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Simone Del Latte: “Gomorra, editing editoriale normotipo”

“Gomorra, editing editoriale normotipo”

Pubblicato per UNICOPLI un testo sulla gestazione in Mondadori del capolavoro di Saviano

Simone Del Latte
Simone Del Latte

Un lavoro in fieri, quello di Simone Del Latte, un approfondimento del terzo capitolo della sua tesi di laurea magistrale in Giornalismo all’Università di Parma. E, tratto portante della sua intuizione, l’indagare sulla genesi editoriale di Gomorra, libro scandagliato dai critici in molti altri aspetti, soprattutto sui rapporti tra il testo e il film, il testo e la serie. Nell’analisi del successo di Gomorra, un confronto tra questa e altri lavori coevi di argomento analogo ma ancora di stampo “tradizionale”, come Sandokan di Nanni Balestrini. Poi, un occhio privilegiato, quello di Del Latte, verso Edoardo Brugnatelli e Helena Janeczek, che hanno “guidato” Saviano dagli articoli di cronaca al suo “quasi romanzo”. Una collana editoriale, la mondadoriana Strade blu, con Brugnatelli, e una rivista letteraria online, Nazione Indiana, con la Janeczek, che tanto hanno contribuito alla nascita del “fenomeno” Saviano. Una lavoro da filologo, alla ricerca di ulteriori fonti in Mondadori, potrebbe essere l’ulteriore passo che potrebbe compiere IL giovane Simone Del Latte, autore di Dalle voci di Scampia al racconto di Saviano, edito nel 2019 per UNICOPLI.

Come nasce l’idea di scrivere un saggio sulla genesi di Gomorra? A quali fonti ha attinto?

Il saggio sulla genesi di Gomorra è frutto di un approfondimento della mia tesi di laurea magistrale, la quale era strutturata in tre capitoli, di cui l’ultimo incentrato proprio sul libro di Saviano. Nell’estate del 2018, mentre ero impegnato nella scrittura del terzo capitolo, mi accorsi che, tra i tanti aspetti letterari di Gomorra messi in luce dai critici, poco era stato detto di come l’opera sia nata. Decisi allora di approfondire di persona questo aspetto e riuscì ad incontrare a Milano Edoardo Brugnatelli, l’editore che decise di credere in Roberto Saviano, in quanto pensavo che nessuno meglio di lui potesse aiutarmi a comprendere la genesi editoriale di Gomorra. Dopo la laurea, per tutta la prima metà del 2019, ho quindi ripreso il terzo capitolo della mia tesi, cercando di scavare ulteriormente, attingendo a più fonti, tra cui anche quella di Helena Janeczek, l’editrice che si è occupata dell’editing letterario del testo di Saviano a pochi mesi dalla sua pubblicazione. Oltre alle testimonianze dirette di Brugnatelli e Janeczek, ai passaggi del libro e agli scritti giovanili di Saviano presenti tutt’ora nel web, le fonti cui ho attinto provengono per lo più da saggi critici scritti da studiosi e ricercatori di Università italiane ma anche straniere.

Nanni Balestrini nel 2004 scrive Sandokan, romanzo ispirato alla figura del camorrista Francesco Schiavone. La fama di quest’opera appare oscurata dal quasi contemporaneo Gomorra, che è del 2006. Quali sono i motivi?

Sono due opere profondamente diverse che condividono la materia del racconto. Sandokan è ancora un’opera novecentesca scritta da una figura di autore vecchio stampo che ha mantenuto un distacco dalle vicende descritte. Gomorra viceversa è un’opera innovativa che accende l’attenzione dei critici sulla nuova produzione narrativa italiana del terzo millennio. A livello stilistico è molto più “al passo coi tempi”, i criminali descritti non appaiono più come figure arcaiche ma possiedono una mentalità aderente alla logica globalizzata del XXI secolo, mentre lo stesso Saviano è molto più vicino, anche materialmente, ai fatti descritti rispetto a Balestrini. E questo ha fatto sì che il giornalista napoletano abbia potuto riversare nella sua creazione più conoscenza della materia ma anche più trasporto emotivo.

In quale misura la scrittura di Saviano sembra rifarsi al New Journalism di Tom Wolfe e Truman Capote?

Nel modo deontologicamente poco ortodosso in cui un giornalista scrive di cronaca. Saviano in Gomorra non è obiettivo, nel senso che non è aderente ai fatti. Al tempo stesso però non possiamo accusarlo di essere stato un affabulatore. Molti tendono a dimenticarsi che Gomorra è un’opera letteraria non un prodotto giornalistico per cui ha delle norme e delle licenze tutte sue, evidentemente diverse da quelle seguite di chi si occupa di cronaca. Proprio come Tom Wolfe e Truman Capote, Saviano rinuncia alla totale imparzialità per perseguire quel fine ultimo che la sua attività passata di reporter non era stata in grado di perseguire, ossia scuotere le coscienze su un problema drammatico e portare il suo racconto presso una platea di pubblico ben più ampia di quella che leggeva i quotidiani locali.

In che modo Saviano è passato dalla magmatica produzione giornalistica degli esordi e una messa in forma nel romanzo?

In questo passaggio si vede il grosso del lavoro fatto in casa editrice. Saviano ha infatti una sua idea di libro che è ben lontana dall’esito assunto poi da Gomorra. Lo stile, ossia l’idea di ibridare fiction e non-fiction attraverso una voce narrante unitaria, è stato perseguito fino in fondo, ed anzi è forse l’aspetto più riconducibile allo scrittore piuttosto che agli editori di Mondadori. La materia del narrato è però figlia di una proposta di Brugnatelli su tutti. Quando Saviano si presenta per la prima volta a Segrate è un fiume in piena che per tutto il giorno non cessa di rendere partecipe Brugnatelli dei fatti della sua terra. Difficile non capirne il perché: siamo nel dicembre del 2004 e il giornalista napoletano aveva alle spalle anni e anni di lavori di inchiesta sulle vicende criminali campane. Essendo i libri dei prodotti anche commerciali, tutta questa mole di vicende andava canalizzata verso una struttura gradevole agli occhi del lettore. Compito questo che solo un editore è in grado di fare; ed è per questo che, una volta che si decise di concedere una chance ad un autore emergente e sconosciuto come Roberto Saviano, fu anche pattuita una forma del libro chiara e coerente.

Qual è la novità principale della collana Strade Blu della Mondadori, e come si incontra con la redazione di Gomorra?

Strade blu nasce molto prima della pubblicazione di Gomorra. Siamo nel 1998, in un periodo di profonde trasformazioni dell’industria editoriale e dell’offerta libraria. Mentre da un lato si accentua sempre più la tendenza verso la coalizzazione dei grandi gruppi, il pubblico medio era sempre più alla ricerca di una produzione narrativa innovativa e svecchiata rispetto ai codici novecenteschi. La collana Stile libero di Einaudi nasce proprio per questo motivo nel 1996 e, su sua imitazione, seguirà l’inaugurazione di Strade blu in Mondadori. E’ stata una raccolta che ha dato spazio a tutta una serie opere non convenzionali, prevalentemente straniere, di esordienti o sconosciuti, segnando una distanza dalla tradizionale proposta della casa madre. Gomorra, o meglio i lavori giovanili di Saviano pubblicati su riviste e blog letterari, avevano il giusto pedigree; chi se ne accorse prima di altri fu Helena Janeczek che all’epoca scriveva proprio come Saviano per il blog Nazione Indiana. Dopo aver conosciuto l’autore ad una riunione dei collaboratori del blog, Helena fornì a Saviano il contatto di Brugnatelli poiché sapeva che l’editore stava in quel momento dando spazio ad una produzione letteraria che potesse accogliere di diritto la vocazione narrativa di Saviano.

Come si profila la figura di Edoardo Brugnatelli come direttore editoriale di Strade Blu? Esistono altri carteggi che ha tenuto con Saviano, oltre a quelli citati nel suo lavoro?

Edoardo Brugnatelli ha impresso a Strade blu un’anima in linea con i suoi gusti di lettura personali. L’editore stesso ama considerarsi un profano di letteratura italiana, interessato piuttosto alla narrativa straniera, alla saggistica, alla produzione degli studi sociali, ai lavori d’indagine sulla stretta attualità e così via. Temi questi che ritroviamo nei libri pubblicati negli anni della sua direzione della raccolta, se pensiamo ad opere come Il mondo che non vogliamo di Ignacio Ramonet o I fantasmi di Portopalo di Giovanni Maria Bellu. La corrispondenza epistolare con Saviano sicuramente non si è fermata alle e-mail riportate nell’apparato iconografico del mio saggio. Io ho trascritto tutte le lettere presenti sul web e rese pubbliche su iniziativa stessa di Brugnatelli perché mi sembrava un’operazione originale che nessun altro studio critico aveva compiuto sinora.

L’editing di Gomorra effettuato da Helena Janeczek fu poco invasivo, come emerge dall’intervista che lei le ha fatto e che posta in appendice al suo libro…

Sì, fu un lavoro che durò appena un mese (gennaio 2006). Se Gomorra fosse stato un libro concepito a tavolino in casa editrice e con fini meramente commerciali, l’intervento dell’editore sarebbe stato molto più invasivo, volto a dare risalto agli aspetti più appetibili al palato del vasto pubblico. Siccome per Gomorra le premesse non erano queste, l’editing di Helena Janeczek si limitò a sfrondare e a sfoltire l’autografo di Saviano, affinché potesse calare il prezzo di copertina (stabilito anche in base al numero di pagine) ma anche affinché il testo appaia più veloce e godibile agli occhi dei lettori. Helena lo ha definito un editing “normale”, “normotipo”, che poco o nulla ha alternato alla scrittura dell’autore se non la ripetizione eccessiva. Anzi era proprio intenzione dell’editrice quella di preservare la voce dell’autore, comprese le esuberanze provenienti dal suo essere giovane ed emergente. Penso che a ragion veduta Helena abbia fatto la scelta giusta e soprattutto rispettosa nei confronti di uno scrittore dotato di un’evidente carica passionale ed emotiva come Saviano.

Se dovesse proseguire la sua analisi sul testo Gomorra e sulla sua genesi, come procederebbe?

Mi piacerebbe poter consultare di persona in Mondadori, qualora ci fossero ancora, le bozze del testo di Gomorra prima dell’impaginazione, confrontarmi maggiormente con Brugnatelli e Janeczek sulle varie fasi operative che hanno coinvolto entrambi, scoprire se qualcun’altra figura di editore ha giocato un ruolo attivo nella valorizzazione della creazione dell’opera e soprattutto poter intervistare con Roberto Saviano.

 

MARIA GRAZIA FALA’

Stefano Calabrese: “Giulio Regeni, storytelling tutto orientale”

“Giulio Regeni, storytelling tutto orientale”

Per Meltemi un libro sulla narrativa araba, fonte anche di questa storia plasmata dall’intelligence

Stefano Calabrese

Uno storytelling, quello islamico, tendente, come tutti quelli orientali ed il fandom moderno, ad un approccio verso il “noi” più che verso l’”io”, tratto tipico delle narrazioni occidentali.

Una narrative, quella relativa a Giulio Regeni, orchestrata senza dubbio dai servizi segreti ma, nel produrre questo voluto disorientamento, fortemente improntata a storie parallele, diaspora degli spazi, segmentazione della temporalità, tutti aspetti della letteratura araba.

Letteratura araba per bambini e analisi di conversazioni adolescenti – genitori di immigrati arabi come prima chiave per capire le origini di un narrare diverso dal nostro, anche in contesti “ibridi” come quello dell’immigrazione. Narrare che fa del messaggio un semplice strumento “schiacciato” tra emittente e destinatario, e dove quest’ultimo ha un ruolo preponderante, mentre l’emittente si trova sempre in posizione di svantaggio.

Infine, una molteplicità di personaggi, di storie sequenziali che li riguardano, il tutto ambientato in unità spaziali limitate: questo il tratto paradigmatico di una tradizione letteraria, quella araba, che contiene questo filo rosso da Le mille e una notte al recente Palazzo Yacoubian dello scrittore egiziano ‘Ala al-Aswani.

Questi, in sintesi, gli aspetti più importanti contenuti in Gli arabi e lo storytelling arabo. Dalle origini a Giulio Regeni, libro scritto di recente per Meltemi da Stefano Calabrese, docente di Comunicazione narrativa nell’Università di Modena e Reggio Emilia.

In Che cos’è una fanfiction, edito da lei e Valentina Conti sempre quest’anno, lei parlava dei contenuti del fandom come più coinvolgenti a livello sociale, come appunto di solito è la narrativa orientale, rispetto a quella occidentale, più orientata verso l’individualismo. Ora lei ritorna a studiare lo storytelling arabo, appunto, orientale. Un approfondimento di temi già trattati?

Considerando l’opposizione dello storytelling individualistico e analitico dell’Occidente, e lo storytelling interpersonale e olistico dell’Estremo Oriente, quello dei Paesi di lingua e cultura araba risulta senza dubbio più prossimo al secondo, ma con una differenza.

Ebbene, è vero che l’intera civiltà islamica induce a consolidare la primazia della collettività rispetto al singolo individuo, però mentre in Estremo Oriente si convalida un’idea di macrocollettività, nei Paesi arabi hanno un ruolo preponderante gli aggregati tribali di medio-piccole dimensioni, oppure piccole isole di interpersonalismo quali le famiglie. Quest’ultimo aspetto si traspone anche a livello diegetico, con caratteristiche differenti rispetto a quelle preponderanti nel format narrativo diffuso in Estremo Oriente.

La narrazione relativa a Giulio Regeni si presenta come una vicenda di “intelligence come fabbrica delle storie, poiché i servizi segreti hanno sempre svolto mansioni assai simili a quelle dei narratori”, come lei ha detto. In che senso si potrebbe affermare ciò, e in che modo tale storia assume i tratti di una narrative orientale?

Con i suoi labirintici entrelacements, la segmentazione della temporalità e la diaspora degli spazi, l’ossessiva tendenza a strumentalizzare le narratives – facendone uno strumento di vita o di morte, uno strumento di coding o più semplicemente un luogo di ebollizione del mendacio –, la tradizione narrativa araba ha favorito sia l’ottimizzazione del mind reading nelle popolazioni arabe, documentata da molteplici studi di psicologia sociale, sia la nascita di sistemi di intelligence iperattivi e interstiziali. Ogni evidenza induce purtroppo a pensare che Giulio Regeni sia rimasto vittima di un disegno politico alimentato e gestito dai servizi segreti militari egiziani, ma è un fatto che il disorientamento indotto da tali servizi prima e dopo la sua morte sia il lontano discendente di uno storytelling plurisecolare. In altri termini, sembrerebbe che il contratto narrativo che contraddistingue l’Islam – il racconto come utensile per ottenere qualcosa – continui a essere siglato dai contraenti arabi.

Perché, per capire lo storytelling di un popolo, occorre partire dalla letteratura per l’infanzia?

Perché è all’interno del “micro” contesto della letteratura per l’infanzia – così come accade in quello della narrazione familiare – che emergono in modo “semplificato” e al tempo stesso esemplificativo i valori e l’idea del Sé e del mondo diffusi nel macro contesto culturale. Pertanto, uno dei modi migliori per valutare i trend morfologici e le tradizioni tematiche di una tradizione letteraria è senza dubbio partire dal basso, dalla letteratura per l’infanzia, un territorio in cui le semplificazioni indotte dal target fanno emergere forme, topoi, generi e convenzioni narrative con una evidenza preclusa alla letteratura per adulti. In pratica, già nel momento in cui un bambino entra in contatto con la parola scritta la sua attenzione viene indirizzata a una specifica Weltanschauung, culturalmente determinata.

Quanto si comprende, della cultura di una società, dall’interazione adolescente – genitore, e come si struttura questa in contesti “ibridi”, come quelli di una comunità araba immigrata?

Dagli studi che negli ultimi decenni si sono focalizzati sul modo in cui le storie emergono nelle conversazioni quotidiane emerge come queste small stories sembrino essere il luogo “ideale” in cui le identità vengono continuamente esercitate e testate, emergendo attraverso l’assiduità di parole, temi, eventi, protagonisti, personaggi chiave, plot, sub-plot, dell’uso documentato dell’Io nel corso di ogni narrazione e della relazione attraverso cui i temi sono stati presentati, perché anche questo dato aiuta a comprendere il rapporto sussistente tra il narratore e il destinatario.

