, tra l’altro, dell’amore tra un giovane ingegnere di casta bassa e una ragazza di casta alta) ve ne sono altre, come La rivoluzione verde, i Non – Resident Indian e la liberalizzazione che toccano nervi scoperti della cinematografia degli ultimi decenni. La rivoluzione verde, la pianificazione familiare/controllo della popolazione, l’emergenza, sono tutti temi che colpirono l’India negli anni Settanta e che si riflettono profondamente nei blockbuster dell’epoca e anche nei documentari più recenti.

La rivoluzione verde, intesa come sfruttamento intensivo del terreno tramite pesticidi, irrigazione estensiva e infrastrutture complementari come elettricità portata nelle campagne per far crescere riso, mais e grano, iniziò negli anni Sessanta con conseguenze che si rivelarono drammatiche. Molti contadini, come testimoniano documentari di cineasti indipendenti, si indebitarono per comprare le sementi e poi il terreno divenne via via meno fertile, spingendo alla fame intere famiglie e ad un “suicidio sociale” i capifamiglia.

L’emergenza e la pianificazione familiare/controllo della popolazione sono temi che incidono profondamente anche nei blockbuster degli anni Settanta, come Deewar, dove si parla di Maa, una donna lasciata dal marito che, immigrata a Mumbai, tira su da sola due bambini, uno dei quali, poliziotto, ucciderà l’altro, diventato un fuorilegge. Sono anni duri: nel 1975 il presidente dell’India, Fakhruddin Ali Ahmed, dichiara lo stato di Emergenza dando poteri illimitati a Indira Gandhi, allora Primo Ministro. La donna lancia lo slogan “Indira is India” e Maa, la madre in Deewar, come famiglia rappresenta Indira come Stato. Non va infine dimenticato che Sanjay Gandhi, figlio di Indira, tra varie misure, lancia una campagna di sterilizzazione forzata per il controllo delle nascite con esiti disastrosi, portando alla morte di quasi duemila persone.

Anche la dote è un argomento controverso. Alcuni documentari denunciano il cosiddetto bride burning (“bruciamento della sposa”) o dowry murder (“omicidio per dote”), anche se milioni di matrimoni, come afferma Werner Menski, redattore del lemma, non finiscono in violenti disastri a causa di tale pratica. Comunque, come scrive sempre Menski, «mentre non c’è necessaria diretta correlazione tra dote e violenza di genere, timori a proposito del divorzio rimangono strettamente implicati in “omicidi” per dote”».

Infine i concetti di liberalizzazione e di classe media che tanta parte hanno avuto nella cinematografia indiana post – liberalizzazione. Dopo l’Indipendenza, l’India con Nehru e i suoi successori aveva optato per un’economia pianificata, che aveva portato a un’industria debole e supportata dallo Stato, mentre i poveri non avevano ricevuto i benefici sperati. Nel 1991 il governo indiano viene costretto a prendere un prestito dall’estero e di conseguenza ad aprire le frontiere ai mercati esteri, a investimenti stranieri, a importare beni di consumo, come pure a privatizzare imprese statali. Nasce la nuova classe media, anche se ancora minoritaria, mentre con l’ulteriore indebolimento del welfare state si allarga la forbice tra Stati, classi, caste, e generi. Ed è a questa classe media che si rivolgono i media, i film, ed è sempre lei che li dominacosì come è anglofona, mentre sempre i media fomentano forme di integralismo religioso hindu. Proprio in questo periodo si sviluppa in televisione e nel cinema hindi una nuova ideologia veicolata sempre dai media, l’”essere indiano”, che è globalmente smaliziata e spesso culturalmente conservatrice. E, infine, la vulgata bollywoodiana con la liberalizzazione strizza l’occhio anche ai NRI (Non – Resident Indian) che, con le loro rimesse e il loro potere d’acquisto, costituiscono un mercato parallelo a quello domestico e attento a nuovi contenuti e a una migliore qualità cinematografica anche del prodotto indiano mainstream.

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Un viaggio nella cinematografia indiana Ecco come cambia la figura della “gori”

Da Reset-Dialogues on Civilizations

 

Un viaggio nella cinematografia indiana

Ecco come cambia la figura della “gori”

 

Una Bollywood che cambia, si crea, rimane la stessa, anche nei remake, attraverso un continuo interscambio; un nuovo modo di concepire la donna ma, soprattutto, la gori, la donna bianca, nelle trame; una metrosexual masculinity, nata dopo la liberalizzazione con un uomo bello, depilato, che frequenta le palestre; infine, la necessità di portare il “prodotto” Bollywood, che è cultura popolare, all’attenzione degli studenti USA non solo come dispositivo culturale e sociologico, ma anche nella sua struttura formale. Sono questi gli aspetti salienti trattati in Twenty – First Century Bollywood, di Ajay Gehlawat, professore associato di teatro e cinema alla Sonoma State University (California). Ed è uno studioso, Gehlawat, che, nel tratteggiare gli aspetti sociologici della nuova Bollywood, segue molto da vicino Rachel Dwyer.

Un punto di vista eterodosso, il suo, nel tracciare i confini tra la Bollywood pre e post – liberalizzazione. Per lui non esiste una netta cesura, a livello di struttura formale, tra i due periodi. Si può parlare, quindi, e per lo più, di intertestualità tra i vari remake occorsi in questo periodo e non, come dice invece Priya Joshi, di Bollywood e Bollylite (cinematografia nata dopo la liberalizzazione e che contiene solo la forma, non il contenuto di Bollywood). Allo stesso modo, a questo livello non esiste una netta cesura tra la Bollywood pre e post – liberalizzazione, come invece afferma M.K. Raghavendra, nel suo The Politics of Hindi Cinema in the New Millennium. Bollywood, dunque, imita e riconfigura se stessa, rinnova se stessa, e nello stesso tempo vuole non diventare se stessa, in una continua rinegoziazione e articolazione, in un perenne “reassemblage”.

Ma gli aspetti sociologici nel libro vengono fuori quando si parla della figura della donna, e soprattutto della gori.

La donna nei primi film veniva vista come l’eroina casta e pura, degna di essere sposata, oppure come la vamp, destinata alla rovina, ma nella cinematografia bollywoodiana del XXI secolo ci sono film come Shuddh Desi Romance (“Puro romanzo indiano”) di Maneesh Sharma, del 2013, dove un ragazzo, Raghu, oscilla tra due donne, Gayatri e Tara, con vari momenti in cui uno dei promessi sposi viene lasciato sull’altare. Raghu, che finisce per sposare Gayatri, dopo aver abbandonato due volte Tara, ha rapporti prematrimoniali con Gayatri, e questo senza drammi e senza che figure parentali vengano a intervenire. Si è tra la nuova Bollywood e i film anticonformisti, ma la nuova Bollywood c’è, in una sorta di ultima generazione di film.

Ma ecco la figura della gori, che è forse l’aspetto che può più interessare ad un pubblico occidentale. All’inizio, come per la donna emancipata, per la gori c’erano pochi ruoli, con una preminenza della vamp. Nel 1970, in Purab aur Paschim (“Est e ovest”) di Manoj Kumar, compare Preeti, l’indiana dalla pelle chiara cresciuta nel Regno Unito che solo dopo aver abbandonato i suoi costumi occidentali può sposarsi con il protagonista indiano.

Ma ancora negli anni Duemila la gori in quanto tale ancora non è accettata, e in film notevoli, come Lagaan: Once upon a Time in India (“Lagaan: c’era una volta in India”), di Ashutosh Gowariker, del 2001, candidato all’Oscar, e in Rang de Basanti (“Dipingilo color zafferano”), film politico, di Rakeysh Omprakash Mehra, del 2006. Nel primo c’è il desiderio di una ragazza bianca, Elizabeth, per Bhuvan, il giovane capo – villaggio che deve giocare con la sua squadra (e vincere) una partita di cricket per veder sospesa la tassa sul raccolto, detta appunto “Lagaan”. La giovane aiuterà Bhuvan di nascosto del fratello e riuscirà a far vincere la partita ai nativi. Il desiderio della ragazza verrà visto solo attraverso le sue fantasie e non verrà mai svelato a Bhuvan (solo il pubblico ne è al corrente perché lo vede attraverso un ballo che è solo un sogno della gori memsaib).

