Skip to main content

“Sala o divano, purché si guardino”

“Sala o divano, purché si guardino”

Dai primi ricordi al Covid, un viaggio autobiografico sulla visione di film e serie TV

Roy Menarini

Una chiacchierata per esplorare il viaggio dello spettatore cinematografico nel suo andare e venire dalla sala, sempre più sbilanciato verso una visione domestica dei film, complici le piattaforme, Internet e, buon’ultima, la pandemia.

Un’ibridazione di linguaggi tra cinema e serialità televisiva che ha come inizio il 1991, data in cui esce Twin Peaks di David Lynch, che è una pietra miliare sia per i suoi contenuti, sia per la sua grammatica filmica, appunto cinematic, a differenza delle altre fiction.

Una serialità complessa che nasce appunto con Twin Peaks, e che prosegue praticamente con tutta la fiction contemporanea, che diventa sempre più quality, come ad esempio con Mad Men e, stando in Italia, con 1992, soprattutto per i suoi contenuti che l’accomunano ad un tono epico, quale definito dal collettivo Wu Ming New Italian Epic.

Questi i punti portanti di un discorso su film e fiction a proposito de La grande illusione. Storie di uno spettatore, una quasi-autobiografia di un cinefilo scritta da Roy Menarini, docente di Cinema e industria culturale all’Università di Bologna, ed edita di recente da Mimesis.

Il suo libro si snoda, quasi narrativamente, nel racconto di molteplici modalità di visione dell’oggetto “film” che lo hanno accompagnato dalla sua infanzia alla sua attività di studioso. Emerge che appena la metà dei film in circolazione viene fruita in sala. Anch’io, per esempio, mi compro tantissimi DVD, anche recenti, e in sala ci vado molto poco…Cosa potrebbe dire in merito?

Nella nostra società contemporanea, noi tendiamo a pensare che tutto stia accadendo solo al momento. Però, se pensiamo anche solo a trent’anni fa o anche di più, scopriamo che all’epoca al cinema si cominciava ad andare molto meno: comparivano i VHS, a cui sarebbero seguiti i DVD.

Poi, la possibilità di vedere i film in televisione c’era già da molto tempo, e quindi si è creata una generazione di autori e non solo di spettatori che ha imparato a vedere i film lontano dalla sala cinematografica. Il caso più noto è quello di Quentin Tarantino, che ha una cultura enciclopedica della storia del cinema che lui ammette di avere imparato principalmente in video perché non aveva modo di vedere tutti i film europei in America, se non attraverso dei video e dei DVD.

Non bisogna pertanto demonizzare questo aspetto, è normale che al cinema in sala si affianchino altre modalità di visione. Ovviamente trent’anni dopo, nel 2022, la possibilità di vedere i film a casa si è moltiplicata, perché ci sono le piattaforme, gli abbonamenti, Internet che non c’era fino a 25 anni fa, e quindi ovviamente adesso è ancora più piccolo lo spazio del cinema su grande schermo e lo è diventato ancora di più, recentissimamente, a causa della pandemia.

Però ecco, e lo ribadisco, non bisogna pensare che sia un male vedere i film fuori dalla sala. Siamo di fronte a quello che alcuni chiamano iperspettatore, uno spettatore che, se può andare in sala nella magia del grande schermo, nel rito della sala buia insieme agli altri, ha sicuramente un grande piacere, se non può farlo utilizza la possibilità di vedere i film in supporto casalingo, cosa che è comunque cultura cinematografica.

Nel mio volume faccio anche un percorso da quando ero bambino, alla fine degli anni ‘70, dove i film si potevano avere solamente in sala o in televisione, fino ai giorni nostri, quando a questi due mezzi se ne sono affiancati molti altri.