Lo stesso accade in contesti “ibridi”: i processi migratori contribuiscono a un continuo interscambio tra presente e passato, tra Paese originario e Paese ospitante, tra le condizioni socio-culturali e morali precedenti e quelle attuali, per cui l’analisi di conversazioni genitori-adolescenti appartenenti a una comunità araba immigrata mette in luce che le storie degli adolescenti incorporano una poliedricità di “voci” connesse da un lato alla cultura ospitante, dall’altro lato alla cultura d’origine che permane all’interno del nucleo familiare.

Emittente – messaggio – destinatario: in che modo si delinea, nello storytelling arabo, questo asse semiotico elementare, che nella letteratura occidentale appare piuttosto equilibrato?

Nella tradizione dello storytelling arabo, l’asse semiotico emittente – messaggio – destinatario viene per così dire riformattato, dove la componente del messaggio si prefigura solo da trampolino di lancio per le altre due: il destinatario assume una posizione centrale e preponderante, costituendo altresì il tema veicolato dal messaggio, mentre l’emittente delle storie si trova sempre in una situazione di svantaggio o addirittura in pericolo di vita. Gli argomenti identificati come ostici o perniciosi per il destinatario vengono omessi o rimodulati dall’emittente, come accade ad esempio in Le mille e una notte, Kalila e Dimna, o Il figlio vivente del vigilante di Ibn Tufayl, solo per citarne alcuni.

Le mille e una notte sono paradigmatiche di una tradizione letteraria che fa dell’entrelacement il suo tratto portante. È così anche nella letteratura araba contemporanea?

Assolutamente sì. Sono particolarmente emblematici alcuni romanzi dello scrittore egiziano ‘Ala al-Aswani. Basti pensare a Palazzo Yacoubian in cui tutto è raccontato in un regime narrativo di entrelacement, caratterizzato da una molteplicità di personaggi, storie sequenziali riguardanti questi ultimi, un’unità spaziale limitata e storie che nascono e si alimentino per contagio, seguendo “logica metonimica”.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

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Stefano Calabrese

Massimo Scaglioni: “Aldo Grasso, appassionato dissodatore”

“Aldo Grasso, appassionato dissodatore”

A cura di Massimo Scaglioni una miscellanea per i settant’anni del Maestro

Massimo Scaglioni

Aldo Grasso come “appassionato dissodatore” di un “paesaggio selvatico e disordinato”, gli studi televisivi. Poi, analogie, oltre che differenze, tra lui e Umberto Eco, di quindici anni più anziano, con gli studi di semiotica del cinema alla Cattolica di Milano, dove si è formato Grasso, che hanno fatto, per così dire, da trait d’union. Inoltre, quello di Aldo Grasso, un approccio alla televisione che si allontana da una visione ideologizzata del mezzo, e con un interesse, invece, verso la storia culturale della TV. Infine, le due storie della TV, scritte da Franco Monteleone e da Aldo Grasso nel 1992, come precorritrici, anche se si sono dovute basare, data la mancanza di fonti primarie, gli archivi audiovisivi appunto, solo di fonti secondarie, come i paratesti.

Queste, in sintesi, le osservazioni fatte da Massimo Scaglioni, docente di Storia dei media alla Cattolica di Milano, in margine a un libro da lui curato in onore dei settant’anni di Aldo Grasso, già accademico, sempre alla Cattolica, e tuttora critico televisivo per Il Corriere della Sera. Il testo si intitola Appassionati dissodatori, ed è una miscellanea di saggi editi di recente da Vita e Pensiero.

Aldo Grasso “appassionato dissodatore” degli studi televisivi. Ci potrebbe spiegare questa metafora, coniata da Grasso stesso?

Si tratta di una metafora agraria, un’immagine utilizzata da Aldo Grasso nel volume “Storie e culture della televisione italiana” (edito, qualche anno fa, da Mondadori). Descrive chi si trovava, nel corso degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, ad affrontare la televisione come oggetto di studio, soprattutto dal punto di vista storico: di fronte a lui “un paesaggio selvatico e disordinato”, un campo di studi tutto da coltivare. Bisogna considerare che gli studi sui media, e in particolare sul cinema, erano appena entrati, molto timidamente in Università, e che la televisione non era considerata quasi per nulla un possibile oggetto di studio (ovviamente con alcune eccezioni). E occorre anche aggiungere che, allora, non esistevano gli “archivi televisivi”, ma bisognava lavorare in parte sui “paratesti” (come le pagine del Radiocorriere), in parte attraverso l’approccio di storia orale (soprattutto grazie i primi dirigenti della RAI). Insomma, davvero un terreno su cui si è esercitata l’opera di alcuni “pionieri”, fra i quali, Aldo Grasso.

Aldo Grasso è uno storico culturale della televisione, che inizia la sua attività negli anni Settanta, quando ci si trovava di fronte a un campo finora inesplorato. Ancora prima, già agli albori del mezzo, Umberto Eco iniziava la sua stesura di saggi su questo medium, saggi comparsi “in ordine sparso”, mai in forma organica. Qual è la differenza tra questi due studiosi?

Intanto Umberto Eco è nato sedici anni prima di Grasso, e si è mosso già dagli anni Cinquanta fra l’Accademia (entra in Università nel 1961) e l’attività di intellettuale che si confronta con la cultura popolare (è fra i “corsari” che entrano in RAI già nei primissimi anni di vita del mezzo). Detto questo, più che le differenze potrei menzionare i terreni in comune. Eco è uno dei padri della semiotica, che trova in Università Cattolica un terreno di sviluppo grazie a Gianfranco Bettetini, e alla semiotica degli audiovisivi e del cinema. Aldo Grasso si forma proprio in Cattolica, negli anni Settanta. Credo che, pur non apprezzando la semiotica, Grasso abbia maturato in quegli anni l’attenzione nei confronti del “testo”, ovvero dell’analisi “ravvicinata” dei programmi e dei loro meccanismi comunicativi.

La TV delle origini è stata fortemente bistrattata, soprattutto da parte degli intellettuali di sinistra, che la vedevano in maniera apocalittica. Come si pone invece Aldo Grasso, che opera con tre strumenti: i testi audiovisivi, i paratesti (v. gli articoli del Radiocorriere), i saggi degli studiosi coevi?

L’apporto più rilevante del gruppo della Cattolica cui fa parte Grasso è un approccio alla televisione che si allontana dall’ideologia. All’epoca imperava, soprattutto fra gli ambienti intellettuali, una repulsione nei confronti della televisione, a cui si preferiva il cinema. La televisione era considerata rozza e banale nel migliore dei casi, al servizio del potere nel peggiore. Ma in realtà, anche chi pretendeva di occuparsi di televisione, lo faceva in modo molto superficiale. Con Aldo Grasso e la “Scuola di Milano” nasce un interesse per la storia culturale della TV, che mette al centro i programmi più che le dinamiche di potere. Nel frattempo anche altre “Scuole” stavano nascendo, ma l’approccio storico e l’attenzione ai programmi è ciò che caratterizza l’ambiente della Cattolica di Milano.

Storia politica, culturale e storia dei media: sono questi i tre filoni di indagine finora battuti. Accanto a questi si potrebbero aggiungere una storia delle audience, una storica e produttiva, e infine una tecnologica. Ci ne potrebbe parlare?

La storia della televisione non è “unica”, poiché la televisione è un medium tanto complesso, tanto centrale nella vita della seconda metà del Novecento. Ci sono “storie” della televisione che hanno battuto soprattutto la strada politico-istituzionale. Ci sono state storie più orientate a una dimensione culturale. Ma, ancora oggi, restano un po’ in ombra altri aspetti: una storia orientata a ricostruire gli aspetti più propriamente tecnologico-produttivi (in Gran Bretagna ha fatto un gran lavoro in questo senso John Ellis), o una vera e propria “storia sociale” dei consumi. Sono terreni ancora da esplorare. Pur sapendo che poi è necessario “riannodare” i fili, per quanto possibile, perché la storia vorrebbe sempre offrirci un quadro “di sistema”, una prospettiva “olistica”, per così dire.

Lei ha definito gli archivi audiovisivi come “isole della memoria in un oceano di oblio,” accessibili allo studioso solo in modo sistematico dalla seconda metà degli anni Novanta in poi. In questo senso i libri di Franco Monteleone (Storia della radio e della televisione in Italia), del 1992, e di Aldo Grasso, che ha scritto Storia della televisione italiana nel 1992, basati su fonti secondarie, potrebbero definirsi “un primo approccio” alla storia del medium?

I due testi citati rappresentano degli sforzi straordinari, considerate tutte le difficoltà ad affrontare, in quei tempi, una storia della televisione, e di cui abbiamo parlato. Oggi, in realtà, le cose sono più facili, perché abbiamo molto materiale digitalizzato (non solo la “messa in onda”, ma anche paratesti e altri materiali). Eppure alla televisione si dedica a mio parere ancora troppo poco spazio, nell’ambito degli studi sui media.

MARIA GRAZIA FALÀ

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Massimo Scaglioni

Stefano Calabrese e Valentina Conti: “Fandom, più donne, meno Occidente”

“Fandom, più donne, meno Occidente”

Per Carocci un libro di Stefano Calabrese e Valentina Conti

Stefano Calabrese

Fandom come creazione di comunità di appassionati che, partendo dall’amore verso un prodotto artistico, creano universi alternativi rispetto all’opera originale. Fandom molto cambiate dopo la grande diffusione del web, che ha “sdoganato” la fanfiction dalle semplici fanzines (o zines), cartacee, creando webzines capaci di raggiungere una comunità molto più vasta e di generare un numero molto più ampio di prosumers. Critica accademica che si è mossa, nei confronti del fandom, attraverso tre ondate successive, vedendo il fenomeno in misura sempre più positiva. Fandom accostato a concetti chiave quali prosumer, crossmedialità e transmedia storytelling. Poi, progressiva femminilizzazione dei contenuti della fanfiction dovuta, oltre che alla emancipazione della donna, alla progressiva messa in rilievo di temi prima emarginati dalla produzione artistica mainstream, e ai differenti stili di worldmaking tra uomini e donne. Inoltre, una “orientalizzazione” dei contenuti delle fanfiction, tese più a creare relazioni tra i personaggi che rapporti tra gli eventi, come appunto fa la narrativa occidentale. Infine, Harry Potter, il caso più esteso di fandom, Cinquanta sfumature di grigio, bestseller nato in origine come una fanfiction, SuperWhoLock, modello di crossover creato dai fan di tre serie televisive.

Sono questi, in sintesi, i temi trattati in una chiacchierata con Stefano Calabrese, docente di Comunicazione narrativa all’Università di Modena e Reggio Emilia, e Valentina Conte, dottore di ricerca in Narratologia, sempre nello stesso ateneo, a proposito del loro Che cos’è una fanfiction, edito di recente da Carocci.

Cosa si intende per fandom, e quanto è cambiata la sua accezione dopo la diffusione massiccia del web, avvenuta negli anni Novanta?

Il termine fandom fa riferimento a quegli appassionati che, spinti dall’amore intenso verso un determinato prodotto artistico, si organizzano in comunità, creando universi alternativi rispetto all’opera originale, senza tuttavia violarne i confini generali. Una prima divisione tra i possibili oggetti di fandom è quella fra elementi attuali, esistenti nella realtà, e virtuali, che si presentano ai nostri sensi solo in forma mediata e finzionale. Storicamente, la prima fandom si costituì intorno alla metà del diciannovesimo secolo intorno alla figura di Jane Austen e ai suoi romanzi anche se in questo periodo ha origine il movimento organizzato di appassionati del detective Sherlock Holmes: gli Sherlockians (o gli Holmesians), che nel 1934 hanno istituito la prima società fandom con un codice formale e uno statuto che ne regolava le attività, Baker Street Irregulars.

Tuttavia sono le fandom irlandesi sorte tra gli anni Cinquanta e Sessanta per celebrare le storie visionarie della science fiction, in cui nondimeno gran parte dell’attenzione è rivolta all’attività della fandom stessa, che generano le prime narrazioni originali scritte da dilettanti quasi sempre di sesso maschile e pubblicate in fanzines (o zines). Tutto cambia radicalmente con la fandom di Star Trek, il serial TV ideato da Gene Roddenberry nel 1966. Grazie all’attività dei Trekkers le zines cominciano a pubblicare storie amatoriali imperniate su un universo narrativo già esistente, ossia fanfiction in senso proprio, e inoltre si creano le prime, fervide sovrapposizioni di mondi narrativi.

Un ulteriore cambiamento si ha nella seconda metà degli anni Novanta, con la diffusione del web che ha contribuito notevolmente allo sviluppo delle fandom, permettendo sia di raggiungere un numero maggiore di fan contemporaneamente rispetto alla carta stampata, sia di rendere più eterogenei i fanwriters e fornendo innumerevoli opportunità tecniche per creare comunità virtuali di appassionati tramite strumenti come i newsgroup, le mailing list, i forum e le webzines. Ciò ha determinato da un lato una maggiore balcanizzazione delle riscritture, indotte a specializzarsi per aree tematiche o mediali (fandom legate a film, manga, anime, cartoni animati, sostanzialmente disgiunte da quelle orientate al culto della science fiction), e dall’altro la formazione di megafandom come quelle nate all’ombra di Harry Potter e Twilight, ossia franchise di romanzi e film in grado di innescare fenomeni di massa a livello planetario.

Come si è comportata la critica accademica nei confronti di questo fenomeno?

I fan studies sono un campo di ricerca scientifica rivolta alla cultura e alle attività dei fan come singoli individui o in quanto comunità di appassionati. Una distinzione fondamentale che riguarda questo ambito è quella tra gli studi antecedenti e quelli successivi all’era digitale che in una certa misura ricalca anche un diverso atteggiamento degli accademici verso il loro oggetto di studio. A questo proposito è possibile individuare tre diverse “ondate” (waves) di indagini critiche, che forniscono un’idea più chiara di come sia cambiato l’atteggiamento del mondo accademico verso la screditata suburra dei fan.

(i) La deviation wave comprende indicativamente gli studi portati a termine tra gli anni Trenta e l’inizio degli anni Novanta. Questa fase è caratterizzata da un limitato interesse dei ricercatori per i fan, i quali vengono presentati perlopiù come individui alienati che l’industria dell’entertainment di massa manipola con la certezza di fidelizzarli.

(ii) La resistance wave si manifesta a partire dal 1992, quando vengono pubblicati tre testi considerati fondativi per le ricerche sui fans in generale e sulle fanfiction: Textual Poachers di Henry Jenkins; Enterprising Women di Camille Bacon-Smith e Feminism, Psychoanalysis, and the Study of Popular Culture di Constance Penley. Questi studiosi si oppongono strenuamente a quelli della prima “ondata”, cercando di mettere in luce le qualità e la creatività dei testi dei fans, in grado di resistere, combattere o se non altro avviare un negoziato con la cultura pop.

(iii) Infine, la mainstream wave che inizia nel 2006, anno di pubblicazione di Convergence Culture di Henry Jenkins e di Fan Fiction and Fan Communities Age of the Internet di Karen Hellekson e Kristina Busse, è caratterizzata da studi interessati alle motivazioni individuali dei fan e alle loro risonanze emozionali, ma che si concentrano altresì sulle eterogenee attività delle fandom.

Il fandom si associa a concetti chiave quali prosumer, crossmedialità, transmedia storytelling…

La transmedialità implica un movimento attraverso i media in rapporto diretto con nuovo tipo di soggettività postmoderna che predilige la mobilità piuttosto che la stabilità, e di cui le creazioni grassroot ‒ letteralmente “dal basso”, ossia le attività di utenti o comunità di fruitori per fini artistici, comunicativi, espressivi ‒ sono particolarmente emblematiche.