In Rang de Basanti una bionda ragazza inglese, Sue, cerca di fare un docu – film su Bhagat Singh, rivoluzionario indiano ai tempi del colonialismo (suo nonno era stato il supervisore dell’esecuzione e aveva lasciato un diario). Per questo motivo va in India e cerca di trovare degli attori, aiutata da una sua amica indiana. Li trova in un gruppo di studenti, e si innamora di uno di loro, DJ. A un certo punto i ragazzi uccidono il ministro della Difesa perché uno di loro, pilota, muore in un incidente aereo causato da un aereo difettoso comprato dal governo indiano in maniera illegale. Subito dopo i ragazzi rivendicano l’attentato attraverso la stazione radiofonica All India Radio, e prima di essere uccisi in un blitz della polizia DJ dichiara a un suo amico il suo amore per Sue.

Sia in Lagaan che in Rang de Basanti la donna bianca si innamora, virtualmente nel primo caso, corrisposta nel secondo, ma sempre “insegna” qualcosa (a giocare a cricket, a ricordare il passato coloniale), ed è deleteria nel tentativo di fare qualcosa che essa stessa ha aiutato a causare. In altre parole: l’apice non è l’”apice”; c’è un tragico finale al romanzo amoroso interraziale che sboccia ma che va in mille pezzi non necessariamente perché è interraziale, ma perché il suo culmine non è permesso dagli eventi filmici che sono largamente azionati dalla gori nella storia.

Tuttavia, sarà non solo la gori, ma l’indiana che si comporta da gori la protagonista delle ultime pellicole. E questa volta essa ha successo. In un film, Marigold (“Marigold”), del 2007 (regista, Willard Carroll), un’attrice americana va in India e qui si innamora e sposa un collega indiano, che le insegna a ballare, dato che la parte che le era stata offerta in un film di Bollywood era appunto quello di una ballerina. É un film di passaggio, questo, a metà tra Oriente e Occidente, e che sarà rivisitato e cooptato nella cinematografia indiana. Le gori hanno fascino, ma le indiane, comportandosi come loro, riusciranno a conquistare il partner portandoglielo via sotto il naso. Così Bollywood si riappropria di ciò che era considerato straniero, anche se ancora usa molte attrici indiane con la pelle chiara per impersonare atteggiamenti da gori. Sempre nella Bollywood contemporanea l’essere gori sta diventando sinonimo di “essere Indiano”, anche se come già detto la pelle chiara degli attori sembra ancora porre qualche problema.

La gori, comunque, attualmente, può essere o mezza indiana o esserlo completamente, e negli ultimi film non serve più essere donne bianche. Sono indiane e anglo – indiane le protagoniste di un road movie, Zindagi Na Milegi Dobara (“Non vivrai di nuovo”), di Zoya Aktar, del 2011. Tre ragazzi indiani, Kabir, Imraan e Arjun, vanno a fare un viaggio in Spagna (Kabir è fidanzato con Natasha, indiana e rompiscatole). Qui si incontreranno con Laila, mezza indiana e mezza americana, istruttrice subacquea. La ragazza finirà per sposare uno dei tre facendo sesso prematrimoniale e prendendo l’iniziativa senza alcun problema. Ma anche Natasha, che fa la figura della fidanzata scocciatrice e che verrà lasciata dal ragazzo, non finirà male: rimarrà amica con il trio, ballando con loro al matrimonio di Laila e Arjun con un ragazzo che si suppone sarà il suo prossimo boyfriend.

Oltre al maschio con una sensualità da giovane urbanizzato, bello, e “liscio come seta”, la parte del libro di Gehlawat più significativa per gli Occidentali è l’insegnamento della cinematografia bollywoodiana che, come tutte quelle non hollywoodiane, in Occidente è sottorappresentato. In particolare, (e qui si parla soprattutto degli USA), esso, spesso, è contemporaneamente storia sociale, politica ed economica, lingua e religione, con un effetto “sinfonico”, e deve fare i conti con la (quasi) ignoranza degli studenti nel settore. Ancora, il rischio è di considerare l’oggetto culturale “altro” come documento etnografico, vedendo il professore come “informatore nativo” se è sud – asiatico. Inoltre molti degli insegnamenti di film indiani sono confinati in contesti di studi sud – asiatici, non nelle Humanities.

Data questa incertezza dell’oggetto di studio, dovuto anche al “canone” da mostrare agli studenti, ovvero la serie di pellicole paradigmatiche, cosa fare? La risposta di Gehlawat è più “formale” possibile: togliersi dalle pastoie del cultural insider, stabilire cos’è un film bollywoodiano (non Slumdog Millionaire di Danny Boyle, del 2008, o Monsoon Wedding di Mira Nair, del 2001), avere un approccio teorico più analitico possibile. Così, sì alla proiezione di film interi in classe anche se molto lunghi, sì a clip per integrare con ulteriori aspetti la visione delle pellicole canoniche, sì allo studio di testi sia generali, sia specifici del film tra la visione e la discussione in classe, così da completarla. In questo modo, si sarà capaci di afferrare la specificità di un sistema di significazione attraverso la stretta analisi dei film stessi, e delle loro conseguenti rappresentazioni (corsivo nel testo) degli sfondi storici e sociali.

Bollywood’s India: indagini storiche sul grande schermo nel subcontinente

 

Da Reset-Dialogues on Civilizations
Bollywood’s India. A Public Fantasy (2015) di Priya Joshi, associate professor alla Temple University di Baltimora equivale a una summa theologiae sulla cinematografia indiana, un libro che ogni appassionato del cinema del subcontinente asiatico dovrebbe leggere per conoscere più a fondo i principali filoni conduttori di un grande schermo che di anno in anno cattura sempre più estimatori.

Un linguaggio piano, accessibile, a metà tra l’articolo specializzato e il saggio divulgativo. Un approccio multidisciplinare, che non trascura la psicanalisi. Poi, tre decenni fondativi nella storia del cinema indiano, gli anni Cinquanta, i Settanta e i Novanta post-liberalizzazione del subcontinente. Inoltre, due trittici fondamentali di Bollywood: tre film di Raj Kapoor dei Fifties e tre dei due sceneggiatori Salim-Javed degli anni Settanta. Ancora, l’analisi del più famoso curry western: si tratta di Sholay (“Fiamme”), di Ramesh Sippy, del 1975. E infine pellicole post-liberalizzazione che non sono più Bollywood, ma Bollylite, simili a Bollywood, ma per il loro contenuto sostanzialmente diverse. Sono questi, in sintesi, i temi trattati nel libro della ricercatrice Priya Joshi.

«L’incontro del cinema con la politica non è nuovo, né è confinato al periodo studiato», si legge nel libro. «Ma ciò che differisce attraverso i vari periodi storici è il genere di nazione presa in visione nel cinema, il genere delle pubbliche fantasie che la rafforzano e la contengono, e il grado in cui la nazione costituisce il nucleo della fantasia del cinema».

A differenza di altri autori Priya Joshi sancisce una netta suddivisione tra Stato e nazione. Il primo si riferisce alle componenti politiche e amministrative della politica moderna che hanno il potere e l’autorità per governare, la seconda invece costituisce l’insieme di costruzioni ideali congruenti con lo Stato, ma che spesso non vi si sovrappongono. Così, se la nazione precede la creazione dello Stato nelle democrazie occidentali, l’inverso accade in India, quando, nel 1947, al tempo del famoso “appuntamento con il destino” citato nel discorso di Nehru quando l’India diventa indipendente dal Regno Unito, la nazione resta tutta da fare. E il cinema rimane una zona di confine tra Stato e nazione.