In un capitolo del suo libro lei afferma, che il 1991, data della messa in onda in Italia di Twin Peaks, costituisce una pietra miliare. Infatti è il momento in cui prende campo con forza l’autorialità nella serialità televisiva, e comincia, sempre più forte, una commistione tra cinema e fiction. Inoltre lo spettatore guarda sempre più narrazione audiovisiva dal divano di casa…

Credo che, anche se Twin Peaks continua ad essere molto celebre, non abbiamo ancora detto abbastanza della sua importanza. Lo definisco un big bang per le serie televisive,

perché esso non ha semplicemente inventato una serie televisiva adulta, originale, complessa, ma ha rivoluzionato il piccolo schermo, ha portato proprio il linguaggio del cinema dentro la televisione. Ha voluto fare per esempio movimenti di macchina molto raffinati, ha voluto usare il buio, che per Lynch è molto importante nel grande schermo, e l’ha utilizzato anche sul piccolo schermo, cosa che era un tabù, ha usato le panoramiche e i campi lunghissimi che sono quella cosa che si usa quando si ha un grande schermo a disposizione, e quindi ha contraddetto le regole della televisione. E poi, aggiungiamo anche, ovviamente, i temi, molto forti, molto dark, che Lynch ha portato in Twin Peaks. Quindi credo che quella sia stata una rivoluzione straordinaria, uno strappo nella storia dell’audiovisivo e penso che ancora oggi, dopo tanti anni, un po’ tutte le serie televisive più adulte, più importanti, debbano qualcosa a quell’inizio, o quantomeno debbano sapere che Lynch è stato il primo a fare in modo che pian piano la serialità televisiva potesse essere un guardare il cinema a fronte alta e riuscire a fare delle cose che vi potessero rivaleggiare. Ecco, questo è un po’ lo scenario che abbiamo oggi: di fronte ai nostri occhi le serie televisive sono numerosissime, sono troppe, non riusciamo neanche a tenerne il conto, però di fronte c’è anche un pubblico ormai molto esigente, perché le considera un altro aspetto del cinema o una mescolanza con il cinema, come dicevamo.

E The Young Pope di Sorrentino docet…

Ecco, The Young Pope è un altro esempio… Lynch ha anche detto ai registi di cinema che potevano fare delle serie televisive, quindi non era più una cosa di serie B. Lo hanno seguito Paolo Sorrentino e tantissimi altri, come Marco Bellocchio e Steven Sodeberg: ne potremmo elencare molti che hanno capito che ormai le serie erano un luogo di immaginazione e, tra l’altro, con la possibilità di avere molte ore a disposizione per raccontare una storia, la serie diventa anche un luogo di sperimentazione narrativa e formale.

Sorrentino in The Young Pope e poi The New Pope, con le due stagioni ha proprio creato un universo estetico molto ampio e con circa dieci ore per stagione, che non sono paragonabili alle due ore di un film. Ogni linguaggio ha le sue specifiche, non è che uno sia meglio dell’altro, però è chiaro che quando un autore ha carta bianca e tante ore a disposizione può veramente cesellare il suo mondo narrativo.

Si può dire che molte serie tv vengano definite cinematic e complesse proprio a partire dal periodo citato sopra. Cosa ne pensa? Come cambia il rapporto tra autore cinematografico e televisivo? E come cambia la visione dei due prodotti?

È un’articolazione di quanto dicevamo, nel senso che non dobbiamo pensare solo ed esclusivamente ai grandi autori o a grandi registi: il mezzo seriale diventa uno strumento per raccontare la realtà, la contemporaneità. E anzi, in alcuni casi, le serie televisive sono state proprio capaci di intervenire più rapidamente del cinema per raccontare la realtà, la realtà politica, sociale e la realtà contemporanea nella sua generalità. È ovvio che nel tempo, poi, queste serie TV, queste modalità di fare serie TV, hanno anche creato dei modi di fare, delle enciclopedie di comportamenti. È interessante che gli attori dicano che una cosa è girare al cinema, una cosa è girare in televisione, per chi fa teatro un’altra ancora è fare teatro… Quindi ormai è un linguaggio specifico che si gira con delle camere, con il set, con tutto quello che è anche il cinema, ma che chiede ai personaggi, per esempio, di costruire psicologicamente delle figure che poi hanno di fronte a sé un lungo viaggio narrativo, come dicevo prima, non solo quello di una o di due ore, che non è certo facile da costruire, ma che insomma ha un arco di trasformazione psicologica molto più ridotto.