Dunque il cosiddetto transmedia storytelling costituisce una forma narrativa che perfeziona e integra l’esperienza dell’utente con nuove e distinte informazioni, nel caso delle fanfiction la questione si complica ulteriormente: il mercato dei media sta diventando infatti sempre più transmediato proprio perché i fans possono seguire più percorsi attraverso un universo multimediale. In altri termini: per avere un vero e proprio pro-sumer ‒ ossia il consumer che entra attivamente nel processo del producer reclamando un ruolo di coautore ‒ si deve attendere la nascita della fandom dedicata a Harry Potter, in cui i fan diventano incapaci di distinguere il proprio spazio (reale) di lettori da quello (finzionale) della storia che stanno leggendo.

Ebbene, sarebbe proprio questa fandom a inverare il concetto jenkinsiano di cultura “convergente” e a produrre fenomenologie del tutto nuove di fanatismo.

Perché si è assistito a una femmnilizzazione delle comunità fannish?

Innanzitutto va considerato che nella seconda metà del XX secolo l’evoluzione tecnologica, la propulsione alle comunicazioni e dunque all’empatia dei destinatari per gli emittenti, la rivoluzione sessuale, il movimento di emancipazione femminile hanno creato le condizioni per la nascita di fan donne, tanto che verso la fine degli anni Sessanta la fandom di Star Trek era composta per lo più da autrici femminili.

Una seconda ragione del predominio del gender femminile tra i fanfictioners è costituita dalla secolare marginalizzazione dei temi cari a un pubblico femminile dal materiale-sorgente: Jennifer Barnes ipotizza che le fanfiction costituiscano uno strumento attraverso cui gli utenti di sesso femminile si approprino di media originariamente destinati a un pubblico maschile. L’emergere delle fandom online rappresenta plausibilmente un territorio di valorizzazione della creatività per molte aspiranti scrittrici femminili, in passato ostacolate nel mondo della narrativa mainstream o in quella d’autore, e adesso favorite altresì dalla garanzia dell’anonimato.

Non solo, alle spiegazioni sociologiche sembrerebbe affiancarsi una terza, di tipo bio-culturalista, in base a cui il motivo della prevalenza femminile nelle fandom sarebbe custodito nei differenti stili di worldmaking attribuibili alle donne e agli uomini. Sebbene non esista un unico fattore responsabile della disparità di genere nello scrivere storie partendo da universi narrativi preesistenti, stando a queste ultime indagini si potrebbe ipotizzare che il pubblico femminile scriva fanfiction proprio per il “bisogno” di ampliare e movimentare il set narrativo di un racconto che poco soddisfa le sue esigenze, muovendo dalla trasformazione identitaria di un personaggio o dalla creazione di relazioni tra personaggi non contemplate dalla cultura mainstream.

Il fenomeno del fandom sembra volto a un superamento del dualismo tra cultura e letteratura occidentale, tesa verso l’individualismo, e quella orientale, più coinvolgente a livello sociale. Inoltre il fandom, in generale, appare orientato a favore di una “orientalizzazione” dei contenuti…

La modalità di produzione e pubblicazione delle fanfiction all’interno del cyberspazio e la natura “convergente” delle comunità fandom entro cui vengono create renderebbero questo fenomeno culturale l’ambiente ideale per la costituzione di una identità ibrida, che collettivizza la creatività e apre nuovi orizzonti a livello di formattazione del racconto.

Di conseguenza, l’antagonismo narrativo dei suddetti macro-contesti culturali non sembra avere riscontro nelle fanfiction, innanzitutto perché come membri di una community, i fanwriters sono squisitamente in sintonia con le norme comportamentali e affettive stabilite dal gruppo. In breve: è quest’ultimo che decide o perlomeno deve dare il proprio consenso sulle linee tendenziali del plot e nel modo in cui i conflitti sono presentati, sviluppati e risolti e, di conseguenza, sul modo in cui vengono esibiti le caratteristiche e i ruoli dei personaggi. In breve: un autore di fanfiction traspone a livello diegetico la sua interdipendenza rispetto agli altri, per cui scrivere un racconto significa riflettere adeguatamente i desideri e le aspettative reali dei lettori.

In secondo luogo, dall’analisi a campione di diverse fanfiction emergere il profilarsi di un nuovo format caratterizzato sia da sequenze narrative che prediligono le relazioni tra gli agenti più che i rapporti tra eventi, con la conseguenza che il più delle volte protagonista risulta l’interiorità dei personaggi. Nondimeno nelle fanfiction sembra del tutto assente l’elemento narrativo per eccellenza occidentale del conflitto, che comporta ostatoli da superare, e un epilogo con un esito definito/definitivo, ma piuttosto la trama è preferibilmente impostata sul mostrare un possibile scenario che viene ‘proposto’ ai lettori, senza però delinearlo.

Assistiamo così all’eclissi dello stile narrativo occidentale “agentivo”, che implica una certa indipendenza personale in base a cui un personaggio sceglie il proprio obiettivo, elabora un piano per raggiungerlo e agisce per cambiare l’ambiente secondo tale piano. Similmente a quello orientale, lo stile delle fanfiction diventa armonioso e adeguato rispetto alle fandom, che rifiuta l’idea che un personaggio possa manipolare l’ambiente senza il suo consenso.

Ci potreste parlare del caso più eclatante di fandom, e cioè di quello legato alla saga di Harry Potter?

La comunità dei fans di Harry Potter è probabilmente la più estesa e devota in assoluto, al punto da potersi definire una megafandom. Essa può essere suddivisa nelle due aree principali dei fans dei libri e dei fans dei film, in entrambi i casi all’origine di centinaia di siti dedicati a tutto ciò che riguarda il mondo di Harry Potter, come MuggleNet.com, VeritaSerum.com, HPANA (l’aggregatore automatico di notizie su Harry Potter) o The Leaky Cauldron, un fansite dedicato a Harry Potter che contiene notizie, gallerie di immagini, video, widget scaricabili, una chat room, forum di discussione e dal 2005 anche un podcast ufficiale chiamato PotterCast. Un recente sviluppo di questa fandom è il Wizard Rock (talvolta abbreviato in wrock), un movimento musicale di cui fanno parte circa 750 gruppi per lo più composti da adolescenti, nato all’inizio del terzo millennio in Massachusetts grazie agli Harry and the Potters, e sviluppatosi in seguito a livello internazionale. Attualmente, in base ad alcune stime, sul web esisterebbero milioni di pagine su Harry Potter create dai fans in diverse lingue, dove circolano centinaia di migliaia di racconti che parlano di Harry Potter e della sua vita all’interno e al di fuori del plot ideato da J.K. Rowling. Ebbene, è questa fandom a inverare il concetto jenkinsiano di cultura “convergente” e a produrre fenomenologie del tutto nuove di fanatismo.

Cosa si potrebbe dire di Cinquanta sfumature di grigio, di E. L. James, che nasce come una fanfiction e che a sua volta genera fanfics?

Cinquanta sfumature di grigio di E. L. James rappresenterebbe un caso particolarmente emblematico di blended tra il mondo dell’editoria futura (autorialità perfusa, fruizione open source, serializzazione in direzione di forme immersive e Realtà Aumentata) e quello dell’editoria tradizionale. Basti pensare che questo romanzo tra il giugno 2012 e il giugno 2013 vende più di 70 milioni di copie, posizionandosi al primo posto (95 milioni di dollari) tra gli scrittori che hanno guadagnato di più nel 2012-2013. Non solo: se nel Regno Unito il libro è diventato “il più venduto di tutti i tempi”, la trilogia ha fatto volare i profitti della compagnia tedesca Bertelsmann, perché la sua divisione libraria (la Random House) ha segnato un risultato record nel 2012 grazie ai 70 milioni di copie vendute, fra quelle cartacee, audio e e-book, che hanno reso la trilogia Cinquanta sfumature il maggior successo di sempre del gruppo.

Eppure il romanzo nasce nel 2010 come spin off di Twilight e la James lo intitola Master of the Universe: questa fanfictioner destinata a diventare la scrittrice più letta del 2012 riprende infatti i personaggi principali della serie di Twilight, Bella Swan e Edward Cullen, e utilizza luoghi e relazioni del romanzo di Stephenie Meyer costruendovi intorno una storia nuova, modificando alcuni dettagli, omettendo vampiri e licantropi e aggiungendo una varietà di scene di natura esplicitamente sessuale. A parte le analogie con Twilight, di cui Master of the Universe è una fanfiction, va detto che Cinquanta sfumature di grigio è quasi identico alla fanfiction che l’ha preceduto, apparsa su www.fanfiction.net nel dicembre 2010.

Non per caso infatti, la James ha rimosso tutte le idee o i possibili rimandi a Twilight dal suo best seller mondiale Cinquanta sfumature di grigio, né deve stupire che la fanfiction Master of the Universe sia stata cancellata da Fanfiction.net una volta apparso il romanzo cartaceo. Ma è da notare il sottile paradosso: per diventare un’opera legittima e legale, un blockbuster a tutti gli effetti, il romanzo Cinquanta sfumature di grigio si è dovuto trasformare in un’opera originale che a sua volta ha generato altre fanfiction (nel solo dicembre 2017 su Efpfanfic.net le storie ispirate alla trilogia della James sono 312, su Archive of Our Own 224 e su Fanfiction.net occupano 3.5K del sito).

Studiando le ricadute del successo di Cinquanta sfumature di grigio tra i fan fictioners, alcuni ricercatori ipotizzano che le nuove fasce di pubblico e gli editori non guardino più alle fanfiction semplicemente come a manipolazioni vicarie o degradate del testo originale, bensì come a opere autonome: i neolettori sarebbero oggi maggiormente disposti ad accettare nuovi personaggi e situazioni “trasformate”, determinando uno spostamento della collocazione delle fanfiction nella filiera creativa.

Un modello, come appunto intitolate un vostro paragrafo, di crossover: SuperWhoLock…

SuperWhoLock è un crossover creato dai fan di tre serie televisive, ossia Supernatural, Doctor Who e Sherlock, emblematico delle capacità creative e del lavoro digitale attualmente svolto dei fan. Tradizionalmente, in narratologia il crossover si configura come un processo di ‘attraversamento’, un collegamento che nel marketing editoriale si declina in senso intersemiotico, transterritoriale e insieme multigenerazionale; ma come appare evidente, l’ambiente digitale facilita una maggiore varietà di attività dei fan e promuove uno spazio per la realizzazione di testi crossover come SuperWhoLock, in cui la fandom stessa diventa un luogo intra-transmediale (intra-transmedia), nel senso che le caratteristiche transmediali non sono riferite a ogni singolo testo, ma vengono combinate dai fan per creare un’opera “nuova”.

In realtà, SuperWhoLock non è un opera transmediata ma ha caratteristiche intra-transmediali in quanto: (a) i tre testi separati che la costituiscono sono combinati in un unico canale mediatico; (b) non c’è una e una sola sorgente autorevole con cui i fans possano confrontare la loro creazione; (c) non esiste alcun canone cui i fans possano portare rispetto per operare i collegamenti transmediali; (d) ogni singolo testo può apparire transmediato attraverso la potenza combinatoria delle opere crossover all’interno di esso.

Dunque, SuperWhoLock ci mostra non solo l’interazione tra fandom differenti, il potenziale innovativo della tecnologia digitale e la creatività dei fan, ma altresì i molteplici stili cognitivi attraverso cui i fanwriters si immergono o al contrario si distanziano dal testo, poiché essendo un fenomeno intra-transmediale, SuperWhoLock diviene altresì un luogo di fan-branding. In un certo senso questo crossover mostra come i fan stiano brandizzando la propria esperienza personale di membri di una fandom in modo da trasformare quest’ultima in “oggetto” o “artefatto” di un’unica esperienza fannish. In breve, la fandom diviene un luogo di auto-ritualizzazione dei fan stessi.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

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Stefano Calabrese

Valentina Conti

Fabio Cleto: “Tempo di serie, narrativo, produttivo, distributivo”

“Tempo di serie, narrativo, produttivo, distributivo”

Un testo su serialità e tempo a cura di Francesca Pasquali e Fabio Cleto

Fabio Cleto

Una scelta, quella di occuparsi del tempo, in quanto categoria imprescindibile per lo studio delle serie TV. Tempo inteso dal punto di vista narrativo, distributivo, produttivo. Binge watching come modalità di fruizione che “sfasa” la vecchia modalità. Poi, “storie di caso” che consentono di confrontarsi con il ruolo che opere come Mad Men o 1992 hanno avuto ed hanno oggi rispetto a categorie centrali come la memoria, la messinscena della storia. Inoltre, serie TV come The Wire definite visual novel e che possono essere intese così solo se il termine può essere investito di una chiave interpretativa. Infine, fanfiction in quanto produzioni eterogenee ed eteroprodotte. Sono questi i punti principali toccati in un colloquio con Fabio Cleto, docente di Storia Culturale all’Università di Bergamo. Cleto, insieme a Francesca Pasquali, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi sempre all’Università di Bergamo, ha curato Tempo di serie. La temporalità nella narrazione seriale, edito nel 2018 da UNICOPLI.

Perché occuparsi del tempo nelle serie televisive?

Abbiamo voluto organizzare una giornata di studi in merito e ci è parso che una delle categorie più utili per parlare di serie televisive fosse il tempo, nella sua natura molteplice e sfaccettata. Il tempo di cui ci siamo occupati è composto, e va dall’economia del tempo, inteso come la modalità in cui le serie TV hanno modificato e segnato dei passi produttivi, al tempo in chiave di distribuzione, che coniuga i tempi di fruizione alle dinamiche di consumo. Infatti, le serie televisive sono nate con la messa in onda di un tempo pubblicitario e con una forma di consumo meccanizzato nel tempo, oppure sono state fruite in DVD. Vi sono invece quelle che vengono offerte nella loro interezza e così presuppongono una visione diversa. In questo senso, studiando la produzione e la distribuzione, possiamo dire che le serie televisive trovassero nel tempo la loro matrice. D’altro canto questo vale anche sul piano narratologico, e nel libro si è parlato pure della forma che si dà al tempo. Di questi tre aspetti (distributivo, produttivo, narrativo) del tempo, Anna Sfardini e Cecilia Penati danno le coordinate nel saggio di apertura, e i contributori ne hanno esplorato i vari tasselli.

Un altro fenomeno che rivisita il concetto del tempo è il cosiddetto binge watching, ovvero la fruizione simultanea di più puntate di una serie. Ce ne potrebbe parlare?

Il binge watching ha fortemente a che fare con le modalità di consumo: nel momento in cui esso si produce, si ha il consumo onnivoro, vorace, che è consentito da distributori come Netflix, Amazon, ecc., che mettono a disposizione l’intera stagione di una serie televisiva. Questa è un’evoluzione del consumo ossessivo di DVD di qualche tempo prima, e che ora è diventato un fattore strutturale. Una serie televisiva può essere vista in una puntata a settimana, oppure anche tutta insieme, magari in una nottata, e ciò dà un aspetto particolare alla fruizione, anche perché si può avere il segno del nostro tempo che interpreta una serie TV.

Tempo di serie contiene anche storie di caso come Mad Men, In nome del papa re, 1992…

TEMPO DI SERIE

Non sono sicuro che l’espressione “storie di caso” sia la categoria più appropriata nel momento in cui casi come Mad Men o 1992 sono stati strumenti per parlare di qualcos’altro. C’è il rapporto tra lo statuto del romanzo e lo statuto della serie, interamente provato in un testo come Mad Men, che fa parte di un ideale canone della serialità televisiva ed è un caso esemplare, per la fortuna critica oltre che di pubblico che ha avuto. In lavori come questo o come 1992 vi sono strumenti che consentono di confrontarsi con il ruolo che le serie TV hanno avuto ed hanno oggi rispetto a categorie centrali come la memoria, la messinscena della storia. Così il tempo non è solo il tempo della narrazione, ma anche quello raccontato, rappresentato, vissuto, ricordato.

Serie televisive come The Wire sono state definite visual novel. Lei cosa ne pensa in proposito?