Proprio la dinastia dei Kapoor, cineasti famosi quanto la dinastia Nehru al potere, e ad essa legata per affinità intellettuali, negli anni Cinquanta lega il primo concetto di nazione al cinema. È il decennio in cui ancora c’è il sogno di una nazione unificatrice, che sa offrire sogni. In Awara (“Il vagabondo”), del 1951, di Raj Kapoor (1924 – 1988), un ragazzo, rifiutato dal padre giudice che scaccia la madre incinta perché rapita da un bandito e quindi probabilmente vittima di uno stupro (anche se non è vero), diventa un delinquente. Aggredendo il padre, verrà salvato dalla pupilla di questo, avvocato, con cui ha una storia d’amore. Passerà qualche anno in carcere ma con la promessa di diventare un uomo migliore, “un giudice”, e la ragazza lo aspetterà. Nell’immaginario pubblico ci sono quindi due idee: la natura del crimine e gli sforzi per riformarlo, e la situazione difficile del “piccolo uomo” stritolato in una società ostile. Ma in due film successivi, la giustizia, anche se vista ancora come emanazione dello Stato, che premia e punisce, è più evanescente. È il caso di Shree 420 (“L’inganno del gentiluomo”) del 1955, sempre di Raj Kapoor, e di Ab Dilli Dur Nahin (“Dehli ora non è lontana”), del 1957, questa volta solo prodotto da Kapoor. In quest’ultima pellicola, un bambino, che chiede giustizia per il proprio padre, cerca disperatamente Nehru per portare la testimonianza scritta della sua innocenza, ma lo statista appare come una figura evanescente, lontana, che si vede solo nelle foto o in parate ufficiali, e solo alla fine il ragazzino riuscirà a raggiungerlo.

Gli anni Settanta vedono una brusca virata e un tradimento degli ideali del padre Nehru con l’ascesa al governo di Indira Gandhi. Sono gli anni in cui, dal 1975 al 1977, la statista indiana, accusata di brogli elettorali, proclama lo stato d’emergenza contro le opposizioni. Anni duri, difficili, con la sterilizzazione forzata di masse di poveri. Di tutto questo sono soprattutto testimoni due film: Sholay (“Fiamme”), del 1975, e Deewar (“Il muro”), del 1975.

Sono entrambi campioni d’incasso al botteghino, e Sholay è diventato un tormentone per gli indiani anche di generazioni successive. Si tratta di un curry western: un ex ispettore di polizia, Thakur, che ha visto uccidere la propria famiglia da un bandito, Gabbar, che gli ha anche mozzato le braccia, ingaggia due ex fuorilegge, Jai e Veeru, per farlo fuori. Uno di questi morirà, l’altro andrà via dal villaggio di Thakur seguito però dalla sua bella, Basanti, che ha incontrato là.

Secondo Javed Akthar, co-sceneggiatore, il film rifletteva lo Zeitgeist dell’epoca, con lotte sociali, frustrazione politica, disillusione verso tutte le istituzioni, i college, le forze di polizia. La pellicola è reazionaria, perché si rivolge a quelli delle classi basse come gli abitanti del villaggio e a due fuorilegge per proteggere Thakur, un uomo della upper class. Sholay ha avuto grande successo tra le masse popolari perché dimostra che la violenza e la brutalità possono essere estirpate solo da due fuorilegge, non dallo Stato, impotente. Il film infine ha funzionato nei confronti dell’audience aiutandola a esorcizzare le sue paure.

Ma un altro film fondativo segna gli anni Settanta: si tratta di Deewar (regista, Yash Chopra), seguito da altri due che, secondo la Joshi, ne mitigano il messaggio dirompente. Sono Trishul (“Il tridente”), del 1978, e Shakti (“Potere”), del 1982, tutti e tre con la sceneggiatura di Salim Khan e di Javed Akthar.

Qui si può parlare, con Freud, di romanzo familiare: le fantasie sono spostate da una situazione frustrante (per esempio una famiglia umile) ad una che gratifica il soggetto che, per esempio, sogna di avere genitori altri, socialmente più appaganti, o una situazione individuale e sociale migliore. In tutti e tre i film la vicenda è spostata dal livello dello Stato-nazione a quello della famiglia, tutti e tre i film strutturalmente sono simili. Ma è opportuno soffermarsi solo sul più paradigmatico, Deewar. La trama è semplice: un sindacalista, Anandbabu, costretto a tradire gli ideali dei lavoratori perché la sua famiglia è stata rapita dal padrone, scompare, lasciando la moglie Maa e i figli piccoli Vijay e Ravi che vanno a Mumbai a vivere con gli emarginati. Qui la madre e Vijay, il bambino più grande, lavorando, permettono al minore di laurearsi. A un certo punto però Vijay diventa un fuorilegge mentre Ravi un ispettore di polizia. La storia finisce con Ravi che uccide Vijay che muore tra le braccia della madre. La storia ha delle analogie con il complesso di Edipo: mentre Giocasta si uccide quando scopre l’incesto con il figlio è come se Maa sposasse il figlio più grande e lo uccidesse armando (come nel film farà) la mano di quello più piccolo. E quando Vijay rinfaccia a Ravi il suo stile di vita gramo come tutore della legge, lui gli risponde: «Io ho Maa». Sia Ravi che Maa rendono la parentela un oggetto. Maa sanziona la sua violenza come quella dello Stato (la polizia). Vijay deve morire e la donna deve farlo in modo da renderlo il suo sacrificio, non quello di lui. E lo Stato appare pienamente ingannato, dando addirittura alla donna una medaglia. Maa rappresenta per la propria famiglia quello che Indira Gandhi rappresenta per le istituzioni statali: non per niente c’è un manifesto elettorale in cui sullo sfondo dell’India compare Indira con la scritta Mother India Needs You.

Passano gli anni Settanta, scarsi accenni, nel libro, agli Ottanta. Con la liberalizzazione si registrano fenomeni nuovi, come l’affacciarsi prepotente dei NRI (Non Resident Indians) e la globalizzazione, in cui la cinematografia indiana perviene in Occidente, dove però resta un fenomeno di nicchia, quasi limitato agli immigrati. Ma si ha un nuovo fenomeno: Bollywood cede il posto a Bollylite, una filmografia di immagine e non di sostanza dove manca il contenuto latente a favore di quello manifesto, dove la famiglia è stabile ed estesa, dove lo spazio sociale diviene la casa e non più gli slum, dove la mobilità sociale è irrilevante nei confronti della trama, dove la violenza ricorre entro la famiglia e non tra classi, dove l’identità nazionale è convogliata da lotte entro ciò che è individuale e non entro ciò che è pubblico. Ed è Bollylite che sostituisce ai valori della famiglia quelli dell’impresa e del consumismo che, rispetto ai film dei decenni passati, diventano il fine di tutto.

Naturalmente molto spesso Bollylite e Bollywood si intersecano, ed è difficile dire dove inizi uno e dove finisca l’altro.

È negli anni Duemila che le logiche cambiano attraverso una nuova riflessione sulla logica del mercato, ormai non fondamentale: non più solo film alla Bollylite, ma anche pellicole che ritornano alla vecchia tradizione che, con le sue pubbliche fantasie, ha fatto, rifatto e disfatto (made, remade, and unmade) nel tempo il concetto di India. In questo quadro, comunque, date le nuove tecnologie, la diffusione del “modello blockbuster” spinge ad includere anche film che contemperano elementi locali e regionali, uscendo così da quella logica mainstream che tanto aveva caratterizzato gli anni precedenti. Ma tutto questo dovrà essere oggetto di future riflessioni.

Il 2015 di Bollywood L’India delle differenze torna in copertina

 

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Esordienti provenienti dal cinema indipendente, che si sono formati le ossa come aiutoregisti o sceneggiatori, e che hanno conquistato visibilità nei festival internazionali. Una commistione sempre più frequente, anche se non sempre riuscita, tra il cinema mainstream e quello d’autore. E poi, una serie di tematiche politiche e sociali che “passano” attraverso i festival e che fanno discutere, fuori e dentro l’India. Ancora, temi quali le critiche al sistema giudiziario indiano, o a quello castale. Infine, denunce coraggiose, con argomenti forti quali la disabilità e l’omosessualità trattati con intelligenza, in modo da passare indenni attraverso le maglie della censura.