Quindi credo che proprio tutti gli aspetti siano messi in gioco e anche in Italia abbiamo fatto molti passi in avanti da questo punto di vista e c’è una generazione di autori, di sceneggiatori, di figure professionali che circola intorno alla cosiddetta serialità quality, di qualità che hanno portato anche il prodotto seriale italiano ad avere standard elevati, soprattutto per la sua capacità di impattare la realtà politica e sociale di cui parlavo prima.

Parlando del linguaggio filmico, le serie tv sono diventate più cinematic oppure hanno mantenuto il loro linguaggio “televisivo”? Per esempio, Mad Men è stata definita cinematic, cioè con un taglio cinematografico, anche dal suo stesso creatore, Matthew Weiner. Infatti essa segue una qualità cinematografica con un linguaggio della Hollywood classica, per esempio nelle inquadrature… Assolutamente sì. Come dicevo, le regole televisive preesistenti a questo grande periodo della serialità erano regole molto stringenti, molto rigide: basti vedere le serie televisive degli anni ‘70 e ‘80 per rendersi conto che potevano anche essere divertenti come cult, come vintage, però ovviamente non sono complesse come quelle di oggi e quelle degli ultimi decenni. Le serie recenti sono cinematic nel senso che pescano dal linguaggio cinematografico tutte le potenzialità, tutte le possibilità che offre il linguaggio cinematografico e le sue estetiche, per cui Mad Man è un esempio molto concreto di un film, di una serie che sembra un film che possiamo considerare in costume, perché è ambientata negli anni Sessanta. È cinematic nella scenografia, nei costumi e tutto il resto, così come tutte le luci, la raffinatezza, l’illuminazione, la musica, la recitazione, i movimenti di macchina da presa.

Ecco, anche una serie recentissima per adolescenti, ma, come dire, anche molto adulta, molto cruda, che si chiama Euphoria, è un esempio concreto di questa qualità cinematic, in questo caso per i movimenti di macchina da presa incredibili, sorprendenti. E poi, nelle ultime puntate di questa stagione, la colonna sonora non è una colonna sonora creata appositamente, ma è stata realizzata con brani preesistenti di Ennio Morricone, Nino Rota e altri grandi compositori europei a dimostrare appunto che queste serie, anche apparentemente lontane, anche americane, pescano nel patrimonio della storia del cinema e sanno diventare cinematic.

La serie 1992 si può definire cinematic? Anche questa a me è sembrata molto classica a livello di inquadrature, con pochi espedienti come il ralenti quando viene inquadrato il gruppo del pool di Mani Pulite con una carrellata a precedere… Quanto si è avvicinata anche l’intuizione degli sceneggiatori e dei loro registi a qualche modello cinematografico? Loro, per esempio, si rifanno direttamente a Mad Men, sperando di essere arrivati a quei livelli, anche se ovviamente non ci sono riusciti. Come valuta complessivamente 1992, che lei ha accostato al New Italian Epic o NIE, una corrente letteraria italiana che va dal 1993 al 2008 e che il collettivo Wu Ming ha citato a proposito di opere letterarie quali Gomorra e Romanzo criminale? Esso diceva addirittura che un racconto epico del NIE appunto, è complesso e transmediale, e affermava questo nel 2008, quando mancavano vari anni ancora al Complex TV (2015) di Jason Mittel…

Sì, infatti quello è un saggio molto importante secondo me che spiega tante cose di quello di cui stiamo parlando. Credo che 1992 debba essere un po’ contestualizzato, nel senso che sono d’accordo che dal punto di vista formale non abbia degli elementi rivoluzionari o non sembri discostarsi troppo dalla serialità dalla fiction, diciamo così italiana, senza contare che ci sono dei valori produttivi più alti, che magari non si esprimono attraverso il linguaggio, la grammatica, ma sono modelli produttivi piuttosto forti.