Trovo che il rinvio alla formula del romanzo può essere interessante se investita in una chiave interpretativa. Cioè: perché ci interessa descrivere la serie TV non come tale ma come romanzo visuale? Forse perché questo serve come sua legittimazione come ancora oggi si può ritenere che richieda? Oppure perché le strutture fondamentali della narrazione delle serie provengono dal romanzo a cui appunto queste si aggiungono? In base alla domanda che ci poniamo troviamo una risposta diversa. In questo senso io non sono né in accordo né in disaccordo. A seconda del quadro in cui si colloca l’accostamento con la narrativa romanzesca il paragone tiene o meno, se si pensa a quanto il romanzo abbia storicamente elaborato la propria forma sia come forma narrativa sincretica, che tiene insieme la narrativa precedente, sia in quanto struttura che ha trovato nella serialità una delle proprie forme principali, sia nelle puntate periodiche sulle riviste, sia nella pubblicazione in volumi. Il romanzo ottocentesco inglese per definizione è il romanzo a tre piani, three decker, in tre tomi, che presupponeva un consumo a blocchi. Quanto detto fornisce delle matrici che possono inquadrare una narrazione del nostro tempo che però va valorizzata non in un semplice rapporto di analogia o di derivazione, ma nella sua specificità. Quindi, il tempo delle serie TV come strumenti di interpretazione del nostro tempo e non di un altro.

Potrebbe chiarire ai lettori il punto in cui parla del three decker?

In larga misura il romanzo ottocentesco inglese viene pubblicato in volume in tre libri. Questo è il formato che si chiama three decker, cioè a tre piani. Anche i romanzi come quelli dickensiani, che vengono pubblicati a puntate su rivista, venivano poi raccolti in tre tomi. Questo perché i tre tomi venivano prestati, c’erano principalmente le biblioteche itineranti che prestavano per una ghinea a libro, e quindi l’opera intera rendeva tre ghinee, dato che i lettori erano tre contemporaneamente. Pertanto per ragioni produttive si seguiva un certo modello di lunghezza, ed ecco che anche allora le ragioni produttive tenevano in debito conto le modalità diverse di lettura, che erano quella su rivista (quindi con la suspence, le cesure, ecc.), ma anche l’estensione su tre libri che presupponeva una circolazione in tre libri per le biblioteche. Quando a fine ‘800 il costo della carta scende e i costi di produzione consentono un’altra modalità produttiva, non a caso si passa alle serie economiche e quindi alla vendita (non più al prestito), che presuppone un volume solo. Questi sono esempi storici di quanto il tempo della fruizione e quello della produzione vadano a braccetto.

In Tempo di serie vengono menzionati anche fenomeni come la fanfiction, di cui parla Giovanni Boccia Artieri…

Quello che emerge nel volume, per esempio nel saggio da lei citato, è che la serialità televisiva pesca dai confini di se stessa in modo tale da comprendere, al suo interno, uno stuolo produttivo, come ad esempio la fanfiction, che si colloca a margine. La serialità televisiva è un motore del discorso, e alimenta anche testualità eterogenee e eteroprodotte a partire dagli utenti. Pensiamo solo a quanto una serie canonica come Lost abbia avuto la capacità di ingaggiare lo spettatore in un gioco di produzione di senso di cui magari gli autori non erano neanche pienamente responsabili.

MARIA GRAZIA FALÀ

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Fabio Cleto

 

Paolo Fabbri: “Serie TV e feuilleton, parliamo sempre di generi”

“Serie TV e feuilleton, parliamo sempre di generi”

Un colloquio con il semiologo riminese a proposito di un testo del ’73 ripubblicato da Luca Sossella Editore

Paolo Fabbri

Fatto e senso come punti chiave della vexata quaestio tra sociologia e semiotica. Idea di fatto nella vecchia accezione che ritorna a causa delle nuove tecnologie (fatto come Big Data). Cultura grammaticalizzata e cultura testualizzata considerate all’interno di pubblici diversi, con una differente acculturazione. Deficit inteso come mancanza irrisolvibile, mentre è meglio parlare di differenza, come nella modalità di fruizione di qualcosa di sensato. Effetti delle comunicazioni di massa di media come la TV difficili da valutare, perché sono effetti di cultura, e quindi difficilmente quantificabili e interpretabili. Poi, cultura di massa strutturata per generi, anche se al suo interno vi sono opere d’arte, così come scrittori ottocenteschi quali Dumas e Balzac sono stati autori di feuilleton di grande valore. Infine, content analysis che non deve essere più quantofrenica, ma articolata secondo organizzazioni narrative e discorsive. Questi, in sintesi, i temi trattati in una chiacchierata con Paolo Fabbri, docente di Semiotica dell’Arte presso il Master of Arts alla LUISS di Roma, a proposito del suo Le comunicazioni di massa in Italia: sguardo semiotico e malocchio della sociologia, scritto nel 1973 e ripubblicato nel 2018 da Luca Sossella Editore.

L’aporia tra sociologia della comunicazione e semiotica agli inizi degli anni Settanta si incentrava soprattutto tra fatto e senso. Attualmente si può dire superata?

Direi proprio di no, in questo senso: quando parliamo di fatti diamo ad essi una certa significazione. È importante la pertinenza che un fatto prende quando ha un senso e un valore. Ha quindi significato non parlare di meri fatti, ma di avvenimenti dotati di valore, di senso. Naturalmente questo presuppone che più che le teorie delle cause per cui i fatti sono effetti, ecc.) ci sia una problematica della significazione (gli eventi hanno o no un senso). Questo era il punto di vista della semiotica una volta e che a dire la verità che non ha avuto esiti in sociologia. Semmai è accaduto che la sociologia sia stata in qualche modo superata. Ormai, nei loro convegni, i sociologi non impiegano più la parola società (questo sì che è un fatto nuovo), ma parlano di comunità, non parlano più di massa, ma di pubblici. La sociologia delle comunicazioni di massa è diventata lo studio certamente della comunicazione, ma con comunità e pubblici. Quindi non si è verificato tanto uno spostamento della semiotica, che continua più o meno coraggiosamente sulla dimensione del senso e del valore, ma c’è la crisi del concetto di società.

La nozione di fatto, intesa nel vecchio senso, non è scomparsa, e questo è un paradosso, a causa delle nuove tecnologie.

Fatti nel senso di big data?

Esatto. A questo punto il fatto si è travestito in dato. Ora, per non metter in causa la pertinenza degli algoritmi che sono costruiti, la questione importante è se, dall’uso di certi algoritmi che producono una grande quantità di dati – fatti, posso stabilire automaticamente, nel senso di automa della macchina, l’emergenza di sensi e di valori. Ma, se parliamo di reperimento dei dati, emergono due obiezioni che ci fanno riflettere. Una è il Corano, in cui non c’è mai la parola “cammello”, e se uno lo va a studiare con le nuove tecnologie la parola non si trova nel senso che era presupposta, in quanto era così frequente da non essere necessariamente espressa, ma data per scontata.

Un altro esempio è la parola “noia” in Madame Bovary di Flaubert, parola che non si trova quasi mai, mentre Madame Bovary si annoia moltissimo ed è la ragione per cui fa tutte quelle cose che sappiamo. Anche lì non si può trattare la superficie cosiddetta fattuale del testo, ma bisogna ricostruire la significazione generale, dopodiché si capisce che a volte non c’è bisogno della parola perché è implicita.

Lei parlava di cultura grammaticalizzata e di cultura testualizzata. Mi potrebbe, brevemente, fare la distinzione?

È una definizione che ho ripreso da Jurij Lotman, grande semiologo estone. Lui diceva che in una cultura ci sono degli aspetti formalizzati e articolati l’uno rispetto all’altro, e in questo caso essa è come una grammatica, in un sistema di dipendenze logiche e di relazioni – nel senso che se si mette un articolo al singolare non si può mettere un nome al plurale. Quanto a cultura testualizzata, lui si riferiva a un tipo di cultura che non ha queste caratteristiche di collegamento. Grammaticalizzata significa codificata, testualizzata va intesa nel senso di narrativizzata. La gente sa come raccontare, ma se gli si chiede per esempio di formalizzare un’opposizione, come ricchi – poveri, immigrati – italiani, non è detto che lo sappia esplicitare.

Lei affermava che la cultura “alta” era grammaticalizzata, mentre quella di massa era testualizzata. Si sentirebbe di fare la stessa affermazione a distanza di oltre quarant’anni?

La ricerca è andata avanti, il concetto di “massa” è stato messo in causa per moltissime ragioni. Una è certamente perché ci si è accorti dell’enorme differenza tra i tipi di pubblici dovuta alle loro diverse forme di informazione. Prendiamo due esempi, Crozza e il film Benvenuti al Sud. Si erano accorti che Crozza aveva un enorme ascolto al Nord e non al Sud. Se uno fosse un empirista dei fatti direbbe che la gente del Sud non ha lo stesso senso dell’umorismo di quelli del Nord, mentre è un problema di informazioni. Crozza si riferisce costantemente ai giornali, specialmente Repubblica, cogliendo certe informazioni politiche, che al Sud sono molte meno diffuse. Non è pertanto una questione di humour, tant’è vero che Made in Sud di De Martino e trasmissioni con quel tipo di humour hanno un enorme successo. Lo dico ancora una volta per il problema dei dati: se non diamo un’interpretazione a questi ultimi non riusciamo a dare senso al più ovvio dei comportamenti. La cosiddetta “massa” è quindi molto articolata in pubblici dotati di informazioni diverse, ed è chiaro che la differenza tra cultura grammaticalizzata e cultura testualizzata è all’interno dei diversi pubblici. È chiarissimo che, nel caso di Crozza, una acculturazione politica, cioè una grammaticalizzazione della cultura politica, è fondamentale per poterne ridere. È una cultura testualizzata quella per cui, quando lei chiede a molti italiani come si chiama il Presidente del Consiglio, non lo sanno, così come, quando dicono che tutti i politici sono corrotti, non sanno dire dei nomi.

A proposito della difficoltà di recepire un messaggio da parte delle classi cosiddette svantaggiate, lei ha preferito parlare di differenza anziché di deficit. E qui viene fuori il problema degli effetti delle comunicazioni di massa…

Il termine deficit è un termine quantitativo, cioè c’è della gente che ha delle cose e della gente che non ce l’ha come, a proposito dell’informazione, c’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. La nozione di deficit invita a pensare ad una mancanza irrisolvibile. Ad esempio, si è molto parlato a proposito di Internet di digital divide, cioè la differenza tra quelli che avevano Internet, sapevano usare un computer, ecc. e la maggior parte della gente che non ne era capace. Bene, si sono accorti oggi che il 95% delle persone compresi ragazzini ma anche persone di età notevole utilizzano il computer benissimo, anche se magari non tutte le sue enormi risorse. Parlare in termini di deficit non è una soluzione interessante, quello che ci interessa invece è che ci sono delle differenze nelle modalità di fruizione di un messaggio. Per esempio io sono un caso di deficit dei social media, perché ho deciso di non utilizzare Facebook: non posso passare la vita lì come molti miei colleghi che ormai hanno una esistenza digitale. Se io ho deciso di non utilizzare questo social media sono in deficit? No, ho stabilito una differenza. Per individuare una differenza credo che sia molto importante vedere anche le statistiche per sapere ciò che le persone utilizzano. Per esempio l’uso di Skype nel campo scientifico è fondamentale per parlarsi a distanza, per tenere delle conferenze, però è anche vero che Skype nel quotidiano è poco usato. Mi interessa più stabilire le differenze della significazione dell’uso di certi media, piuttosto che parlarne in termini di deficit.

Cosa ne pensa degli effetti di media come la TV?

Questo è un problema molto delicato perché difficile da individuare. Quando avevo scritto il mio saggio mi ero opposto a quella maniera un po’ semplificata che io chiamavo la teoria ipodermica, cioè quella di prendere un piccolo gruppo di persone, fare un’analisi statistica pseudo – rappresentativa e tirarci fuori delle generalizzazioni conclusive. Oggi questo metodo c’è ancora. Negli studi sul cervello ci sono dei ricercatori che prendono in una lontana università, in un laboratorio, un gruppo di ragazzi che sono spesso i loro studenti americani, ci fanno un esperimento e poi espongono i risultati generalizzandoli. Credo che sia uno sbaglio clamoroso: non si può generalizzare un esperimento fatto su un numero ristretto di persone ed esportarne i risultati fuori del laboratorio, dove pur hanno la loro controllata esattezza e verità. Quello che però sappiamo è che degli effetti ci sono, tuttavia ogni effetto si conosce rispetto a una certa serie di dati significativi. Ad esempio, noi abbiamo visto oggi quanto i media abbiano un ruolo decisivo sul voto. Se riduciamo il livello di significazione politica all’atto del voto, vediamo che degli effetti ci sono, mentre l’errore di dire qual è l’effetto prodotto dalla visione di un certo film, di una certa trasmissione, è in qualche misura un effetto macroscopico di cultura, che è molto difficile da calcolare. Penso a una canzone di San Remo che a detta dei sociologi circolerebbe come un “meme” – che io non so che sia.

La cultura di massa, a suo parere, era strutturata per generi. È della stessa opinione ancora oggi parlando di serie televisive? Ci sono serie TV come The Wire che sono state definite visual novel: appartenenti alla terza golden age (anni Duemila) delle serie televisive americane, per il loro valore artistico, sembrano smentire quanto da lei detto…

Su questo tengo forte sulla mia idea. Guardando la televisione – RAI-TV, Sky, Netflix, Amazon prime – lei teoricamente si trova di fronte a una serie di film da scegliere. Come sono raggruppati? Per generi. Cioè, continuiamo a classificare la cultura di massa attraverso dei generi. Il genere è una cornice, un frame, che definisce il contenuto di una certa informazione. Una persona dirà “ho visto questo al talk show” un altro dirà al TG, perché anche il telegiornale è un genere. Sono convinto che la massa delle informazioni, e vale anche per i big data, non può essere presa all’insieme, bensì all’interno di generi, cioè dentro l’inquadramento di un certo genere di testo. È una evidenza culturale, anche se provvisoria, che le donne oggi amano i thriller e i gialli più dei western e della fantascienza…

Anche unicum come Gomorra o The Wire?

Facciamo sempre dei confronti per uscire dall’attualità. Nell’Ottocento c’erano i feuilleton, che venivano pubblicati sui giornali qualche volta alla settimana. A scriverli c’erano Dumas, Balzac, Sue, ed altri autori notevoli. Nessuno si è mai preoccupato che alcuni di questi erano robaccia, mentre altri sono veri e propri capolavori, come Il conte di Montecristo, che è un feuilleton di A. Dumas. Quindi che fra i tanti feuilleton di oggi, cioè i serial, ce ne siano alcuni che hanno valore artistico, non mi preoccupa, perché non mi interessa la improponibile domanda “Cos’è l’arte”, ma “Quando è arte.” Siamo noi che dobbiamo decidere quando un’opera è arte e quando non lo è. Quindi dal mio punto di vista sono d’accordissimo nel dire eventualmente artistiche le serie TV appunto definite visual novel. D’altra parte Eco, che è stato un precursore in tanti campi, negli anni ’70 guardava i fumetti e diceva che ce ne sono alcuni (v. Feiffer) superiori come qualità estetica di molti romanzi di genere di cui ci siamo giustamente dimenticati. Pertanto, quando lei parla di unicum, non si tratta tanto di un unicum, perché la serie è una serie, come il feuilleton è il feuilleton, però di alcuni di questi il valore è altissimo, e ciò bisogna deciderlo.

La content analysis è stata a lungo un cavallo di battaglia della sociologia della comunicazione ma, a suo parere, era pre – saussuriana. Infatti si fermava semplicemente alla superficie del testo, senza considerare che questo ha una struttura profonda, narrativizzata. Quanto si potrebbe utilizzare ancora una content analysis rivista alla luce della sociosemiotica?