 

[dt_quote type=”blockquote” font_size=”big” animation=”none” background=”plain”]SabrinaCiolfiDi questo e di altro ResetDoc ha parlato con Sabrina Ciolfi, docente di Cultura e Cinema Indiano all’Università degli Studi di Milano, a proposito della passata stagione cinematografica indiana.[/dt_quote]

 

 

 

Potrebbe fornirci uno stato dell’arte del cinema indiano del 2015?

Abbiamo assistito ad una stagione cinematografica molto variegata e che diventa ogni anno più interessante. I grandi numeri come al solito li fa il cinema in lingua hindi, in particolare quello commerciale (Bollywood), dove i grandi attori, i più conosciuti e i più amati dal pubblico, hanno sempre grande successo, mentre nuove leve si aggiungono allo star system. Poi c’è il cinema indipendente che fa meno incassi ma che emerge sempre di più a livello nazionale e, soprattutto, a quello internazionale nei circuiti dei festival. Infine, le produzioni regionali, o locali, con una ventina di realtà cinematografiche diverse. Per quanto riguarda la produzione bollywoodiana “classica” un film del 2015, Bajrangi Bhaijaan (“Fratello Bajrangi”) di Kabir Khan, si è classificato secondo come incassi nella storia del cinema indiano. Un altro film di successo è stato Bajirao Mastani (“Bajirao Mastani”), uscito a dicembre 2015: si tratta di un film epico, una storia d’amore ambientata nel Settecento che ha come protagonisti tre degli attori più amati di Bollywood, Ranveer Singh, Deepika Padukone e Priyanka Chopra. Quest’ultima, ex Miss Mondo e star di Bollywood, negli ultimi tempi ha avuto un grandissimo successo internazionale come protagonista di Quantico, serie TV americana. Questo ha acceso i cuori del pubblico indiano e generato un sentimento di orgoglio nazionale; l’attrice è stata presente anche alla notte degli Oscar e, grazie alla sua esperienza, le porte di Hollywood si potrebbero aprire anche per altri suoi colleghi indiani.

Quali esordienti dobbiamo tenere d’occhio?

Di esordienti alla regia, come già avviene da diversi anni, ce ne sono stati diversi, in particolare nel cinema indipendente ma anche nel cinema mainstream, dove i nuovi registi portano temi innovativi e uno stile narrativo diverso dai soli schemi predefiniti. In genere gli esordienti hanno già un passato da sceneggiatori o da assistenti alla regia di professionisti affermati. Essi inoltre spesso provengono dai laboratori che sono stati creati all’interno dei principali festival internazionali e, per il valore del loro progetto, sono stati spinti economicamente a portarlo avanti. È quello che è avvenuto con The Lunchbox (“Il cestino da pranzo”), proveniente dal TorinoFilmLab del Festival del Cinema di Torino, che è uscito anche in Italia nel 2014, dopo tanti anni che non uscivano film indiani. Tra i registi dei migliori film usciti in India nel 2015 si possono citare Neeraj Ghaywan, con Masaan (“Crematorio”), un film presentato a Cannes nel 2014, e Chaitanya Tamhane, regista di Court (“La Corte”), film in concorso a Venezia nel 2014, che ha vinto ben due premi: uno nella sezione Orizzonti e uno come migliore opera prima (premio Luigi De Laurentiis). Titli (“La farfalla”) è anch’esso il film di un debuttante alla regia, Kanu Behl, e anche questo è stato presentato a Cannes nel 2014.

 

Quale relazione tra il grande schermo mainstream e il cinema indipendente?

Le connessioni sono sempre più evidenti. Ci sono, soprattutto nel cinema commerciale, tentativi di sperimentare nuove idee dopo anni di grande omologazione. Negli anni Novanta era molto in voga il family drama, commedia a lieto fine dove due giovani, dapprima separati, alla fine riuscivano a ritornare insieme (il tutto accompagnato da danze e canti). Poi, con il nuovo millennio, i produttori hanno tentato di sperimentare anche formule nuove, incoraggiando i registi in questo senso. Un esempio di questi film, che è uscito nel 2015 ed ha partecipato anche allo scorso River to River Florence Film Festival, è Dum Laga Ke Haisha (“Metticela tutta!”) di Sharat Katariya, anche lui esordiente alla regia e già autore di Titli, che tratta il tema del matrimonio combinato ma in chiave diversa da quella tradizionale. È un film molto gradevole, non particolarmente impegnato, ma che non rispetta il canovaccio del family drama bollywoodiano. Il film, prodotto dalla più grande casa di produzione di Bollywood, la Yash Raj Films, ha messo d’accordo critica e pubblico, e ciò è emblematico di un esperimento ben riuscito. Un altro film che aveva creato grandi aspettative è Bombay Velvet, un crime drama coprodotto e diretto da Anurag Kashyap, che da una decina d’anni è l’emblema dei registi impegnati e indipendenti in India. La pellicola si basa su un libro di un professore di storia dell’università di Princeton, Gyan Prakash, dedicato alla città di Bombay (l’opera è stata tradotta in Italia con il titolo “La città color zafferano”). Purtroppo, pur con un cast ricco di grandi attori, la pellicola non ha dato grandi risultati, proprio per la sua incapacità di coniugare l’anima “indipendente” del cinema indiano con quella mainstream.

Quanto c’è di “politico” nella passata stagione cinematografica? E quale film sceglierebbe per illustrare questa tendenza? Mi sembra che un film significativo in proposito sia Court, che parla di un cantante folk appartenente alla cosiddetta casta degli Intoccabili che viene citato in giudizio per aver istigato al suicidio con le sue canzoni un operaio (l’uomo risulta poi essere morto sul lavoro perché ubriaco e quindi non attento alle norme di sicurezza).

Il problema delle disuguaglianze sociali è sempre stato molto presente nel cinema indiano, soprattutto in quello indipendente. A proposito di Court condivido la sua scelta nel considerarlo un film “politico”, che ha destato molto interesse in India. È il film che quest’anno l’India ha scelto per essere rappresentata agli Oscar come film in lingua straniera, anche se poi la pellicola non è entrata nella cinquina. Court è un film in lingua marathi; oltre a quelli di Venezia, ha vinto numerosi altri premi internazionali e ha scatenato un acceso dibattito in India per i temi trattati: la complessità del sistema legale indiano, spesso antiquato, e la libertà d’espressione, tema di grandissima attualità. La cosa singolare è che il cast è prevalentemente costituito da non professionisti, per cui lo stile di questo film è molto “reale”, con poca finzione. Occorre considerare, però, che film come questi non fanno grandi numeri: hanno una distribuzione molto limitata all’interno delle grandi città e vengono scelti solo da una certa élite della società, intellettuale e di upper middle class. Nonostante ciò, film come Court hanno una grande importanza perché fanno discutere in India e a livello internazionale, grazie al circuito dei festival.

Un caso di omicidio a finale aperto è, invece, affrontato in Talvar (“Il colpevole”), di Meghna Gulzar, con la sceneggiatura di Vishal Bardvaj, regista di Haider, trasposizione cinematografica indiana dell’Amleto di Shakespeare. Si potrebbe definire “politica” la scelta di affrontare in un film un caso irrisolto che ha diviso l’opinione pubblica, con gli accusatori dei genitori della quattordicenne uccisa che propendono per il delitto passionale con una certa morbosità?

Direi di sì. Anche questo è un film che ha fatto parlare molto di sé in India poiché affronta temi di grande attualità. Al di là della vicenda di cronaca che è molto conosciuta e che quindi ha destato molto interesse, la storia ha degli importanti risvolti di carattere sociale, una critica rivolta al sistema giudiziario indiano, un po’ come in Court, nonché ai media e alle forze dell’ordine. Questo genere cinematografico è ancora poco esplorato in India: ricordo un film di qualche anno fa che trattava un argomento simile, No One Killed Jessica (“Nessuno ha ucciso Jessica”). Talvar, che ha un cast formato da grandi attori quali Irrfan Khan, molto amato anche a livello internazionale, è stato presentato in anteprima al Toronto Film Festival del 2015.