Tuttavia, quello che cambia veramente con 1992, prima ancora con Romanzo Criminale e altri esempi di questo tipo, è proprio l’approccio che adotta questa serie italiana. Questo, per intenderci, non è certo il tipo di prodotto che non avrebbe mai potuto essere programmato dalla Rai, perché ha una forza politica molto evidente, che entra dietro le quinte del potere, che ha un modello che ovviamente non può essere raggiunto, appunto Mad Men, ma che, come dire, è un modello anche di interpretazione controversa della politica italiana recente. E quindi, figuriamoci, poi con la figura di Berlusconi in mezzo, tutto questo porta a distinguere 1992 da serie precedenti o comunque a fargli trovare il suo posto in questa direzione.

Credo che Wu Ming sia riuscito a intuire quello che stava avvenendo in quegli anni, perché proprio negli stessi anni avevamo Sorrentino che faceva attraverso Il divo una visione anche qui invece formalmente molto sorprendente della prima Repubblica e quindi la raccontava in maniera strana, epica, straniante e sorprendente come non si era mai visto prima.

E possiamo aggiungere varie opere, come appunto Romanzo criminale e Gomorra, che hanno dato vita a un altro universo che conosciamo bene… Intendo dire che fino a quel momento la politica, la mafia, la corruzione eccetera erano raccontate attraverso le forme del realismo in Italia. È quello che spiega Wu Ming e che si è realizzato poi in queste serie, mentre adesso ci sono altri strumenti, anche più spettacolari, per parlare di questa cosa, ma gli strumenti seriali come 1992 e i suoi seguiti, come Romanzo criminale e Gomorra, si sono rivelati i migliori per parlare a un pubblico nuovo.

Come valuta 1994, la terza stagione della serie? Con la figura di Pietro Bosco, deputato leghista che uccide l’assassino del padre, non sembra che viri un po’ nel melodrammatico?

Diciamo che arrivati a quella stagione vi era l’esigenza di trovare una chiusura di varie storie: i creatori non erano neanche certi di arrivare al ‘94, anche se 1992 era stata pensata come una trilogia. Quindi probabilmente a quel punto gli elementi un po’ più melodrammatici, diciamo, hanno preso il sopravvento su quelli che citavo prima. Non è niente di poco dignitoso, ci mancherebbe altro, 1992-1993-1994 è comunque una serie che ha concluso in piedi. Però, ecco, la differenza tra la prima e la terza stagione si sente abbastanza chiaramente, la terza si tinge di crime per far contento il pubblico…

Il Covid ha portato un mutamento di paradigma nella visione dei film in sala, provocando spessissimo un appiattimento sulle piattaforme che mandano in onda, senza soluzione di continuità, sia fiction che film, molto spesso prodotti da loro stesse (penso al caso Netflix). È d’accordo con quanto affermato?