Stiamo tornando alla prima domanda, quella tra fatto e senso. Anche oggi si parla molto di contenuto, però in modo un po’ diverso da allora. Prima c’era l’idea che io scherzando definivo quantofrenica, cioè l’idea di fare la statistica di unità date, e non ci si preoccupava della dimensione sistemica della significazione. Ci sono molte ricerche su questo argomento, e credo che oggi nessuno si metterebbe a fare delle analisi approssimative senza avere studiato la mediazione articolata dello storytelling. La vecchia soluzione era fare il conto delle occorrenze lessicali. Per esempio, per vedere se un sito era di destra o di sinistra, calcolavano il numero delle volte in cui compariva il nome di Hitler e di Mussolini, e la content analysis diceva che se in un sito si usano sempre queste due parole il sito era di destra, mentre vi possono essere molti siti di sinistra che nominano i due dittatori ma in senso critico e oppositivo. Il problema della content analysis stava nel fatto che prendeva degli elementi senza la loro organizzazione sistemica, strutturale, e li contava, per cui dicevo che era quantofrenica, cioè con la frenesia della quantità. Oggi nessuno può rifare quest’operazione, invece scopro con sorpresa che i grandi istituti di statistica che si interessano dei sondaggi continuano a farla e poi danno i risultati come dei dati definitivi. Oggi bisognerebbe discutere molto seriamente su cosa fanno i sondaggisti, perché si può arrivare a prevedere le intenzioni di voto con un campo ristretto di scelte, ma se si fa un sondaggio su quante volte gli italiani hanno delle relazioni sessuali matrimoniali credo che avremmo delle risposte molto diverse tra uomini e donne. Quindi, oggi che siamo in un’epoca di sondaggismo sfrenato, dove i politici stanno attaccati tutti i giorni agli istituti di sondaggio, la questione dell’analisi del contenuto si pone in modo rilevante.

Si potrebbe utilizzare la content analysis riveduta e corretta alle serie tv e alle eventuali estensioni transmediali come i paratesti?

In fondo cos’è la semiotica? Essa vuole studiare i segni e i segni hanno un contenuto, solo che il contenuto a cui pensiamo noi è formato, che può essere più o meno grammaticalizzato, articolato narrativamente e discorsivamente, tra inferenze e figure retoriche, per esempio. Allora il problema è quello di fare un’analisi del contenuto che noi chiamiamo semantica, cioè di un contenuto articolato. Occorre sapere come questi vengono organizzati, perché altrimenti il rischio, come nei sondaggi, è di avere a volte delle risposte banali e irrilevanti oppure ambigue e contraddittorie.

Come potremmo fare concretamente?

Non ho ricette chiavi in mano, ma è una questione attuale e delicatissima. Macron, il presidente francese, ha lanciato il Grand Débat National sulla politica e la governabilità: un appello alla popolazione francese, “Portateci le vostre esigenze”. Sono arrivate istanze o cahiers de doléance per trecentomila pagine, cioè 68 milioni di parole da elaborare in due settimane. “Chi le leggerà?”, e come mettersi d’accordo sui criteri da utilizzare per un’analisi sensata e obbiettiva? L’idea è: prendiamo degli algoritmi, ma si litiga su che tipo di algoritmi prendere, in quanto il risultato dipende dal tipo di algoritmo il quale seleziona e sintetizza certi cosiddetti dati, cioè certi elementi dotati di senso e valore piuttosto che altri. La questione è molto spinosa per i francesi. Occorre stabilire che tipo di analisi di contenuto articolato, cioè di analisi semantica dobbiamo fare per capire questi big data: milioni di parole scritte da persone diverse, con formati, stili, gerghi e accezioni diversissimi. Va bene farle leggere ad una macchina, però alla macchina devi dare delle informazioni e istruzioni di trattamento perché non tutte le volte che compare la parola Hitler o Mussolini possiamo dire che un testo è di destra e che Madame Bovary non si annoia.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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Paolo Fabbri

 

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Raccontate per FrancoAngeli le storie delle serie televisive USA

Paola Brembilla

Industria televisiva come capace di trasformarsi gradualmente per adattarsi, come il modello Netflix che rappresenta un’evoluzione del suo stesso modello di business. “Età dell’oro” della televisione come categorie in cui ognuna corrisponde a periodi in cui la produzione televisiva ha bisogno di adattarsi a uno scenario in cambiamento. TV via cavo che nei suoi primi anni si affida alla ritrasmissione delle produzioni dei network, spesso riconfezionandole per iniziare un processo di differenziazione (esempio famoso, la ritrasmissione di Twin Peaks sulla cable TV Bravo con lo slogan “TV Too Good For TV”). HBO come emittente pay che si è consolidata a suon di primati, proclamando il suo stato di “non televisione” attraverso lo slogan “It’s Not TV It’s HBO”. HBO che ha anche una versione Over – the – Top, HBO Now, anch’essa “di classe”. Poi, Netflix che in Italia, come in tutti gli altri paesi, ha avuto uno sviluppo diverso da quello registrato negli USA, e che appunto in Italia ha avuto forti barriere all’entrata. Inoltre, Contenuto Generato dagli Utenti che agisce in diversi modi e su diversi livelli e il cui carattere fondamentale è quello di essere “spreadable”. Contenuto Generato dagli Utenti che può influenzare anche la scrittura “ufficiale” della serie, attraverso fan service in cui la produzione rende omaggio ai gusti e alle attività del pubblico. Infine, ibridazioni non tra sistemi televisivi, ma tra specificità formali delle produzioni, con il ritorno delle serie antologiche, l’importanza data ai brand, i revival e i reboot.

Queste, in sintesi, le linee portanti di It’s All Connected. L’evoluzione delle serie TV statunitensi, edito nel 2018 da FrancoAngeli e scritto da Paola Brembilla, docente di Teorie e tecniche del linguaggio radiotelevisivo all’Università di Padova.

Lei ha parlato di evoluzione piuttosto che di rivoluzione nella storia della TV americana. In che senso? Questo dato di fatto si potrebbe applicare anche al caso italiano?

Nel libro parto dalla definizione generica dei due termini: la rivoluzione come cambiamento improvviso rispetto a un problema e l’evoluzione come trasformazione graduale per adattarsi all’ambiente. Mi sembra che l’industria televisiva, ciclicamente, faccia questo, trasformarsi gradualmente per adattarsi. Possiamo certo individuare dei periodi di svolta, in cui i cambiamenti sono sotto gli occhi di tutti e possono sembrare improvvisi e dirompenti. Però, cercandone le cause, possiamo anche vedere che niente succede all’improvviso, ma è sempre il risultato di strategie e tattiche di adattamento all’ambiente economico, istituzionale, socio-culturale, etc. Possiamo sicuramente dire che Netflix ha rivoluzionato l’industria televisiva, è una frase ad effetto ed è vera. Ma da una prospettiva storica e sistemica anche il suo modello d business è solo l’ultimo risultato del lungo processo di trasformazione che il medium televisivo ha intrapreso fin dalla sua nascita. Netflix viene dalla digitalizzazione, dalla difficoltà dei network di adottare un modello di VOD concorrenziale e invitante per gli utenti, dal business della vendita delle ritrasmissioni, dall’affermazione della pirateria. Netflix stesso come lo conosciamo oggi è un’evoluzione del suo stesso modello di business, in quanto nasce come società di noleggio di VHS e DVD per posta. Da questo punto di vista sì, il modello è applicabile anche all’Italia, poiché parliamo sempre di fattori ed elementi connessi fra loro che spingono alla trasformazione costante.

Le serie TV americane si caratterizzano per una prima golden age, quella degli anni Sessanta, una seconda, che va dalla fine degli anni Settanta agli inizi degli anni Ottanta, e infine una terza, degli anni Duemila. Quanto si connettono all’evoluzione della televisione USA tout court?

Le cosiddette “età dell’oro” della televisione sono categorie che possono essere lette in diverse modi. La prima età, per esempio, è un’etichetta creata dalla PBS, il servizio pubblico statunitense, che negli anni Ottanta manda in onda un’antologia del meglio dei primi anni della TV intitolandola “The Golden Age of Television”. Così facendo, quei programmi vengono nostalgicamente inquadrati come “classici”. La cosa altrettanto interessante è che quegli show, perlopiù live anthology drama, si rifacevano al teatro per conferire un’aura culturalmente elevata a un nuovo medium che era considerato troppo popolare. Ma in questo caso, poi, mi piace sempre citare lo studioso Fred MacDonald, che fa notare come per ogni programma entrato nella prima golden age, ci fossero centinaia di altri show di bassa o media qualità finiti nel dimenticatoio.[1] L’esempio è emblematico anche per le altre età dell’oro: ognuna di esse corrisponde a periodi in cui la produzione televisiva ha bisogno di mutare, di trovare nuove vie per adattarsi a uno scenario in cambiamento. La seconda, per esempio, è il risultato dell’inedita competizione fra televisione broadcast e via cavo, a cui la prima reagisce con serie che si differenziano da quelle degli anni precedenti in termini di narrazione multilineare, ibridazione dei generi e dei formati, maggiore attenzione tecnica e stilistica – ne sono esempio Hill Street Blues, ER, Twin Peaks, X-Files. E ancora, volendo parlare di una terza golden age, vediamo come la digitalizzazione abbia nuovamente trasformato i giochi e gli equilibri competitivi, spingendo a cercare nuove forme di differenziazione in uno scenario di saturazione del mercato e abbondanza dei contenuti (approfondisco questo discorso nell’ultima domanda). Si tratta sempre, comunque, di etichette applicate a posteriori. Ma, come sostiene MacDonald, a ben vedere per tutte quelle serie che troviamo rappresentative di queste età, ce ne sono ancora centinaia che non lo sono. Forse, allora, le serie raccolte sotto queste definizioni-ombrello sono dei “picchi” di quei cambiamenti palesi di cui ho parlato prima.

Dalla broadcast television alla cable TV: come si influenzano i formati e i temi delle serie televisive in questo passaggio?

In questo passaggio vediamo come ciò a cui stiamo assistendo con gli OTT, cioè il loro passaggio da espansione a competizione della TV, sia già accaduto. La televisione via cavo, infatti, nei suoi primi anni di consolidamento si affida alla ritrasmissione delle produzioni dei network, spesso riconfezionandole per iniziare un processo di differenziazione. Un esempio celebre è quello di Twin Peaks, in onda per due stagioni sul network ABC che poi lo rivende in syndication al canale via cavo Bravo.[2] Bravo, che sta cercando di costruirsi un marchio che si distacchi dalla TV tradizionale, lancia le ritrasmissioni della serie con lo slogan “TV Too Good For TV” suggerendo che la sua sia la collocazione più adatta a un tipo di serie dalla qualità troppo elevata per i network. Nel complesso, poi, la cable lancia definitivamente la polarizzazione delle audience, la moltiplicazione dei player e e la frammentazione dell’offerta, proponendo per la prima volta canali tematici e specializzati – MTV, CNN, ma anche canali come Bravo che ci concentrano su cinema e serie TV “di qualità”.

Prima ancora però che la cable si lanci nella programmazione originale, sono i network stessi che iniziano a offrire qualcosa di innovativo per restare competitivi, ed è qui che troviamo i programmi della seconda golden age di cui ho parlato nella domanda precedente. La risposta successiva della via cavo è poi quella dell’ulteriore differenziazione, sfruttando al massimo certi vantaggi istituzionali che porteranno alla nascita della cosiddetta “quality TV” – l’esempio principale diventa poi HBO, di cui parlo nella domanda successiva.

Ci potrebbe parale del caso HBO, che poi si strutturerà anche come un servizio Over – the – Top con HBO Now?

HBO non è solo un canale, è un marchio che evoca una serie di valori e aspettative, è praticamente uno status culturale. HBO è un’emittente pay che si è consolidata a suon di primati: è la prima emittente pay a diventare un multiplex, quindi a sfruttare la compressione digitale dei dati per offrire diverse versioni dello stesso canale; è la prima rete a offrire una versione in HD; è anche la prima rete premium, alla fine degli anni Novanta, a lanciare le sue serie TV originali, proclamando il suo stato di “non televisione” attraverso lo slogan “It’s Not TV. It’s HBO”. Senza regolamentazioni su contenuti e senza interruzioni pubblicitarie, ma con la necessità di giustificare il premium price che i suoi utenti pagano, HBO punta a discorsi di distinzione culturale che capitalizzano sulla qualità tecnica e artistica della sua programmazione, acclamata per gli alti production values,[3] la demolizione di tabù e censure, l’enfasi sugli autori, la continuity nella narrazione – tutto che riporta a campi culturali “alti” come il cinema e la letteratura.

Tutti questi principi sono riportati su HBO Now, la versione over-the-top della rete accessibile anche con abbonamento mensile stand-alone[4] – sul principio di Netflix, quindi. Con HBO Now, l’emittente pay ha riconosciuto l’importanza dei player OTT, adattando competitivamente il proprio modello di business. Ha però cercato anche di non perdere la sua natura “di classe”, con le sue caratteristiche distintive di ecosistema culturalmente legittimato lanciando la piattaforma in esclusiva per Apple TV per 3 mesi, una scelta non casuale visto che parliamo di un altro ecosistema fondato sull’esclusività e il prestigio. L’OTT è attualmente il più costoso sul mercato americano, continuando così a chiedere un premium price per il suo premium content.

Gli Over – the – Top (OTT) come Amazon, Hulu, e Netflix, hanno cambiato il panorama televisivo USA. Ci potrebbe dire qualcosa su Netflix che si sta diffondendo in maniera significativa anche in Italia?

Negli USA, Netflix è partito da zero, con scarsa competizione nel settore OTT e forti potenzialità di sviluppo e, in un certo modo, ha imposto le sue regole. In Italia, così come fuori dagli USA in generale, è diverso: internazionalmente si inserisce in sistemi che, a diversi gradi, stanno già sviluppando mercati propri a partire da determinanti specificità nazionali. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2015 Netflix si inserisce in un mercato dello streaming sì sotto-sviluppato, anche a causa dei problemi con la diffusione della banda larga sul territorio italiano, ma soprattutto in cui i maggiori player (SkyOnline, Infinity, TIMVision, etc.) sono un’espansione di editori televisivi e di imprese di telecomunicazione leader, quindi con un bacino d’utenza già polarizzato. Questo presenta una barriera all’entrata non indifferente, che comporta anche la scarsa disponibilità dei diritti di ritrasmissione di diversi prodotti di richiamo – alcuni persino di Netflix stesso, si pensi ai diritti di House of Cards e Orange is the New Black, venduti rispettivamente a Sky e Mediaset prima che l’OTT aprisse in Italia. Di conseguenza, la library che Netflix lancia sul mercato nazionale si presenta limitata rispetto a quella statunitense, con una quantità irrisoria di prodotti italiani. Le cose stanno cambiando ed è sempre più chiaro come Netflix adesso stia cercando di espandersi dagl early adopters[5] a un pubblico sempre più diversificato e generalista, ricalcando dei modelli di successo già consolidati in Italia: si punta alla tradizione e all’effetto-nostalgia con Don Matteo e Fantaghirò, per esempio. Accanto a una produzione originale di denuncia come Sulla mia pelle, troviamo i cinepanettoni. Le serie originali, Suburra e Baby, funzionano sulla falsa riga del modello Sky (criminalità, malavita, fatti di cronaca, storie audaci). Anche se non hanno avuto lo stesso successo, dimostrano comunque che c’è attenzione al panorama nazionale, che Netflix è nel gioco della produzione tanto quanto i player storici. Per quanto riguarda la concorrenza, infatti, oggi Netflix Italia vince più per l’usabilità dell’interfaccia che per i contenuti – oramai, anche le library di Infinity, Sky e anche Amazon Prime sono ricche. Per questo sta puntando sempre più sulla promozione del suo brand che, come commenta Luca Barra qui <https://www.vice.com/it/article/59vqmz/i-problemi-di-netflix> è una garanzia: “il meglio, il nuovo, l’imperdibile stanno lì”. Anche se grattando sotto la superficie promozionale dei contenuti in evidenza, ci sono due anime: quella della qualità, del prestigio e quella delle produzioni generaliste, “normali”.

Il cosiddetto Contenuto Generato dagli Utenti ha cambiato anche il modo di scrivere le serie televisive, e su questo ha insistito anche Henry Jenkins, che nel suo Cultura Convergente non si limita a citare casi televisivi. Qual è la sua opinione in proposito?