Come valuta il film in lingua Tamil Kaaka Muttai (“Uovo del corvo”) di M. Manikandan? Questa volta un film non in hindi ha conquistato il mercato anche dei blockbuster?

Anche questo film è stato presentato al Toronto International Film Festival del 2014 e al Roma Film Festival del 2014 e ha vinto diversi premi nazionali. Nonostante Kaaka Muttai sia in lingua tamil e provenga dall’industria cinematografica del Tamil Nadu, seconda dopo quella di Mumbai, è riuscito a chiamare su di sé l’attenzione anche a livello internazionale, ed è la dimostrazione di come, in questi ultimi anni, le cinematografie regionali, soprattutto del Sud dell’India (in lingua malayalam, marathi, kannada e, in questo caso, tamil), producano piccoli grandi capolavori che escono dai confini dei propri Stati. La storia è quella di due fratellini che vivono negli slum di Chennai, capitale del Tamil Nadu ed ex Madras, con l’anziana nonna e la mamma, mentre il loro padre è in galera. In un’India globalizzata che offre beni di consumo di ogni tipo i bambini chiedono alla mamma di comprare delle cose che lei non può permettersi. Essi sognano di assaggiare una pizza, e s’ingegnano per trovare del denaro per comprarla, ma vengono scacciati dal locale e picchiati perché malvestiti. Però la scena viene filmata, il proprietario della pizzeria esposto alla gogna mediatica ma tutto si risolve bene per lui: alla fine “chiede scusa” ai bambini e, seguito dalle telecamere, li invita a mangiare la pizza gratis ogni volta che vorranno. Anche questo film parla delle differenze sociali dell’India, in un momento in cui la forbice tra ricchi e poveri si va sempre più allargando, e appartiene a un filone già sperimentato con successo negli ultimi anni: si raccontano ingiustizie sociali tramite storie dove i protagonisti sono dei bambini.

Un film come Masaan si presenta con un finale aperto, che vede due storie parallele incontrarsi: un ragazzo di casta bassa, Deepak, che studia ingegneria civile e i cui parenti cremano i cadaveri a Banaras, si innamora di una ragazza di casta elevata, Shaalu, che muore durante un pellegrinaggio con la famiglia. Nello stesso tempo, una coppia viene sorpresa dalla polizia in un hotel mentre fa sesso e il giovane, Piyush, studente, per la vergogna si suicida: dopo essere stato ricattato da un poliziotto corrotto il padre della giovane Devi accetta che lei provi a rifarsi una vita iscrivendosi all’università di Allahabad. Devi e Deepak, privati dei rispettivi partner, si ritrovano simbolicamente su una barca sulle rive del Gange verso Sangam, forse per una vita insieme. La critica ha accolto generalmente con entusiasmo questo film, che presenta temi sociali dal forte impatto emotivo quali il sesso prematrimoniale e i rapporti tra caste. Qual è il suo parere in merito?

Sono temi molto amati dal cinema indipendente. Recentemente in India si sono verificati degli episodi che sembrano ricalcare la vicenda del film. Nell’agosto 2015 a Mumbai la polizia ha fatto irruzione in piccoli hotel di periferia frequentati da coppie di giovani amanti, ma adulti e consenzienti, rei di aver offeso con la loro condotta il pubblico pudore. Decine di queste coppie sono state prelevate, arrestate, umiliate pubblicamente e multate per il loro comportamento. Addirittura i genitori di alcuni studenti sono stati convocati dalla polizia, come nel film. Masaan è apparso come l’anticipatore di questi fatti e ne ha tratto visibilità. Anche questo film è stato molto apprezzato a livello internazionale ed è andato a Cannes, dove ha vinto dei premi importanti. Anche in questo caso il regista è un esordiente, ma prima è stato assistente alla regia di Anurag Kashyap. Quanto ai rapporti fra caste, questo è un tema molto delicato in India e, in proposito, Masaan, che è un film di denuncia, lo ha affrontato in modo molto coraggioso.

Quest’anno sono stati trattati anche altri argomenti sociali forti, come in Margarita with a Straw (“Un margarita con la cannuccia”), di Shonali Bose, dove una ragazza indiana disabile, che va a studiare a New York con la madre, all’università conosce una compagna cieca con la quale ha una storia d’amore. Sempre la ragazza non esita ad andare a letto con un coetaneo, e a dire alla madre e alla compagna che è bisex. Quanto ricorrono nei film indiani argomenti per lo più ancora considerati tabù anche per un pubblico occidentale?

Anche questo è un film che non hanno visto in molti in India. Gli argomenti trattati nel film sono considerati assolutamente scabrosi nell’India contemporanea, dove la censura è molto rigida. Nonostante ciò la pellicola è riuscita a passare indenne dalle sue maglie grazie alla regista che intelligentemente l’ha aggirata. Margarita with a Straw parla di omosessualità in un paese in cui questa è ancora un crimine. Il film ha suscitato molti dibattiti e ha avuto un grande impatto all’estero. Vorrei far notare quanto nel film sia stata apprezzata la protagonista, l’attrice Kalki Koechlin, che è un personaggio davvero singolare: ha debuttato con Dev D, del 2009, diretto da Anurag Kashyap, che in seguito è diventato suo marito e di cui è stata per anni la musa ispiratrice, co–sceneggiatrice e protagonista di altri suoi film. Kalki è l’esempio vivente della multiculturalità, in quanto è nata e cresciuta in India da genitori francesi, ex hippy trasferitisi a Pondicherry negli anni Settanta. Dopo le scuole è andata a Londra per studiare recitazione e teatro, per poi ritornare in India e lavorare. Kalki è un’attrice di Bollywood, si presta a commedie romantiche, sa ballare, ma è anche un’attrice teatrale e una donna molto impegnata ed è diventata un emblema della violenza sessuale contro le donne. A seguito del grave episodio di violenza sessuale avvenuto a Delhi nel 2012, l’attrice è stata protagonista di un video che ha avuto una diffusione virale sul web e il cui motto era: It’s your fault (“È colpa tua”), una denuncia dell’escalation della violenza sulle donne, ma soprattutto una presa di posizione contro le agghiaccianti affermazioni di alcuni esponenti dell’estrema destra fondamentalista hindu che cercavano di interpretare i fenomeni di violenza come colpa delle ragazze dai comportamenti troppo liberi. D’altra parte Kalki è anche un’icona di stile in India e lo scorso anno ha anche calcato le passerelle di Milano, come testimonial di un famoso marchio italiano di accessori.

Nella foto di copertina: la locandina di Kaaka Muttai, uno dei film indiani più discussi dell’ultima stagione

Il cinema indiano oltre Bollywood Intervista a Italo Spinelli

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Si è parlato poco di India alla sedicesima edizione di Asiatica Film Mediale, che si è tenuta al Maxxi di Roma dal 20 al 28 novembre scorso. La rassegna, curata dal regista Italo Spinelli, ha visto infatti il suo focus sulla Corea del Sud, e quindi ha presentato solo due lungometraggi indiani. Il primo, Fig Fruit and the Wasps, di M. S. Prakash Babu, del 2014, vede Goury, una documentarista, in viaggio, con la sua guida, aspettare in un villaggio del materiale per un documentario sulla musica strumentale: non vedrà arrivare il musicista che avrebbe dovuto fornirglielo, e il film si focalizza tutto su quest’attesa. Il secondo, un documentario del 2015, Life in Metaphors, di O. P. Srivastava, ripercorre la vita e la carriera del regista indiano Girish Kasaravalli, pioniere del Cinema Parallelo, famoso per le sue analisi della cultura e della società locale.

A margine della manifestazione ResetDoc ha intervistato Italo Spinelli su queste due opere e su altri aspetti legati alla società indiana. Il regista, oltre che curatore di Asiatica Film Mediale, è noto anche per aver esplorato nella sua filmografia aspetti della società indiana: in Gangor, suo film del 2010, coproduzione italo – indiana, si parla infatti di un reportage finito male sui gruppi tribali del Bengala occidentale: una foto che ritrae una ragazza, Gangor appunto, a seno nudo, le rovinerà la vita.