Sì, sono d’accordo: magari non è stata una cosa che ha cambiato tutto, ma ha intensificato qualcosa che stava già accadendo, ha portato alle estreme conseguenze lo scenario da cui avevamo cominciato, appunto quello del rapporto tra lo spettatore domestico e quello su grande schermo. Ancora il sistema cinematografico, in attesa che il Covid sia veramente passato, è in cerca di nuovi equilibri per riportare il pubblico preesistente. Il problema è che la modalità di visione in sala non è una modalità normale al momento, è una modalità con mascherina, a volte con distanziamenti e a volte no, con il green pass, ecc. Insomma, ci sono tutti degli elementi che non sono, come dire, normali o che, anche se le sale cinematografiche sono aperte, ricordano il pre-Covid, sono una situazione eccezionale, mentre la situazione domestica casalinga per fortuna è rimasta uguale. Quindi è rimasto identico come il nostro comportamento per la nostra libertà, per la nostra sensazione di essere a nostro agio. È ovvio che in questa situazione la visione domestica ha prevalso, e le piattaforme, che hanno anche grossa capacità produttiva, hanno cominciato a destinare su piattaforma i film che altrimenti sarebbero in passato andate al cinema. Insomma, il film che sta vincendo tutti i premi e che è il più probabile candidato a vincere l’Oscar, è un film di Netflix, Il potere del cane, di Jane Campion, così come molti altri, come ad esempio È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino. La stessa cosa la sta facendo Amazon Prime, la stessa cosa sta cominciando a farla Apple cinema con Apple TV, e Disney sta producendo film per bambini direttamente sulla Piattaforma Disney Plus senza passare dalla sala. Quindi non è solo un problema dello spettatore, se decide o meno di uscire di casa, è anche il problema che i film possono non arrivare in una sala cinematografica, e quindi, insomma, questi equilibri difficili che c’erano prima adesso sono un po’ sconvolti a favore della visione domestica. È probabile che ci troveremo in futuro in una condizione nella quale da qui non si torna più indietro, ma forse le sale cinematografiche potranno con maggiore libertà di programmazione mostrare sia il cinema del presente sia il cinema del passato, e avere un po’ più di libertà di programmazione per gli spettatori più appassionati.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“Televisione, discutiamo ancora di generi”

“Televisione, discutiamo ancora di generi”

In una Bussola edita da Carocci un breve vademecum sui generi TV

Giorgio Grignaffini
Giorgio Grignaffini

Ibridazione? Un termine polisemico, valido, ma non completamente, per i generi televisivi, che si dividono in due grandi macrogeneri, quelli unscripted (senza copione) e quelli scripted, tipici della fiction. Un significativo cambiamento, nella TV, avvenuto negli anni ’70, con trasmissioni come Portobello, Odeon, L’altra domenica, prodromi di tanti altri format successivi. Mutamenti importanti, negli anni Duemila, con l’avvento degli OTT e dei social, che rimangono però qualcosa a sé rispetto al modello televisivo, sia per le modalità distributive che produttive. Infine, con le nuove tecnologie, scelte produttive divenute possibili per period drama come The Crown, mentre la vera novità sta nelle modalità distributive, con la televisione che si può fruire su molti canali e non solo sul televisore. Questi, in sintesi, i temi trattati da Giorgio Grignaffini, direttore editoriale della Taodue Film, nonché docente presso varie università italiane, nel suo I generi televisivi, edito da Carocci.

Perché parlare ancora di generi (televisivi), in un momento in cui la parola ibridazione sembra fare da padrone, e come lei intende il termine, che appare così polisemico?

Discutere ancora di generi televisivi ha ancora molto senso, anche nel momento in cui si parla di ibridazione, in quanto sono qualcosa di esistente, consolidato, come appunto i generi tradizionali. Poi ci sono i macrogeneri, cioè le grandi suddivisioni dei prodotti televisivi in due categorie, come intrattenimento o unscripted (senza una sceneggiatura) e fiction, appunto scripted (con un copione). Proprio da questa contrapposizione fa scripted e unscripted, potremmo dire che tutto l’intrattenimento leggero come i reality, consiste in tutti quei programmi che non prevedono una sceneggiatura, cioè lo script, che invece è legata al mondo della serialità o del cinema.

C’è questo dualismo, e ci sono i macrogeneri, ancora assolutamente in voga, esistenti, anzi, addirittura che specificano proprio l’offerta di alcuni canali rispetto ad altri. Ad esempio, sappiamo come Netflix sia soprattutto una piattaforma di intrattenimento dove si trovano fiction, cinema o documentari o, anche se in misura piuttosto ridotta, intrattenimento. Siamo sicuri che su Netflix non troveremo l’informazione, le news, mentre se andiamo sulla CNN, al contrario, siamo certi che non ci sarà la fiction. Gli unici canali che ancora mettono insieme in maniera trasversale tutti questi macrogeneri sono le televisioni generaliste, che appunto ti offrono una sera il talk show, una sera il calcio, la sera dopo la partita, il film, il reality, la fiction, ecc.