Dipende da cosa intendiamo per Contenuto Generato dagli Utenti, che oggi assume diverse forme – dai video degli YouTubers ai mashup/remix, dalle wiki alla fanfiction.[6] Considerando le serie TV, credo che tutte queste produzioni agiscano in diversi modi e su diversi livelli. Credo anche sia importante sottolineare che, oggi, ci sono modalità inedite di creare valore dal fandom, che va al di là dei numeri delle audience televisive misurate da Nielsen e che si basa su sistemi di controllo instaurati dalla produzione. Come sostiene Jenkins, la parte “spreadable” è fondamentale: i contenuti sono progettati per circolare online, basti pensare alle clip condivise dalle reti stesse su YouTube, o agli hashtag creati dalla produzione ufficiale per facilitare i discorsi su Twitter. Concretamente, alcune campagne di promozione delle serie utilizzano Twitter per rimandare all’appuntamento televisivo, riconducendo quindi il tutto a una logica di palinsesto – il fenomeno della social TV, in fondo, è proprio fondato sulla visione sincronizzata in TV mentre se ne discute online. Dal punto di vista della scrittura, l’interazione diretta fra produzione e consumo, resa possibile da piattaforme come Twitter e Tumblr, è altrettanto fondamentale. La complessità narrativa può essere accentuata per stimolare le conversazioni su certe parti oscure della narrazione, o su colpi di scena inaspettati. Questo può influenzare la scrittura “ufficiale” della serie, attraverso fan service in cui la produzione rende omaggio ai gusti e alle attività del pubblico inserendo delle allusioni, dei particolari marginali nella narrazione volti ad ammiccare al fandom. I feedback degli utenti, inoltre, possono influenzare non solo la scrittura dei dialoghi, ma anche stimolare nuove produzioni (gli spin-off, dopotutto, sono prodotti realizzati per attrarre un pubblico che ama un determinato personaggio secondario) o “aggiustare” il corso delle narrazioni stesse. Per esempio, Julie Plec, creatrice di The Vampire Diaries, ha dichiarato di avere inserito una nuova linea narrativa nello show a seguito delle proteste diffuse sui social network da molti fan che chiedevano maggiori approfondimenti su alcuni punti oscuri della narrazione. La produzione di fanfiction stessa, che spesso è stata scoraggiata, oggi è anche vista come un “plus” perché può tenere vivi e attivi i mondi seriali, può anche essere sfruttato a distanza di anni per nuovi prodotti correlati a quello originale – si pensi ai revival, da X-Files al Veronica Mars.

Quanto sono cambiati formati e contenuti delle serie TV dopo quelle che potrebbero definirsi ibridizzazioni tra network, cable TV e OTT?

Più che di ibridazione fra sistemi televisivi, che rimangono ancora piuttosto separati, parlerei di ibridazioni fra specificità formali delle produzioni.

In questo senso, ci sono diversi trend che caratterizzano lo scenario contemporaneo. Uno è il ritorno delle serie antologiche, soprattutto stagionali, la risposta strategica perfetta all’abbondanza dei contenuti e alla fruizione personalizzata. Delle audience sommerse da centinaia di serie TV l’anno potrebbero infatti trovare conveniente scegliere una narrazione che si esaurisce nel corso di due o tre mesi e che non richiede necessariamente la visione delle stagioni precedenti per essere compresa. Queste serie, inoltre, presentano formati particolarmente adatti al binge-watching[7], grazie al loro funzionamento come un lungo film e, per questo, i costi iniziali sono anche ammortizzati in fretta attraverso diversi accordi con gli OTT.

In questo scenario, si conferma inoltre l’importanza dei brand, basti pensare ai franchise televisivi (NCIS, Law & Order, CSI, etc.) o mediali (il Marvel Cinematic Universe o il DC Extended Universe). Un’altra declinazione delle strategie di branding implica il rilancio di titoli già noti, che oggi si traduce in revival e reboot,[8] stimolati ancora una volta dai modelli di business OTT.  La disponibilità costante di contenuti e la conseguente possibilità di recupero offerte dalle piattaforme online hanno infatti aperto uno scenario in cui le library assumono anche la funzione di archivi. La possibilità di rivedere o recuperare serie già concluse con tempi personalizzati ha permesso a questi programmi di assumere nuovo valore per gli utenti, la produzione e la piattaforma di streaming che le ripropone. Questo sta avvenendo sempre più frequentemente attraverso i revival, cioè il riavvio della produzione di serie cancellate dai palinsesti. Nel complesso, queste operazioni ruotano intorno allo sfruttamento dei brand degli show, che assumono maggiore valore ora che allora grazie a un effetto-nostalgia e all’acquisizione dello status di “classico”. Si pensi a The X-Files e 24, tornati su FOX grazie ad accordi con Netflix. Tornando alla contrazione dei formati, importante è anche il loro confezionamento promozionale come limited series event di pochi episodi, che presenta il prodotto come evento unico e apparentemente irripetibile, da non perdere, con dei costi di entrata per i telespettatori relativamente bassi vista la durata della narrazione. Il formato delle miniserie o delle limited series event sembra infatti il più funzionale ai revival: i casi citati sopra, per esempio, testano la fattibilità del progetto sul lungo termine (quindi la possibilità di un reboot della serie) attraverso un impegno sul breve termine (appunto, le mini serie evento).

Va infine citato il discorso del prestigio differenziante, che è riconducibile a determinate modalità narrative, a standard tecnici, a stili visivi, alla reputazione di nomi autoriali che “nobilitano” il prodotto e, sempre più, a tematiche fortemente contemporanee, con un mandato sociale e politico. Per esempio, il successo di serie come Orange is the New Black, Jane the Virgin, Crazy Ex-Girlfriend o The Good Place non è realmente quantificabile attraverso scale di misura tradizionali. Si tratta piuttosto di un successo in termini di critica, nomination e premi, costituzione di discorsi positivi che trasformano le serie in risorse sul lungo termine, sfruttabili su più piattaforme. Mi riferisco soprattutto alle esternalità positive connesse al valore culturale del prodotto, che deriva valore da narrazioni che innovative, rischiose, audaci dal punto di vista tematico e contenutistico attraverso la messa in scena di personaggi non solo complessi e conflittuali, ma appartenenti a categorie sociali tradizionalmente, per diversi motivi, sotto-rappresentate. Dal punto di vista narrativo, passiamo dagli show sulle minoranze come eccezioni di palinsesto, all’inclusione di queste minoranze in serie di primo piano e con ruoli importanti, in una normalizzazione della rappresentazione della diversità che tenta di andare oltre gli stereotipi e gli schemi istituzionalizzati.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

[1] Fred MacDonald, One Nation under Television: The Rise and Decline of Network TV, Nelson-Hall, Chicago 1994

[2] Pratica che permette la vendita della licenza di ritrasmissione di un programma a un’altra emittente dopo una determinata soglia di episodi.

[3] Con production values si intende la combinazione di qualità tecniche e abilità pratiche/creative nella produzione di un audiovisivo o una performance.

[4] L’abbonamento mensile stand-alone permette di pagare per il solo servizio online, senza la necessità di acquistare l’intero pacchetto televisivo.

[5] Gli early adopters sono coloro che usano un prodotto o un servizio non appena diventa disponibile, potenzialmente anticipando il suo eventuale successo di massa.

[6] Gli YouTubers sono creatori di contenuti, spesso seriali, per YouTube; i mashup sono remix audiovisivi che combinano due o più produzioni per crearne una nuova o dare alle originali nuovo significato; le wiki sono piattaforme collaborative che offrono contenuti generati dagli utenti, modificabili tramite browser personali; le fanfiction sono racconti, più o meno lunghi, scritti da fan e basati su personaggi celebri, finzionali o non.

[7] Il binge-watching, letteralmente “visione ad abbuffata”, fa riferimento alla pratica di visione di molti episodi di una serie in maniera continuativa, in una sorta di maratona.

[8] I revival implicano il ritorno di una serie molto tempo dopo la sua chiusura, con gli stessi personaggi; i reboot sono il riavvio della serie attraverso un nuovo corso, spesso con nuova produzione e nuovi personaggi.

 

 

Peppino Ortoleva: “Tragedia di Corinaldo, sarebbe stata auspicabile la presenza di Mattarella”

“Tragedia di Corinaldo, sarebbe stata auspicabile la presenza di Mattarella”

Il mass – mediologo torinese commenta la comunicazione  a proposito dei fatti avvenuti al “Lanterna Azzurra”

Mancanza di una vera attenzione verso le vittime di Corinaldo, quasi un distacco gelido, in quanto i ragazzi andando in discoteca, hanno fatto una cosache non dovevano fare. La mamma morta, “mamma”, anziché donna, che avrebbe dovuto stare a casa invece di andare a prendere la figlia dodicenne. Questo, in sintesi, il climate of opinion che ha percorso tutti i giornali, da quelli mainstream come Repubblica o Il Corriere della Sera a quelli più “urlati” come quelli di destra. Tra i TG (piuttosto “medi” quelli di Mediaset, grossolano il TG2), distintosi per il suo tono da agenzia, controllato, equilibrato, RaiNews24. E, dopo la tragedia, un atteggiamento contraddittorio nei confronti dello spray al peperoncino, arma di difesa lecita e oggetto di una campagna di stampa favorevole su Libero e invece demonizzato se in mano a ragazzi sballati o a devianti di ogni genere. Infine, una totale assenza delle istituzioni, primo fra tutti il Ministro degli Interni Matteo Salvini, cialtrone che non si è fatto vivo a Corinaldo e che pure è sempre pronto a parlare di tutto. “In questo frangente avrei visto anche la presenza del Presidente della Repubblica in segno di solidarietà con quei ragazzi”, conclude Peppino Ortoleva, già ordinario di Storia e teoria dei media all’università di Torino, commentando la tragedia avvenuta l’8 dicembre scorso in una discoteca di Corinaldo. Qui sono morti cinque ragazzini e una madre che era andata a prendere la figlia giovanissima, tutti andati là per assistere a un concerto.

Come hanno trattato i giornali di destra e in generale quelli mainstream la tragedia di Corinaldo?

La cosa che mi ha colpito molto è che non c’è stata un’attenzione vera alle vittime. C’è stata una certa forma di distacco: non si dice esplicitamente, ma lo si fa capire, che questi ragazzi andando in discoteca stavano facendo una cosa che non

dovevano fare. È un giudizio sottinteso, mai esplicitato, ma si dice che ballano, vanno in troppi: questo è colpa loro, non è colpa di nessuno, oppure è colpa genericamente di ignoti. Tuttavia, tra questi adolescenti c’è sempre qualcuno che si infila, più delinquente degli altri, ma che infiltrandosi fa parte del gruppo. Nel raccontare la storia c’è questo distacco gelido: se le vittime fossero morte sotto un tornado tutto sarebbe stato trattato in modo molto più umano. Ciò è assai indicativo, perché siamo in un mondo dove non si giudica, però a questo punto si cominciano a giudicare delle categorie, come gli immigrati o anche i giovani, e allora la domanda sottintesa è: “Cosa vogliono questi giovani che si sballano?”

E su questo hanno insistito soprattutto i giornali di destra, come Libero, Il Giornale, La Verità…

Fra tutti i giornali quelli di destra sono stati forse un pochino più espliciti, però questo tono moraleggiante c’è stato dappertutto. Quello che sta accadendo nella stampa di destra è un po’ un fenomeno analogo a ciò che succede in America nella stampa trumpista, che afferma: “Noi diciamo esplicitamente quello che voi ipocriti non vi sentite di dire.” Questo è il tono, e Libero è specialista in ciò, anche se è meno rigido nelle sue posizioni. Il Giornale invece è più schierato e leggermente più ipocrita. Libero è quello di Bastardi islamici, delle parolacce nei titoli. A prescindere da giornali di destra e giornali mainstream, però è una questione di toni, non di sostanza. E quella mamma che si è permessa di andare, pur essendo mamma, in discoteca, non avrebbe dovuto essere là, perché le mamme, secondo il costume italico, dovrebbero stare a casa. Nel citarla infatti è stata usata solo questa parola, mentre non si è detto mai “Una donna sulla quarantina”.

Come considera la televisione, e soprattutto la Domenica in di Mara Venier andata in onda il 9 dicembre scorso?

Non l’ho vista, in quanto Mara Venier non la guardo. Mi deve perdonare, io i giornali li leggo, ma a certi eccessi non ci arrivo. Poi magari può darsi che sia stata una bella trasmissione, ma non l’ho vista. Io la TV in questi casi la trovo quasi sempre un po’ ributtante, anche se i toni ipocriti di certi giornali in fondo sono anche peggio.

Cosa potrebbe dire a proposito di RaiNews24 che sembra essere stata la più controllata?

RaiNews24 lo è sempre, ha sempre un tono da agenzia, un tono più di notizia in quanto tale, e quindi anche meno folclorico, in quanto c’è sempre un carattere folcloricheggiante in nel raccontare questo tipo di cose. Dal mio punto di vista preferisco quelli che danno semplicemente il numero dei morti, (e quindi i toni di quest’emittente), senza voler per forza costruire un racconto, anche quando non si sa bene come farlo, poiché farlo è sempre difficile.

Come valuta invece i telegiornali generalisti della RAI?

Questi sono stati leggermente diversi tra loro. Il nuovo TG2 si distingue sempre per il livello di grossolanità superiore agli altri due, il TG1 e il TG3. La7, dopo aver avuto per molto

La discoteca della tragedia – Fonte: AnconaToday

tempo un’attenzione notevole ai toni, ho l’impressione che stia subendo un leggero scivolamento.

Come si muovono i TG di Mediaset?

Loro conducono una politica abbastanza media su queste cose: i TG Mediaset hanno fatto, dopo il parziale declino politico di Berlusconi, una politica di maggiore sobrietà rispetto a prima.

Come si sono comportati i social?

I social da questo punto di vista sono un fenomeno molto interessante perché danno più voce alla generazione giovane, e c’è stato pertanto un cordoglio di massa reale che li ha attraversati.

Dopo l’emozione sono comparsi sui giornali degli articoli su un ragazzo indagato per droga che sarebbe stato implicato nella vicenda…

Sì, ma si è parlato soprattutto dello spray. Si rende conto che si sta ripetendo da questo punto di vista la vicenda di piazza San Carlo a Torino? Ci troviamo di fronte a una catastrofe di massa, tra l’altro qui con più morti che a Torino, ma con una dinamica in buona parte simile. In un primo momento ci sono stati quelli del locale che hanno fatto entrare più gente del dovuto, poi si è fatta una parziale marcia indietro. I Carabinieri hanno detto: “A noi lo sbigliettamento risulta regolare, loro dovevano avere 500 posti al massimo e sono stati sbigliettati fino a 500 posti e quindi a noi tutto risulta regolare. Se poi i ragazzi sono entrati a forza, i buttafuori li hanno fatti entrare, non è colpa nostra, e non è colpa neanche dei proprietari del locale.” Insomma, niente di preciso, nessun discorso serio sull’argomento, nessuna responsabilità del gestore del locale e soprattutto delle forze dell’ordine. Ma quando abbiamo un evento con più di mille persone in un luogo per di più piccolo come Corinaldo, di norma i Carabinieri, che sono responsabili soprattutto a livello locale, dovrebbero allertarsi, mandare rapporti, chiedere rinforzi. Non è successo niente di tutto questo prima e durante l’evento. Poi, con la stessa rapidità con cui si erano fatte urla di scandalo su questa gente ammassata, il tutto è scomparso. A questo punto ci si è concentrati sullo spray urticante. Per carità, chi ne fa uso va assicurato alla giustizia, tuttavia, piccolo particolare, un giornale, Libero, ha fatto per diversi mesi una campagna per vendere spray urticanti ai suoi lettori. Quindi questo spray da una parte viene presentato come una cosa che serve a fare atti criminali, dall’altra viene venduto liberamente, e per di più promosso come un’arma di autodifesa senza alcuna riflessione in merito. Quando è in mano a un ragazzo un po’ sballato, drogato, o peggio ancora, poniamo, a un nigeriano, allora è criminalità pura, quando lo vende Libero è autodifesa: di qui l’incongruenza.

Dopo l’emozione secondo me c’è stato un rimosso dovuto alla strage di Strasburgo. Concorda?