Perché quest’anno avete scelto solo due film?
I due film presentati – Fig Fruit and the Wasps e Life in Metaphors – provengono entrambi dal Karnataka e sono in lingua Kannada, erano un modo, un assaggio o un profumo della cinematografia del Sud dell’India.
Fig Fruit and the Wasps è un film pieno di ellissi, circolare, realizzato da un pittore, Prakash Babu, con i suoi silenzi e atmosfere sospese nei suoni.
Il documentario Life in Metaphors è un ritratto del maggior regista di quello stato, con lui è anche giunta la lingua Kannada. Ecco, avrei voluto introdurre di più il cinema del Sud dell’India, mi riprometto di farlo nella prossima edizione. Il nostro progetto futuro è quello di presentare insieme al Karnataka il cinema Tamil e del Kerala.

Come si presenta il cinema indipendente, che a stento arriva tra i NRI (Non Resident Indians)?
La distribuzione del cinema indipendente d’autore del Sud dell’India è molto difficile. Senza lo Star System è complicato raggiungere il grande pubblico legato al cinema popolare commerciale soprattutto hindi.

Alla luce della sua esperienza di regista (mi riferisco a Gangor) cosa ci può dire a proposito dell’attuale società rurale? È così diversa da quella urbana?
La diversità tra la realtà urbana e quella rurale e le diseguaglianze tra le due sembrano essere ancora molto forti. La società rurale conserva i valori identitari spesso patriarcali, impoverita e ghettizzata dalla crescita economica della classe media urbana. L’India è ancora al 70% rurale pur essendo nella globalizzazione uno dei paesi con tasso di sviluppo più alto.

Quanto ha influito la liberalizzazione nel cinema indipendente?
La liberalizzazione negli ultimi vent’anni ha sicuramente aperto degli spazi al cinema indipendente e, più recentemente, con la fruizione dei film dei giovani autori nelle sale multiplex all’interno dei centri commerciali.

Attualmente quanto conta la politica nella produzione cinematografica indiana? E cosa si può dire dell’era Modi?
La politica è presente in tutta la filiera produttiva cinematografica indiana dalla scelta dei contenuti alla vendita e distribuzione del film.
Per quanto riguarda Modi, ex governatore del Gujarat, occorre dire che fu a capo del Pogrom contro i musulmani, e che ora come premier guida l’ideologia nazionalista con caratteri fondamentalisti Hindutva.

Nel 2007 per il Roma Fiction Fest lei è stato responsabile per la fiction asiatica e africana. Da che parte sta andando la fiction indiana? È sempre così, per così dire, depoliticizzata o vede affiorare nuovi temi?
Da molti anni seguo principalmente le news, la letteratura e il cinema e non le fiction provenienti dall’India.

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River to River: l’India va in scena a Firenze

 

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Poco “politico” e molto “sociale” quest’anno, come i matrimoni combinati e la questione femminile. Una rassegna con molti inediti, e che spazia tra film targati Bollywood e film indipendenti, ammesso che si possa fare ancora questa distinzione, come afferma Selvaggia Velo, direttrice del Festival. Last but not least, una presenza d’eccezione, la regista indo-canadese Deepa Mehta, già candidata all’Oscar nel 2007 con Water, storia di una vedova-bambina costretta a vivere in penitenza in un ashram nel 1938, ai tempi dell’ascesa di Gandhi. Stavolta, domenica 6 dicembre, è stata lei a presentare in prima nazionale la sua ultima opera, Beeba Boys, gangster movie su due gang indo-canadesi che si sfidano per la conquista del mercato della droga e delle armi a Vancouver. Queste le novità, oltre a molte altre, della Quindicesima edizione del River to River Florence Indian Film Festival, che si è tenuto dal 5 al 10 dicembre scorso al cinema Odeon di Firenze.

Notevole la prima nazionale di Beeba Boys di Deepa Mehta. “È interessante vedere che è stato girato da una donna” ha spiegato Selvaggia Velo a ResetDoc. “Da donna mi sento di dichiarare che le donne possono fare tutto ciò che desiderano, che piace loro fare, senza farsi intimidire da argomenti o cose che per tradizione non sarebbero, diciamo, di loro competenza”, ha invece affermato Deepa Mehta in conferenza stampa. “La storia si basa sui fatti, su incidenti reali di queste bande di gangster in Canada, ed era importante che gli attori provenissero dalle comunità sud-asiatica e indiana residenti in Canada, per dare un tocco di realtà, perché di questo parla il film”, ha concluso sempre Deepa Mehta.

Per quanto riguarda gli altri film, debutto e chiusura all’insegna della commedia. L’ultima, forse la più disimpegnata, Dil Dhadakne Do, di Zoia Aktar, proiettata l’11 dicembre, parla di due coniugi che, per festeggiare i loro trent’anni di matrimonio, invitano amici e parenti ad una crociera sul Mediterraneo e qui ne succedono delle belle. Invece, sempre con il lieto fine ma con un impegno più indirizzato al sociale, un film di Sharat Katariya, Dum Laga Ke Haisha, che racconta di un matrimonio combinato: due ragazzi di un piccolo villaggio nel nord dell’India e di diversa estrazione sociale (lei è un’insegnante, lui proprietario di un negozio di musicassette), vengono fatti sposare ma il giovane non accetta la sposa dipingendola eloquentemente come “un ippopotamo”: la storia, tra incomprensioni reciproche, avrà però un lieto fine, nonostante a un certo punto si parli anche di divorzio.

La vicenda sembra un po’ mainstream con il suo finale pacificante, ma in proposito, a margine a un incontro con Sabrina Ciolfi, docente di Cultura e Cinema Indiano alla Statale di Milano, il regista Sharat Katariya ha evidenziato: “Per quanto riguarda il lieto fine ritengo che il matrimonio sia fondamentalmente una questione di fortuna, perché si può essere innamorati pazzamente, sposarsi, ma poi veder svanita la passione. In questo film non è che volessi sostenere il matrimonio combinato o prescrivere qualcosa” ha poi concluso Katariya, “ma volevo solo mostrare che la felicità può scaturire quando vi è la volontà di accettarsi reciprocamente. Se poi c’è anche un lieto fine meglio, eppure il mio intento era un altro: il mio film è più un commento sulla storia di una coppia che sul matrimonio in quanto tale”.

E sempre a margine dell’incontro, tenutosi domenica 6 dicembre, ResetDoc ha posto alcune domande a Sabrina Ciolfi. Un problema sul tappeto è la situazione dell’India post-liberalizzazione dal punto di vista sociale e dei matrimoni combinati. “Certamente la liberalizzazione economica in India, ha detto la Ciolfi, ha portato maggiori possibilità di istruzione e di impiego anche per le donne. Ciò nonostante, questo non si è tradotto in una maggiore diffusione dei matrimoni per libera scelta rispetto ai matrimoni combinati che, invece, continuano a essere prevalenti. Per quanto riguarda le richieste di dote, invece, si deve rilevare che sono sempre più esose, soprattutto nell’ambito della classe media urbana. Ricordo che la dote è spesso alla base di drammatici casi di violenze domestiche”.

E in proposito Sabrina Ciolfi è stata ancora più specifica: “In generale l’ammontare della dote va ben oltre le disponibilità dei genitori della ragazza. Le richieste della famiglia dello sposo cominciano in genere dopo i primi incontri e possono continuare anche per anni dopo il matrimonio. In alcuni casi, se gli accordi non vengono rispettati, la giovane sposa subisce maltrattamenti e violenze da parte del marito e della sua famiglia che possono arrivare fino all’omicidio, poi camuffato da suicidio o un incidente domestico in cucina, da cui il termine bride-burning, ovverosia “bruciamento della sposa”, con cui eufemisticamente viene definito il fenomeno. Le femministe indiane – ha proseguito la Ciolfi – hanno registrato negli anni Ottanta un aumento vertiginoso di questi casi, omicidi o tentati omicidi che purtroppo, nella grande maggioranza dei casi, restano impuniti. Da allora il fenomeno si è mantenuto costante, 10.000-15.000 casi l’anno secondo le stime ufficiali, molti di più secondo gli ospedali che ricoverano le vittime e le associazioni che offrono loro assistenza. In ogni caso si tratta certamente di numeri che tendono a non emergere se si pensa che la popolazione indiana supera il miliardo e duecento milioni di persone, eppure sono cifre estremamente indicative della gravità e della diffusione delle violenze domestiche subìte dalle donne in India.