In ogni caso quindi, anche quando si fa ibridazione da qualche cosa, si dà ancora per scontato che, per esempio, si tratta di un prodotto che sta a metà tra il game e il reality, fra la sitcom e il drama, o tra la soap e la miniserie, oppure si usano ingredienti da soap dentro una miniserie. Ad esempio, una serie molto bella, Succession, in onda su Sky, credo tra le migliori che ci siano adesso, come scrittura e come recitazione riprende alcuni elementi della soap. Parla di una grande saga familiare dove si hanno tante linee narrative di molti personaggi intorno a questo patriarca, questo tycoon che ha una grande azienda. Quindi la serie, pur essendo un prodotto di altissimo livello, fa riferimento a un qualcosa simile a Dallas o Dinasty. Tra l’altro, infatti, proprio il titolo, Succession, è vicino a quello di Dynasty, in quanto significa da una parte la dinastia, dall’altra la successiva.

Tutto questo per dire come in realtà appunto il sistema dei generi, anche se in continua evoluzione, meglio dire in costante rimescolamento, contiene ancora dei capisaldi alla base. Poi è normale, è giusto ed è inevitabile che ciascuno cerchi di dare la propria lettura del genere, però, se guardiamo ai grandi successi della televisione, come il giallo o il poliziesco, o il melodramma, questi sono ancora sempre tra i generi che vanno di più. Poi ci sono i prodotti più difficile da catalogare, come ad esempio Squid Game. Però anche lì poi c’è un’etichetta di genere che ultimamente si è molto diffusa, che è il distopico.

Come Il racconto dell’ancella…

Il racconto dell’ancella è un distopico puro, perché parla di un’altra civiltà, mentre Squid Game lavora più su una possibile evoluzione della nostra società che è anche molto riconoscibile nei suoi tratti capitalistici o ultra capitalistici, con tutto quello che ne consegue in termini di povertà, di esclusione e di violenza. Credo che uno dei motivi del suo successo sia anche quello che comunque, pur raccontando una storia un po’ inverosimile, in Squid Game, forse per noi per fortuna un po’ meno, ma probabilmente di più per la Corea o per i paesi asiatici di un certo tipo, questo mondo così radicalizzato dove è forte la differenza tra chi è dentro e chi è fuori è qualcosa di molto visibile. È un po’ come per Parasite, il film, sempre coreano, che in fondo racconta un presente, per quanto anche lì un po’ forzato, assolutamente credibile, almeno nei presupposti.

Io non sono una conoscitrice profonda del cinema coreano, però, da quel poco che vedo, mi sembra di notare come abbiano un grande trauma collettivo, cioè di avere vicino la Corea del Nord. È un’impressione mia oppure una cosa verosimile?

Ho visto alcuni film ultimamente perché sono molto interessanti e è avvincente conoscere culture diverse e diciamo che in Squid game questo tema viene fuori…

Cioè l’idea della paura della bomba atomica a cento chilometri di distanza…

Il fatto poi che forse noi dimentichiamo è che esiste una linea che separa in due un paese prima unito, ci sono famiglie comunque ancora divise, e per esempio in Squid Game c’è anche un personaggio che riflette questa situazione: si tratta di quella ragazza che è scappata, appunto, dalla Corea del Nord. Non è facile capire questa situazione solo dai film, bisognerebbe riuscire a individuare qual è in profondità il sentimento verso questa situazione; sicuramente per noi sono cose molto lontane, però in fondo è un po’ come la Germania Est e la Germania Ovest… Infatti adesso ce ne siamo un po’ dimenticati, ma fino all’ ‘89 era una situazione pesante, e noi ci rendevamo conto quanto potesse essere drammatica per chi era in Germania in quell’epoca.