Assolutamente, ma questa è la caratteristica della cronaca, che distrugge le emozioni subito dopo averle create, anche se ce ne sono alcune che durano più a lungo ed altre che sono più brevi. Se però non ci poniamo neanche interrogativi seri questa dinamica è ulteriormente rafforzata. Nessuno dopo i primi passi ha fatto alcunché. Il Ministro degli Interni non si è fatto vivo. Vogliamo parlare delle forze politiche? Abbiamo sentito qualche dichiarazione da parte loro? Naturalmente il primo responsabile era il Ministro degli Interni che è sempre pronto a parlare di tutto, ma lì no. Il problema di Matteo Salvini è che si esagera questo suo fascismo facendone quasi un personaggio più grosso di quello che è. Salvini è un cialtrone che raccoglie tutta la popolarità che riesce quando va bene, e quando non va bene sta zitto e magari va in Israele e diventa improvvisamente filoisraeliano e poi però sta accanto a CasaPound che è antisemita, e non si pone il problema della contraddizione dei suoi atteggiamenti. Inoltre è un ministro, e come tale, prima di fare dichiarazioni, si dovrebbe consultare con gli altri ministri, visto che non è il Presidente del Consiglio. Sempre Salvini è un autentico cialtrone che ha un peso enorme nei media dovuto al fatto che riesce a conquistarsi popolarità su questi con il suo gioco continuo di dire e non dire, di fare il più razzista dei razzisti, di farsi fotografare sorridente accanto a un ragazzino nero, di citare Martin Luther King, ecc.. Siamo di fronte a una specie di esasperazione del fenomeno Berlusconi. Però ricordiamoci che questo signore sarebbe il Ministro degli Interni, colui che dovrebbe dire ai Carabinieri “Dove eravate?”, colui che avrebbe dovuto aprire un discorso politico sulla cosa. Tutto ciò non è avvenuto, in quanto in Italia non c’è un discorso politico. Noi abbiamo un problema di responsabilità del ceto politico, perché è inesistente, si tratta di figure raccogliticce venute fuori dal nulla e che torneranno nel nulla il prima possibile. Se vogliamo poi parlare di ceto politico del PD, anche questo è inesistente o incapace. Io credo che questo ceto politico inesistente, venuto dal nulla e che andrà nel nulla, sia una delle maggiori responsabilità di molti fenomeni, anche di come è stata presentata la tragedia di Corinaldo. In questo frangente avrei visto anche la presenza del Presidente della Repubblica in segno di solidarietà con quei ragazzi. Qui c’è stata un’inadeguatezza di fronte all’evento, che sta diventando un problema gravissimo della stampa perché una tragedia così esce dagli schemi e non si sa più come trattarla.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Peppino Ortoleva

 

Gianfranco Marrone: “Umberto Eco e la TV, uno slittamento dal primo al terzo scaffale”

“Umberto Eco  e la TV, uno slittamento dal primo al terzo scaffale”

Escono per “La nave di Teseo” tutti gli scritti del semiologo bolognese sulla televisione

Nel corso degli anni uno slittamento dell’interesse di Eco nei confronti del fenomeno televisivo dal primo al terzo scaffale, cioè dal campo della ricerca filosofico – sociologico – comunicativa a quello del commento giornalistico a caldo. Sei fasi, che ha attraversato sempre il semiologo bolognese, nello studio della TV. Poi, una semiologia non spicciola, ma implicita, quella su Mike Bongiorno, scritta nel periodo in cui Barthes in Francia scriveva il suo Miti d’oggi sulla nascente società di massa. Inoltre, un’estetica della televisione valida solo se vista come teoria dell’esperienza sensibile. Il grande linguista Roman Jakobson sempre implicito, presupposto, anche se solo una volta esplicitamente citato. Una guerriglia semiologica dovuta alla discrasia tra codice dell’emittente e codice del destinatario, cosa che porta quest’ultimo ad avere un ruolo attivo e anche di resistenza al messaggio stesso. L’Esperimento Vaduz come idea sperimentale promossa dalla Rai su idea di Eco per verificare gli effetti che tre contenuti simili (un immaginario scontro politico – religioso) potevano avere sugli spettatori se veicolati tramite testi diversi. Infine, la tv – verità in cui la verità dell’enunciato è del tutto soggetta a quella dell’enunciazione, enfatizzando il puro momento comunicativo, a discapito di quello che, in concreto, il discorso svolto vuole o può dire.

Con queste parole Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, commenta la raccolta di saggi di Umberto Eco, Sulla televisione. Scritti 1956 – 2015, da lui curata ed edita da La nave di Teseo.

Lei ha scritto che nei lavori di Umberto Eco sulla televisione si potrebbero individuare sei fasi. Ce le potrebbe illustrare?

“Certo: riprendo in questo la postfazione al libro. Per comodità, possiamo suddividere il lavoro di Eco sulla tv in sei diverse fasi. Queste fasi hanno un valore temporale, poiché scandiscono tappe diverse di un itinerario di ricerca, ma per certi versi possono anche essere intese come altrettante prospettive critiche su un medesimo oggetto, sguardi o metodi che colgono, dietro un fenomeno comunicativo e sociale apparentemente unitario, una molteplicità di problemi e di livelli d’analisi. Potremmo comunque nominare e datare queste sei fasi come segue: (i) fase estetico-sociologica, che va grosso modo dal ’56 al ’64, in cui si mettono in relazione i problemi estetici della ripresa diretta con una definizione sociologica della tv; (ii) fase semiologica, dal ’65 al ’68, in cui si approfondisce il ruolo del pubblico, tra analisi comunicativa del messaggio e interpretazione sociologica dell’effettiva ricezione; da qui, tra l’altro, le critiche al determinismo tecnologico di Marshall McLuhan e l’elaborazione di una precisa teoria dei linguaggi visivi applicabile al mezzo televisivo; (iii) fase criticoideologica, dal ’68 al ’73, durante la quale la critica all’ideologia della cultura di massa porta all’ipotesi pratica di una guerriglia semiologica; (iv) fase testuale, dal ’73 all’84, nel corso della quale il nesso teorico codice-messaggio viene sostituito con quello testo-cultura; vengono affrontati problemi relativi alle forme narrative, all’enunciazione televisiva e ai suoi effetti di reale, sino ad arrivare alla definizione della neo-televisione; (v) fase etico-estetica, dall’85 grosso modo al 2000, in cui le osservazioni sui valori veicolati dalla comunicazione televisiva divengono tutt’uno con quelle sulle forme testuali da essa assunte: l’autoreferenzialità della neo-tv pone cioè numerose questioni di carattere più che altro etico, come quelle della cosiddetta tv-verità, dei processi giudiziari in diretta, del nesso tv-politica e simili; l’ipertrofia dell’applauso si fa figura di una profonda povertà di valori sociali; (vi) fase postmediale, riguardante il periodo dal 2000 in poi, dove il mezzo televisivo inizia a entrare in crisi e, soprattutto, ad aver difficoltà nell’essere riconosciuto come medium a sé stante, mescolandosi con altri possibili, non ultima la rete.

Accade insomma che l’interesse di Eco nei confronti del fenomeno televisivo tenda progressivamente a slittare – per usare i suoi stessi termini – dal primo al terzo scaffale, a passare cioè dal campo della ricerca filosofico-sociologico-comunicativa a quello del commento giornalistico a caldo, di natura più che altro etica e politica. Diversamente da quel che ha sostenuto recentemente Aldo Grasso recensendo – per altro generosamente – il libro (https://www.corriere.it/cultura/18_dicembre_03/umberto-eco-scritti-televisione-la-nave-di-teseo-a84043ca-f722-11e8-bd62-81aafd946bf7.shtml?fbclid=IwAR3vqt8yy5CxKQ1Yy5iYRL8X0w4mcRQ5rDjk9uJTaE3Ov-ucNQ_ENG7k6hQ), io ritengo che questo passaggio si concretizzi giusto nel momento della costituzione della semiotica come disciplina autonoma, con oggetto e metodo ben definiti: se in Eco l’abbandono di uno studio specifico della tv coincide con l’assunzione della teoria semiotica, è anche perché i problemi che l’universo televisivo ha posto all’estetologo e allo studioso di comunicazioni di massa hanno sollecitato l’intervento di una prospettiva di ricerca più ampia ed efficace, una prospettiva generale sul senso umano e sociale che né l’estetica né la sociologia della comunicazione potevano e sapevano, per così dire, assumere in proprio. Prospettiva che ha poi esteso i problemi del fatto televisivo, e le categorie per interpretarlo, ad ambiti di ricerca molto più ampi e diversificati”

Un saggio come quello su Mike Bongiorno è, per così dire, semiotica spicciola… È d’accordo con quanto da me affermato?

Non so se sia spicciola, ma è sicuramente una semiotica implicita. Se pure nel titolo Eco usa il termine ‘fenomenologia’ rinviando ironicamente alla filosofia di Husserl e compagni, è

Gianfranco Marrone

evidente che ricostruisce il personaggio di Bongiorno allo stesso modo in cui in quegli stessi anni, in Francia, Roland Barthes scriveva le sue mitologie sulla nascente società di massa. Cioè un modo semiologico. Del resto, quel che è importante per lui nelle trasmissioni a quiz di Mike Bongiorno non è tanto l’uomo reale quanto il modello di cultura che veicola: insignificante, acritica, sostanzialmente anti-intellettuale. E il problema sta proprio nel fatto che la tv genera modelli che, poi, la gente, prende a imitare. In altri termini il problema non come la tv rappresenta il sociale ma quel che genera nel sociale”.

La musica, la radio e la televisione, nonché Appunti sulla televisione, entrambi comparsi in Apocalittici e integrati del 1964, parlano dell’estetica della televisione. In proposito dicono che criticarla sarebbe come giudicare tout court artistica o non artistica una casa editrice, mentre questa è fatta di scelte editoriali, come appunto i palinsesti Rai. Sono parole pionieristiche…

Dipende da che cosa si intende per ‘estetica’, termine assai ambivalente: se lo si intende come teoria dell’arte o come teoria della formatività (come fa Eco riprendendo Pareyson), ovviamente la televisione non vi ha nulla a che vedere. Ma se lo si intende come teoria dell’esperienza sensibile, allora, forse, le cose cambiano. Oggi quante estetiche di case editrici potremmo ricostruire?”

Nei saggi degli anni Sessanta Eco si rifaceva molto alla teoria comunicativa indicata da Jakobson citandolo solo una volta. Come mai?

“Jakobson è uno dei punti di riferimento costanti del pensiero semiotico di Eco; forse non lo cita nei saggi sulla tv perché lo dà per scontato, o forse per dimenticanza, certamente non per disprezzo. Per esempio, tutta la critica a McLuhan presente nel saggio ‘Per un cogito interruptus’ non fa che usare la teoria della comunicazione di Jakobson”

Già nel 1967 Eco parlava di guerriglia semiologica, tema che ha ripreso anche in saggi successivi…

“In quegli anni, contemporaneamente al lavoro di edificazione della semiotica, per quel che riguarda specificamente la televisione si ha in Eco l’assunzione di un nuovo sguardo analitico, questa volta maggiormente attento agli esiti ideologici delle comunicazioni di massa e della tv in particolare. E se da un lato Eco si esercita a svelare i meccanismi retorici sempre più evidenti che veicolano un’ideologia sempre più massificante, da un altro lato propone, se non un rimedio, senz’altro una tattica di risposta. È appunto l’idea della guerriglia semiologica. Se nel caso della comunicazione estetica, per Eco, l’ambiguità è sempre voluta dall’emittente (dunque il messaggio ha una struttura aperta che consente al destinatario di riempirlo con sue interpretazioni), nelle comunicazioni di massa l’ambiguità, anche se ignorata, è sempre presente. È la vastità e la differenziazione interna del pubblico, come abbiamo visto, a provocare quella discrasia tra codici dell’emittente e codici del destinatario che porta a continue, inevitabili forme di decodifica aberrante. Ma questa caratteristica delle comunicazioni di massa, dice Eco, se da un lato deve essere per quanto possibile eliminata alla fonte, dall’altro può essere sfruttata all’arrivo. Diversamente da quanto ritengono sia gli apocalittici sia gli integrati, secondo i quali il telespettatore riceve passivamente quel che viene trasmesso, il pubblico può assumere in positivo la sua costitutiva capacità di decodifica aberrante, e vivere felicemente questa specie di involontaria esteticità che è propria dei mass media. Come il cannibale trasforma l’orologio che non sa usare in ciondolo da portare al collo, senza per questo dover essere considerato necessariamente selvaggio o ignorante, allo stesso modo il telespettatore può mettere in gioco la propria batteria di codici e sottocodici per distorcere tatticamente i messaggi televisivi, costruendo da sé le trasmissioni che vuol vedere, riarticolando il senso che preferisce consumare e di fatto usando la tv come un’opera aperta”.

Nella sua famosa distinzione tra apocalittici e integrati Eco nominava, tra gli integrati, anche Marshall McLuhan di Understanding Media (1964), citando, tra le sue fallacie interpretative, quella di non aver fatto distinzione tra canale, forma del messaggio e codice. Tuttavia poi, nel suo Note per un museo della televisione del 1968, proponeva un tipo di museo interattivo molto simile a quello preconizzato da McLuhan e Harley Parker in un seminario tenuto al Museum of the City of New York nel 1967. In che modo si può spiegare tutto questo?

“Non è che Eco non amasse McLuhan, solo che, come dicevo prima, riteneva scorretta la sua teoria della comunicazione, e in particolar l’idea di assimilare il messaggio al canale. Il fatto che lo usi nel saggio sul museo ne è la dimostrazione.”

Ci può parlare del cosiddetto Esperimento Vaduz, tenuto nel 1974 dalla Rai?

Si tratta di un’indagine sperimentale affidata dalla Rai all’Istituto Gemelli di Milano, che prende le mosse da un’idea di Eco: piuttosto che vedere quali diverse reazioni possono presentare pubblici diversi di fronte alla medesima trasmissione, perché non vedere in che modo una comunità di telespettatori può reagire di fronte a tre diverse versioni dello stesso servizio d’attualità? Eco scrive così tre diversi testi a carattere documentario-giornalistico su un fatto mai accaduto ma fortemente verosimile: scontri politico-religiosi che sottendono conflitti di classe a Vaduz, capitale del Liechtenstein, tra valdesi e anabattisti. I tre testi forniscono della notizia anche una certa interpretazione (dietro la religione sta il denaro), ma a seconda del diverso modo di raccontare e presentare i singoli eventi che compongono l’episodio questa interpretazione viene più o meno velata e può più o meno cambiare. La veridicità dell’informazione viene in qualche modo legata alla progressiva estetizzazione del modo di presentarla: laddove la prima versione segue i fatti nella loro successione cronologica normale, la seconda introduce soste e flash-back che tendono a drammatizzare la narrazione, e la terza usa un montaggio alla Godard che suggerisce l’idea che l’autore ha dei fatti di cui parla. A una progressiva rinuncia della narrazione comune si accompagna dunque una crescente dose di complessità formale, su cui si sofferma l’attenzione del solo spettatore colto, ma che in ogni caso viene apprezzata dall’intero pubblico. Quel che si trasforma, con l’esperimento Vaduz, è soprattutto il modo di impostare il problema comunicativo: non si tratta più di vedere se e in che modo un pacchetto di informazioni passa da una fonte a un ricevente. Si tratta invece di valutare l’efficacia comunicativa di determinate forme testuali: è l’articolazione interna del testo, in tutti i suoi livelli e aspetti, a prospettare determinati atteggiamenti ricettivi”.