Altro nodo importante riguarda gli effetti dell’era Modi in India, il leader di estrema destra hindu che è diventato Primo Ministro nel 2014. Esiste o no un certo malcontento? “Esiste”, ha affermato la Ciolfi. Ma da parte di tutte le categorie sociali o solo degli intellettuali? “Una buona parte degli strati più bassi della società non sembra particolarmente insoddisfatta, anche se i risultati delle ultime elezioni nello Stato del Bihar dicono il contrario – ha proseguito la Ciolfi –il malcontento viene prevalentemente avvertito dagli intellettuali, che ritengono che questo governo possa costituire una minaccia ad alcune libertà, compresa quella di espressione”.

Ma l’era Modi ha avuto effetti anche sulle donne?Alcuni esponenti del BJP (Bharatiya Janata Party), il partito di destra al potere – ha concluso la docente – in merito ai recenti casi di stupro hanno fatto negli ultimi tempi affermazioni fortemente sessiste nei confronti delle donne, regolarmente riportate dai giornali, che hanno provocato preoccupazione e proteste. D’altra parte si deve rilevare che il governo ha lanciato alcune iniziative, programmi e campagne di sensibilizzazione a favore di queste. In particolare mi riferisco alla campagna che prevede la costruzione di servizi igienici nei villaggi – soprattutto a protezione delle donne, che rischiano di essere aggredite quando sono costrette a uscire di casa di notte – e al nuovo programma contro la piaga dell’infanticidio femminile, lanciato personalmente dallo stesso Modi nel gennaio 2015”.

Poco “politico” dunque al festival, molto “sociale”, e questo vale anche per i corti e i documentari presentati. Tra questi ultimi si possono ricordare Liquid Borders, della regista Barnali Ray Shukla sui confini geografici e politici che delimitano l’India e che sono contrapposti anche a quelli umani e Letters from the City yet to Come di Gorav e Rohan Kalyan girato immediatamente dopo lo stupro mortale di una ragazza avvenuto nel 2012 a Nuova Dehli (su questo tema esiste una quantità enorme di girati, avverte Selvaggia Velo). Infine la docu-fiction Bhopal: a Prayer for Rain di Ravi Kumar che riflette sul disastro ambientale di Bhopal avvenuto in India nel 1984 quando una nube tossica uscì dalla fabbrica di pesticidi della Union Carbide uccidendo migliaia di persone.

Infine, una riflessione sull’India da parte di un grande regista e intellettuale italiano: tra gli eventi speciali, infatti, l’8 dicembre è stato proiettato il documentario Appunti per un film sull’India di Pier Paolo Pasolini che nel 1967 è stato girato per le strade di Bombay, Nuova Dehli e degli Stati dell’Uttar Pradesh e del Rajastan. A seguire, l’incontro con l’attore e scrittore Giuseppe Cederna e lo scrittore e documentarista Folco Terzani che hanno incontrato il pubblico sul tema Viaggi e racconti intorno al pianeta India.

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India, Bollywood oltre Bollywood. Realtà e percezione di un cinema che cambia

 

Da Reset-Dialogues on Civilizations

 

Meno action movies e più commedie romantiche, una commistione tra cinema mainstream e cinema impegnato, una cinematografia che, pur con opere importanti come Haider, ancora stenta ad uscire dal circuito d’essais. Infine, cinematografie regionali sconosciute anche al pubblico indiano ma, in compenso, commedie bollywoodiane, anche satiriche, che fanno riflettere. Sono queste le tendenze della passata stagione cinematografica indiana che ha visto, oltre a grandi titoli premiati anche in Italia, pure una buona qualità media. Reset-DoC parla di questi temi con Mara Matta, docente di Letterature moderne del subcontinente indiano presso l’Istituto di Stuti Orientali (ISO) dell’Università di Roma “La Sapienza”.

 

Com’è stata la stagione cinematografica indiana dell’anno trascorso?

Dal punto di vista di genere una delle più eclettiche degli ultimi anni, perché ci sono stati moltissimi action film, ancora più commedie, che si concludono ovviamente nei cliché bollywodiani, e qualche film sperimentale. Pure il film indipendente è stato piuttosto attivo, anche se non molto visibile per il grande pubblico.

Per quanto riguarda i generi, negli ultimi anni il cinema indiano ha strizzato l’occhio soprattutto alla comunità dei Non Resident Indians (NRI). Si aprono poi delle parentesi interessanti riguardo a film diventati famosi attraverso il pubblico dei festival internazionali e che si spera siano prima o poi distribuiti.

Vi sono stati esordienti?

I film che hanno avuto più riconoscimenti provengono tutti da registi e da produttori con una certa fama. Ci sono anche dei film di budget inferiore in cui ci sono alcuni giovani, ma nell’ultima stagione non ce n’è stato nessuno di particolare rilievo.

Vi sono stati action movie significativi?

Tra gli action movie interessanti si può citare Gunday (Banditi), e questo al di là della sua qualità artistica. E’ infatti un film (diretto da Ali Abbas Zafar) che ha suscitato molte controversie in Bangladesh per il suo contenuto. Esso corrisponde al classico format dei film d’azione, pieno di effetti speciali, di scazzottate e con la protagonista femminile che è una donna sensuale come Priyanka Chopra. Nonostante questo, e pur essendo una storia buonista che parla di due piccoli rifugiati durante la guerra tra Pakistan e Bangladesh del 1971, che poi diventano banditi (di qui il titolo del film), è diventato famoso per il fatto che, secondo i bengalesi, presenta tale guerra in modo scorretto. La vede infatti come una lotta tra India e Pakistan e non come guerra di liberazione dei bengalesi. Per questo motivo il film è stato messo al bando in Bangladesh in quanto considerato politicamente scorretto e questo lo ha reso ancora più famoso, in quanto molte più persone sono andate a vederlo per vedere come mai avesse suscitato così tanto scalpore politico, e poi ha avuto una grandissima diffusione nel black market.

Non va dimenticato che oltre a film più di cassetta e di richiamo come quello citato o come Bang Bang di Siddaharth Anand o Happy New Year di Farah Khan nel cinema mainstream c’è anche molta cinematografia seria con registi quali Anurag Kashyap, autore di Gangs of Wasseypur (2012), che si potrebbe considerare anche questo come un action movie e qualitativamente valido.

Un caso significativo del 2014 è Haider, di Vishal Bhardwaj, rifacimento dell’Amleto di Shakespeare. Il regista, che non è primo a queste operazioni (sono suoi anche Omkara (2006), che si rifà all’Otello, e Maqbool del 2004, che riprende il Macbeth, entrambi presentati al Festival di Cannes), ha ripreso gli scontri indipendentisti del Kashmir del 1995. Come vede questo film, che coniuga tradizione occidentale con temi più propriamente indiani?

L’Amleto di Shakespeare è una sfida imponente. Il regista, che non è nuovo a queste sperimentazioni, ha alzato il tiro ed è stato molto ambizioso. Infatti è stata una bella idea scegliere un argomento così scottante come gli scontri del Kashmir e coniugarla con un dramma shakespeariano per eccellenza come l’Amleto. Da un punto di vista artistico Vishal Bhardwaj è riuscito a fare un’operazione di successo: infatti il premio che ha vinto in Italia è un riconoscimento molto importante. Inoltre è vero che film come Fanaa (Distrutto per amore), del 2006 (regista, Kunal Kohli), che parlano degli scontri per l’indipendentismo del Kashmir, non sono mai stati così sperimentali. Se si pensa invece ad Haider, è difficile capire che posizione il regista stia prendendo, nel senso che per esempio la figura della madre e di Ofelia sono molto ricontestualizzate nell’ambito indiano. E’ molto indiana infatti la figura della madre che alla fine si pente e si immola pur di salvare il figlio. Da questo punto di vista quindi il film molto ben fatto, però l’idea di coniugare la tradizione occidentale a temi indiani mi sembra negli ultimi tempi un po’ una furberia, nulla togliendo però alle competenze artistiche di Vishal Bhardwaj.