Prodotti come questi sicuramente sono molto interessanti e assai diversi da quelli che vediamo sempre: ormai sono anche fatti con una grandissima qualità e notevole coraggio, a livello proprio di scelta di racconto osano guardare avanti.

Lei parla dei prodotti coreani…

Sì, ma anche di altro. La cosa interessante di queste nuove piattaforme come Netflix, Amazon Prime Video, ecc., è che permettono facilmente di vedere delle cose che altrimenti sarebbe difficile trovare sulla televisione normale.

Il primo cambiamento significativo nel sistema dei generi, dopo la tv pedagogica, avviene in Italia dopo il ‘75, con la riforma della Rai e la liberalizzazione dell’etere. La mia è una semplificazione o la storia si è veramente svolta così?

Credo che quello della metà degli anni ’70 sia stato veramente un momento di rottura. Infatti, la televisione fino a quel momento – all’estero come ad esempio in America le cose erano un po’ diverse – in Italia e in Europa (perché altri paesi europei sono simili all’Italia), è mono o bicanale. Da noi c’erano solo due canali della Rai, però con un unico editore. Ciò eliminava la concorrenza, nel senso che non c’era nessun tipo di “spinta”, tra virgolette, concorrenziale, quindi in qualche modo, nonostante venissero fatti anche dei programmi molto interessanti, non c’era quella ricerca del successo che poi è subentrata. Poi uno può anche criticare, ma questo ha portato ad un maggiore dinamismo.

In Italia si sono verificate delle cose incontrovertibili, come la nascita delle televisioni private, anche quelle piccole, che provavano a fare delle cose nuove. Poi c’è stato pure un programma simbolo in quegli anni, ’77-’78, che è ha veramente rivoluzionato la televisione italiana che è Portobello, in cui ci sono dentro le idee di quasi tutta la televisione che è venuta dopo. A Portobello andavano le persone comuni, cosa che poi è diventata la norma, nel senso che non era lo show dove c’erano solo i cantanti, i comici, i ballerini, cioè i professionisti. A Portobello andavano persone comuni che cercavano marito, e quindi c’era l’idea di quello che dopo sarebbe diventato il dating show, c’erano quelli che cercavano i parenti che avevano perso di vista, cosa che poi dopo è stata fatta da C’è posta per te e da Carramba che sorpresa! Poi venivano effettuate le dirette, le telefonate in diretta, anche quella prima grande novità, perché c’era l’idea che fossero le persone comuni a diventare protagoniste. Portobello è stato veramente rivoluzionario, perché tutta la televisione dei reality, anche di un certo tipo di talk show dove c’è il pubblico presente, è tutta contenuta già in questo programma, che è stato veramente un caso unico. Erano presenti i cervelloni, quelli che portavano le invenzioni strampalate, ecc.: insomma, a Portobello si trovano gli spunti per tantissimi format successivi.

A parte Il grande fratello, che è stata forse l’altra grande rivoluzione dopo vent’anni, perché qui parliamo del ’77-‘78, mentre per quest’ultimo del ’99, ci troviamo di fronte a una grande innovazione della TV italiana. Il grande fratello, al di là del fatto che può piacere o non piacere, ha introdotto l’altra grande rivoluzione, ha portato alle estreme conseguenze l’idea di portare delle persone comuni in televisione e di rinchiuderle insieme in una casa. Sempre negli anni ’70 nascono poi dei programmi come L’altra domenica, su Raidue, con Arbore, che era molto trasgressiva, anche con dei comici che all’epoca erano super-innovativi, come Roberto Benigni. Poi nasce un rotocalco televisivo come Odeon, che ha portato dei contenuti e uno stile di realizzazione che ha fatto scuola, e anche dei contenuti molto trasgressivi, se si pensa alla prima serata di una tv di stato italiana del ’75-’76 (penso, ad esempio, al servizio sul Crazy Horse, che avevano fatto scalpore).