Gli ultimi articoli di Eco sulla TV sono per lo più Bustine di Minerva e quindi poco più di illuminanti appunti ma, proprio in queste Bustine, viene affrontato il problema della TV – verità…

Il tema della tv – verità ben rappresenta l’intreccio di etica e di estetica che caratterizza la quinta fase. In una ‘bustina’ Eco per esempio si pone dal punto di vista di un etnologo che deve studiare i modi di comunicare di una popolazione, i Bonga, la quale ignora l’arte della presupposizione e dell’im­plicito” L’effetto di straniamento è totale, e si capisce che i Bonga sono i telespettatori della neo-tv ormai abituati persino alla spiegazione dell’e­videnza. Scrive Eco: “noi incominciamo a parlare e usiamo ovviamente delle parole, ma non abbiamo bisogno di dircelo. Invece un Bonga che parla a un altro Bonga inizia dicendo: ‘Attento che parlo e userò delle parole’”. Sembra una satira di Brecht: “I Bonga su ogni casa scrivono anzitutto ‘casa’, poi con appositi cartellini indicano i mattoni, il campanello, e scrivono ‘porta’ accanto alla porta”. Questo “ossessionante bisogno di precisazioni”, rileva però l’etnologo, non è determinato tanto dal fatto che i Bonga sono di scarso comprendonio, quanto semmai dal loro culto della rappresentazione, tale per cui “debbono trasformare tutto in spettacolo, anche l’implicito”. La stupidità, dunque, non è la causa di quel loro modo di comunicare, ma semmai il suo effetto. E lo si vede soprattutto dal loro modo di far televisione: “I Bonga chiedono che la televisione mostri la vita vera, così come è, senza finzioni. Gli applausi li fa il pubblico (che è come noi), non l’attore (che finge), e quindi sono l’unica garanzia che la televisione sia una finestra sul mondo. Stanno preparando un programma fatto esclusivamente di attori che applaudono, e si intitolerà Televerità”. Si mostra così come la tv – verità non sia, come si potrebbe pensare, l’antitesi della neo-tv autoreferenziale, ma un suo esito diretto: piuttosto che produrre l’effetto di realtà nascondendo le tracce dell’atto di discorso e lasciando apparire un mondo fattosi da solo, si preferisce enfatizzare giusto il momento comunicativo, a discapito di quel che poi, in concreto, il discorso svolto vuole o può dire. La verità dell’enunciato è del tutto soggetta a quella dell’enunciazione, di modo che ogni patto di veridizione passa dal filtro dell’autoriflessività estetizzante del testo. L’esito è chiaro: credo a quel che mi viene detto perché è spettacolo puro”.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Gianfranco Marrone

Gianfranco Marrone

Tito Vagni: “Fabrizio Corona, Mefistofele contemporaneo che non si pente delle sue colpe”

“Fabrizio Corona, Mefistofele contemporaneo che non si pente delle sue colpe”

Per FrancoAngeli “Abitare la TV”, libro dedicato ai reality e a questa figura della società delle apparenze

Primo focus notiziabile di Abitare la TV. Teorie, immaginari, reality show, edito nel 2017 da FrancoAngeli e scritto da Tito Vagni, docente di Sociologia dei media allo ILUM di Milano, è Fabrizio Corona. Paparazzo e millantatore, già in galera, di nuovo alla ribalta delle cronache per la sua love story con Asia Argento, riscuote credito presso le giovani generazioni in quanto “riesce a scorgere e a sfruttare la disperazione sul volto di un’intera generazione che brama un successo che non riesce a raggiungere seguendo le strade istituzionali.” Mefistofele contemporaneo che non si pente delle sue colpe, può essere accostato a Carlos Herrera, un personaggio della Commédie Humaine di Balzac, cosa che fa affondare le origini della società delle apparenze non all’odierna società dei consumi, ma già al farsi delle metropoli moderne, nel XIX secolo.

Ma Abitare la TV, libro imperniato sui reality, non è solo questo: per esempio si parla degli studiosi italiani che, negli anni ’50 e ’60, si sono occupati a livello teorico di televisione (e qui non si allude solo a Eco). Si citano poi i prodromi del reality show individuati nel drive – in e nei silent movies di Andy Warhol in quanto visione distratta di un’immagine in movimento. Si verifica la differenza tra le star del cinema e quelle televisive, individuando specifiche tipologie come quelle dei tronisti di Uomini & Donne o degli amatori di Amici e XFactor. Infine, si “polemizza” con chi considera come generato dal basso solo il Contenuto Generato dagli Utenti tipico dei social, mentre per Vagni i new media sono solo il momento terminale della “presa della parola” della gente comune che ha i suoi prodromi già nel ‘700 con Goethe, che nel romanzo La vocazione teatrale di Wilhelm Meister ha raccontato la figura del dilettante.

Lei mette al centro della sua riflessione “alcuni momenti che rappresentano la “pre – e la post – storia” del reality show, inteso come il momento in cui culminano i presupposti e le speranze della comunicazione televisiva.” Potrebbe chiarirci questo aspetto?

Per quanto mi riguarda, il concetto benjaminiano di “pre – e post-storia” è sia una chiave di lettura per comprendere la storia e i fenomeni sociali sia un disegno metodologico di ricerca di straordinaria precisione. Ho provato a fare mio questo modo di riflettere e analizzare i fenomeni culturali fissando lo sguardo sui reality show dei primi anni Duemila e ricercando la loro gemmazione culturale nelle mode e nei consumi della vita metropolitana dell’Ottocento, e, allo stesso tempo, individuando i suoi sviluppi più attuali nei riflessi dei social network. Benjamin chiamerebbe questa ricostruzione non lineare, basata sullo sguardo del ricercatore, una “costellazione”. McLuhan, in Understandig Media, la definisce una configurazione, con la quale si compie una “transizione dalle connessioni lineari alle configurazioni”.

Il reality è quindi per me il punto di arrivo di una cultura basata sulla primazia dello sguardo, delle apparenze e dell’opinione nata con la metropoli moderna, ed è in egual misura – come scrive Alberto Abruzzese nell’introduzione al mio libro – il portale di accesso alle nuove pratiche negli ambienti digitali come Facebook o Instagram.

Perché il primo capitolo del suo libro è dedicato agli studiosi italiani che negli anni ’50 – ’60 si sono occupati di televisione?

Il primo capitolo è stato scritto dopo un lungo lavoro di recupero di una bibliografia italiana oramai poco utilizzata, a cui mi sono interessato primariamente perché credo che valga la pena dedicarsi a letture intelligenti piuttosto che a novità che rincorrono il presente più estremo senza dire molto, e poi perché mi interessava capire se nelle origini del linguaggio televisivo si potessero rintracciare i prodromi dell’avvento del reality show.

È stato un percorso molto utile perché quegli studiosi stavano vivendo un momento di passaggio dall’era del cinema a quella della televisione e, come ogni transizione, stavano provando a capire con una grande profondità di ragionamento – e con il supporto fondamentale di istituzioni come la RAI – in quale direzione si stesse andando. In questo senso, il dibattito sullo “specifico televisivo” – che all’epoca rappresentava un tema centrale – era rivelatore di una comprensione profonda dei funzionamenti dell’industria culturale e dei fenomeni di rimediazione di cui tanto si è parlato e si parla oggi. Peraltro, nel libro, propongo di definire questi studiosi – Guido Guarda, Renato May, Stefano D’Oglio, Angelo D’Alessandro, Umberto Eco – una vera e propria “Scuola italiana” di studi sulla televisione, molto influenzata dalle ricerche francesi sul cinema, ma sicuramente all’avanguardia nel panorama scientifico internazionale.

La visione distratta di un’immagine in movimento quale quella cinematografica ha dei prodromi nei silent movies di Andy Warhol e nella nascita dei drive – in…

In un passaggio bellissimo della Dialettica dell’Illuminismo, Adorno e Horkeheimer spiegano che il cinema ha una particolare logica formale che impedisce allo spettatore di distrarsi. Il cinema è tecnicamente una successione di immagini statiche che, proiettate con un ritmo rapidissimo, vengono percepite dallo spettatore come un’immagine in movimento. Per comprendere l’ultimo fotogramma e seguire il filo della narrazione, occorre aver visto il frame immediatamente precedente. Per tale ragione il regime scopico del cinema stabilisce con il pubblico un rapporto totalitario, di dipendenza: il pubblico in sala è irrigidito nel suo ruolo di ricevente.

A me pare, al contrario, che la televisione funzioni fin da subito in modo completamente differente, instaurando un regime di distrazione permanente. La fruizione del film nella sala cinematografica è vincolata ad un rigido codice di comportamento, necessario per creare le giuste condizioni di fruizione. La fruizione televisiva avviene, invece, in un luogo domestico, dove per prima cosa il pubblico si appropria dello schermo. Lo può usare senza rispettare alcun galateo. Le parole e le immagini che fuoriescono dallo schermo televisivo come un flusso inesauribile di comunicazione creano un rivestimento dell’ambiente domestico e proiettano il pubblico in una dimensione televisiva. Paddy Scannel definisce questo fenomeno “raddoppiamento dei luoghi”, perché la realtà in situ e la realtà televisiva iniziano a compenetrarsi.

Questa modalità di appropriazione della fruizione attraverso la distrazione mi pare si possa scorgere già nelle prime esperienze del Drive-in, vale a dire in un cinema che prevedeva una fruizione più informale – le auto costituivano un luogo privato incasellato in uno spazio pubblico – durante la quale era possibile mangiare, amoreggiare con la propria compagna, o di parlare con i propri figli.

Mi sembra di poter dire che Andy Wharhol avesse percepito bene queste nuove necessità del pubblico e per tale ragione con i suoi “silent movies” dei primi anni Sessanta, realizzò dei film fuori da ogni tradizione cinematografica – anche se l’estetica di questa opere è molto simile quella dei primi film dei fratelli Lumière – e mettendo lo spettatore che guarda al centro della scena. Una forma di reality ante litteram, ancora mutilato dalle velleità dell’arte sperimentale. Basti osservare uno di questi film intitolato “Sleep” e si penserà subito di essere sintonizzati sul Grande Fratello.

Qual è la differenza tra le star del cinema e quelle televisive? Che ruolo assumono in questo senso figure come quella del tronista di Uomini & Donne o degli amatori di Amici e XFactor?

Quando si pronuncia la parola star vengono in mente i grandi attori cinematografici del passato. Quei corpi anfibi, per metà umani e per metà dei, che hanno monopolizzato l’immaginario collettivo dagli anni Venti del Novecento fino a qualche decennio fa. La loro caratteristica era quella di essere distanti dall’uomo ordinario – sia in termini spaziali sia in termini simbolici – e sulla base di questa distanza incolmabile costruivano la propria aura e il proprio successo. Questo modello divistico nasce e si esaurisce con il cinema. La televisione e, successivamente, blog e social network producono nuove forme divistiche o di celebrità.

Il discorso sarebbe molto lungo, ma provando a sintetizzare si potrebbe dire che la TV, svelando il retroscena dei personaggi pubblici, li umanizza, rendendoli sempre più prossimi all’uomo comune. Del resto, la TV ha la necessità di creare un legame intimo con i telespettatori, perché entra nello spazio domestico e lo fa in ogni momento della giornata. Essa deve quindi mostrarsi un ospite educato e piacevole. È il meccanismo di funzionamento della televisione a produrre, almeno nella mia interpretazione, una nuova forma di celebrità a cui il pubblico si affeziona perché per la prima volta gli viene concessa di accedere alla “fabbricazione del divo”, come nel caso dei Talent, dove lo spettatore accompagna l’ascesa del divo facendone la conoscenza quando è ancora una persona ordinaria. Questo spiega anche il perché l’industria televisiva, attraverso i reality, abbia concesso la ribalta all’uomo comune: la TV ha eroso il prestigio dei divi tradizionali creando le condizioni di possibilità per l’ascesa dell’uomo comune.

Con i social questo meccanismo si potenzia. I blog, agli inizi degli anni Zero, e oggi i social network, consentono un reality show permanente e senza la mediazione del broadcaster, estendendo a tutti la possibilità di mettersi in vetrina, almeno in modo potenziale. A mio avviso oggi si può parlare di una “celebrità diffusa” generata dagli ambienti digitali e dai loro funzionamenti, che non fa scomparire i divi del cinema o della TV, ma li relega a una forma residuale e spesso li costringe a “snaturarsi”, diffondendo la propria immagine anche nella dimensione digitale, seguendo una logica amatoriale.

La televisione ha dei prodromi nella società metropolitana e punto di arrivo nei social, dove la produzione di Contenuti Generati dagli Utenti diventa fondamentale. È d’accordo con questa affermazione?

Come avrà capito, faccio fatica a ritenere “fondamentali” dei fenomeni che solo in apparenza sono nuovi, se non li si inserisce in un sistema di pensiero più ampio. Nell’ultimo capitolo del libro mi dedico alle pratiche amatoriali e, in quel caso, il riferimento, con buona pace di chi vede rivoluzioni dappertutto, è antico. La prima riflessione critica sul dilettante si sviluppa alla fine del Settecento. Goethe, per esempio, ha raccontato con enorme interesse la figura del dilettante nel suo romanzo La vocazione teatrale di Wilhelm Meister e ha scritto sull’argomento, insieme a Schiller, pagine ancora decisive. Ripartire almeno da quel momento storico mi sembra indispensabile per capire dove stiamo andando. Quando ero ancora studente, negli anni in cui si iniziava a parlare di “new media”, il dibattito culturale sembrava esaltare la “presa della parola” dell’uomo ordinario, mentre oggi, le stesse persone o la loro progenie, si dispera per le conseguenze nefaste di quella possibilità, per l’oscenità dei contenuti condivisi sui social o per le cosiddette “fake news”. A me pare che questa fragilità di pensiero sia dovuta a un atteggiamento impulsivo e predatorio nei confronti del presente. Per provare a non scivolare sul nuovismo, credo ci si dovrebbe dare obiettivi più ambiziosi, come suggeriva Neil Postman secondo il quale il medium è un’idea mascherata da macchina, e passare dalla macchina all’idea è il compito di chi vuole ragionare in chiave mediologica sulla cultura e sui fenomeni sociali.

Nel libro dedica una paragrafo a Fabrizio Corona facendo dei riferimenti al realismo francese. C’è qualcosa di sociologicamente significativo nella sua love story (già conclusa) con Asia Argento?

Fabrizio Corona è il prodotto e il simbolo della cultura televisiva che ho descritto nel testo. Ciò che mi colpisce di lui è il credito che riscuote presso le giovani generazioni, un credito apparentemente inesauribile se si considera la sua lunga assenza dalle scene dovuta alla reclusione. La spiegazione che ho provato a dare è che Corona riesce a scorgere e a sfruttare la disperazione sul volto di un’intera generazione che brama un successo che non riesce a raggiungere seguendo le strade istituzionali, mentre l’ex paparazzo, evitando questi percorsi ciechi, agisce su quelle menti con l’intento di svelare i meccanismi dello spettacolo, e senza alcuna volontà di eroderli li piega alla propria mercé, con l’ironia che inonda le grandi menti di ogni epoca, di ogni moda. I giovani che seguendo le proprie illusioni e vogliono accedere alla dimensione televisiva si affidano a questo Mefistofele contemporaneo, divenendo soggetti eterodiretti.

In Abitare la TV accosto la sua figura a quella di Carlos Herrera, un personaggio della Commédie Humaine di Honoré de Balzac, grazie al quale mi è divenuto chiarissimo che la cosiddetta società delle apparenze, che secondo molti è figlia della televisione commerciale o dei social network, affonda le sue radici nella vita delle metropoli moderne, in cui, come dice magistralmente Balzac, utilizzando quel diavolaccio di Herrera: “tutto è forma”. Corona mi pare lo abbia capito meglio di tutti, e l’ultima sua liaison con Asia Argento non è che l’ulteriore tassello di una identità in continuo movimento che stimola la curiosità del pubblico. Dopo aver visto le mille forme assunte nel tempo da Corona, stavolta si è presentato al pubblico con l’appendice di Asia Argento, una donna dalla storia troppo succulenta per non essere sacrificata sull’altare del successo personale. Corona è come un articolo di moda che prova a reinventarsi per non essere messo da parte. Questa è per me una forma tutta nuova di “cinismo”, vale a dire la capacità di rispondere in maniera patellare alla sovrastimolazione della vita moderna. Una forma di vita nuova, in cui la coerenza e l’identità lasciano il posto ad un io mutante che non sarebbe in grado di riconoscersi guardandosi allo specchio. La televisione, con i suoi cicli produttivi fulminei e con la sua commercializzazione esasperata, ha accelerato il fenomeno e lo ha fatto espandere, trasformandolo in un modello comportamentale. Per questo, fa sorridere il modo in cui Corona viene trattato nei rotocalchi televisivi, in cui sembra che lo si inviti per redirmerlo. Ma Corona non vuole essere redento, Corona è un corpo desiderante, egli riesce a conferire senso ai suoi comportamenti nell’hic et nunc, nel momento stesso del loro consumo, senza rinviarne il processo di significazione all’infinito. Quella di Fabrizio Corona è una vita intrisa di finitudine in cui trionfa lo splendore della sopravvivenza quotidiana.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Tito Vagni