Haider, primo tra i film indiani, ha ricevuto il premio del pubblico al Nono Festival del Cinema di Roma (2014), e quindi ha avuto una visibilità anche italiana, ma che si è tradotta in una sporadica distribuzione nelle sale. In che modo andrebbe interpretata questa scelta?

Haider è stato distribuito molto poco, senza che avesse una diffusione al di là dei cinema d’essais o di nicchie artistiche e intellettuali.

Nonostante che la cinematografia asiatica o il cinema mondiale siano sempre più presenti nelle ns sale – basti pensare alla cinematografia cinese o a quella iraniana, ancora quella indiana stenta ad entrare nelle nostre sale. C’è ancora una resistenza alla distribuzione nelle sale di film indiani, perché si pensa che il pubblico italiano non abbia sviluppato un gusto per questa cinematografia, che viene vista solo in chiave bollywoodiana. In effetti è bello che si sia dato spazio anche a una produzione come questa che può sembrare anche un po’ trash ad un pubblico impegnato. Bollywood però mette in ombra anche un altro tipo di cinematografia, che stenta ad emergere perché la gente non vuole vedere film indiani in quanto pensa che ci saranno tre ore di balletti. Si dovrà ancora lavorare molto per restituire l’idea che la cinematografia indiana è molto più complessa, articolata, eclettica.

PK, di Rajkumar Hirani, è un film satirico di fantascienza e racconta di un alieno che viene sulla terra ma che perde il dispositivo senza il quale non potrà più ritornare all’astronave. Durante il suo girovagare la gente gli dice che solo Dio lo potrà aiutare a ritrovarlo, ma l’extraterrestre vede che il concetto di religione non è un fatto socialmente condiviso. Come andrebbero valutati film come questi che sono anche una satira della società indiana dove la religione ha mille facce?

Sono molto interessata all’uso della satira nelle cinematografie, soprattutto per trattare tematiche quasi intoccabili. E’ difficile parlare di temi quali la religione in modo critico e la satira, anziché addolcire la pillola, scatena controversie ancora maggiori. PK, che vuol dire anche “ubriacone” in hindi, è un film con Rajkumar Hirani e Aamir Khan, che sono stati insieme anche nel film 3 Idiots. Già allora avevano usato questo personaggio alla Forrest Gump, un po’ stralunato. Qui Rajkumar Hirani ha rincarato la dose, perché il personaggio di PK, impersonato da Aamir Khan, non solo è un extraterrestre, ma è anche un outsider, un border line, che però dice cose serissime.

Il BJP, partito di estrema destra hindu attualmente al governo, non ha approvato il film e anche i gruppi ultra-fondamentalisti hindu volevano che il film fosse messo al bando e hanno cercato anche di bloccarne la produzione perché considerato blasfemo. Cose simili erano già successe in India per esempio con un film come Tere Bin Laden (2010) di Abhishek Sharma, che prendeva in giro la paranoia del terrorismo. Il titolo del film giocava sulla doppia accezione delle parole hindi tere, che significa “tuo” e bin (“senza”), del termine inglese laden (“fottuto”) e il nome di Bin Laden. Infatti, combinando i significati, veniva fuori il gioco di parole “sono il tuo Bin Laden” oppure “senza di te [sono] fottuto”. La trama del film è molto semplice: un allevatore di polli che assomiglia a Bin Laden viene utilizzato da un giornalista per fare un falso video sul presunto grande terrorista per ottenere un visto per l’America. Su questa storia si è scatenata una controversia pazzesca perché Tere Bin Laden è un film di Bollywood con un regista indiano, il protagonista pakistano (il reporter), Ali Zafar, ed è ambientato in Pakistan con un riferimento molto poco galante alla complicità dei servizi segreti pakistani con la CIA.

Sia Tere Bin Laden che PK sono commediole all’acqua di rose, ed è ridicolo che possano suscitare diatribe così serie, ma Tere Bin Laden è stato messo al bando anche in Medio Oriente, e ciò dimostra che anche in quel caso la satira fa male. Tornando a PK, il film è stato molto strumentalizzato a livello politico perché sia Rajkumar Hirani che Aamir Khan sono stati molto attenti a puntare il dito contro tutti, non verso un’unica religione, ma verso lo spirito religioso credulone dell’indiano medio, facendo così più una critica sociale che religiosa.

In un film mainstream come Queen, di Vikas Bahl, Rani, una ragazza che viene abbandonata dal fidanzato prima delle nozze, va lo stesso a Parigi e ad Amsterdam a fare da sola la luna di miele. Qui incontra degli amici, ritrova se stessa, e quando il suo ex ragazzo la cerca chiedendole perdono e pronto alle nozze, lei risponde di no. Si può dire che pellicole come queste dimostrano che qualcosa sta cambiando anche nei film bollywoodiani e nella morale indiana?

Mi sembra un tentativo un po’ abortito. Infatti la ragazza sicuramente compie una scelta impensabile fino a qualche anno fa, come quella di lasciare il fidanzato, e poi condivide la stanza con tre ragazzi in un ostello di Amsterdam, la città simbolo della depravazione occidentale. Dispiace però la fine del film, in quanto l’amico di stanza russo, con cui la protagonista aveva instaurato un rapporto molto franco, alla fine non diventa il suo ragazzo perché Rani rimane in fondo la brava ragazza indiana. Queen apre comunque una strada, e quindi si può definire un film gradevole, pur non essendo stato pensato per i festival.

Quanto è stato attivo quest’anno il cinema indipendente? Si può parlare ancora di una netta partizione tra questo e i film mainstream? Perché non è disponibile al pubblico occidentale neanche su DVD e quindi anche ai Non Resident Indians?

Perché il cinema indipendente è di nicchia anche in India e questa è una lotta. È molto difficile infatti promuoverlo anche all’interno della stessa India anche perché è in lingue minori, non tra le ventidue lingue ufficiali riconosciute dalla costituzione indiana. Se i film sono in lingue tribali è molto difficile trovare un pubblico pure all’interno della stessa India, anche se ora le cose stano un po’ cambiando. Ha iniziato il regista tamil Mani Ratman, che ha capito che se faceva film solo in questa lingua non avrebbe avuto mercato. Ha quindi girato film due volte, una volta in hindi e una volta in tamil, addirittura con attori diversi. Nonostante tentativi come questi ancora trovare un pubblico per le cinematografie regionali che sono generalmente molto impegnate (trattano per esempio di stupri di donne tribali da parte dell’esercito, di espropriazioni di terre ai contadini, ecc.) è molto difficile. Si tratta di tematiche scottanti che il governo non ama pubblicizzare, che hanno bisogno di un pubblico forse più motivato perché molto spesso si va a vedere un film di Bollywood perché è entertaining e non mostra drammi “duri” da digerire che sono quasi etnografici. È ovvio quindi che DVD di queste pellicole non siano disponibili neanche ad un pubblico indiano e che simili film piacciano solo alle élite intellettuali. Gli stessi occidentali che le studiano non sanno esattamente la consistenza numerica di tali produzioni.

Cosa si può dire della differenza tra cinema hindi indipendente e cinema bollywoodiano? Si può parlare ormai, nel 2015, di una partizione simile?

Da quello che so come organizzatrice di festival – sono membro di Netpac (The Network of the Promotion of Asian Cinema) – esiste una cinematografia indipendente in lingua hindi, però è difficile differenziarla da quella mainstream, perché tutti i cineasti in lingua hindi si trovano a fare i conti con Bollywood. Attualmente, tuttavia, i film studios hanno davanti un pubblico con delle aspettative un po’ più alte, quindi si può affermare che tra cinematografia hindi indipendente e cinematografia bollywoodiana c’è una commistione. Il cinema d’arte come quello di Satyajit Ray oggi non esiste più, ma registi di Bollywood come Nishikant Kamat hanno complessità artistiche e stilistiche da cinema parallelo.

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