Ecco, credo che in quel periodo c’è stato un notevole fermento creativo, molta voglia di fare, che rispecchiava quello che stava succedendo in Italia, un’Italia che usciva dal ’68, che aveva energie, conflitti, pulsioni, in un periodo complesso ma comunque molto ricco di fermenti, anche con tanti drammi come il terrorismo. Si è trattato pure di un periodo assai vivace dal punto di vista creativo.

Quali innovazioni si sono verificate negli anni Duemila con l’avvento degli OTT e dei social media come YouTube?

Il mondo è cambiato e continua a cambiare quasi giornalmente. Dal punto di vista dei generi, tutto sommato, come dicevo prima, non è che siano mutati in maniera radicale, nel senso che poi sostanzialmente le piattaforme – parliamo delle piattaforme di streaming ma anche delle pay-tv – non hanno inventato delle cose nuove a livello di contenuti (sostanzialmente fanno dei generi classici). Con i social media effettivamente si entra in un altro mondo: se parliamo di YouTube di Tik Tok, di questi social in cui le persone producono, si auto-realizzano dei contenuti che vengono diffusi, metodologicamente faccio un po’ fatica a inserirli nella stessa categoria analitica della televisione, perché sono totalmente diversi sia come modelli produttivi e distributivi. L’analogia tra i due sta nel fatto che condividono al massimo il loro essere audiovisivi, cioè nel senso che sì, ci sono le immagini, i suoni, però poi tutto il resto è spesso molto diverso ed è difficilmente paragonabile. Infatti non c’è un emittente unico, ma una condivisione immediata, spesso ci sono anche pochi mezzi, e quindi si ha pure una logica di fruizione completamente diversa e quindi sì, parlando da analista, li sento un po’ diversi.

Faccio fatica ad inserirli, come dire, nella stessa parrocchia della televisione o dello stream, proprio perché sono prodotti spesso anche non professionali. Poi hanno un successo enorme, ma sono modelli di produzione e di distribuzione talmente diversi che a metterli insieme si fa molta fatica. Se uno vede un video di Tik Tok, risulta difficile infatti il paragone con una serie tv, con un film, o con un reality.

In ogni caso, prodotti come questi sono dei fenomeni importantissimi-penso ai videogiochi, che sono un comparto di straordinaria importanza a livello economico e a livello mondiale – c’è un giro d’affari dai videogame agli spot, gli electronic spot che sono pazzeschi, che hanno un volume d’affari superiore a quello di Hollywood, però costituiscono un altro modo di intrattenere.

Molto spesso esistono i prodotti dei fan che vengono a influenzare anche i prodotti televisivi (parlo soprattutto delle serie televisive, dove si possono anche avere delle ricadute, da parte dei fan che postano sui social, sulla trama stessa)…

Dal punto di vista analitico è quello che io e Nicola Drusi abbiamo analizzato nel nostro libro Capire le serie Tv, in cui parliamo proprio di questa sorta di contaminazioni e di riusi, di remake e di riutilizzi che fanno gli spettatori, i fan, che vanno a prendere contenuti seriali per farne delle proprie rielaborazioni. Però, quello che abbiamo anche cercato di dimostrare nel nostro lavoro, è che comunque c’è sempre questa matrice originaria televisiva. Si operano cioè dei riusi, ma partendo da un testo di riferimento che è quello della serie, che comunque fa da guida. Analogamente, la parodia, la satira, funzionano a partire da un testo precedente, ed esse sono interessanti per il fatto che sono derivazioni dal testo originario, cioè la serie.

Invece c’è tutta una produzione autonoma sui social, enorme, con un sacco di contenuti che nascono per i social indipendentemente da altri testi, e quelli appunto bisognerebbe studiare a sé e creare delle categorie ad hoc, cosa che non sono nemmeno in grado di fare, nel senso che sarebbe un lavoro enorme di mappatura e di rilevazione di quello che accade, che è sempre in mutamento e che pertanto è difficile da stabilire.

Forse per fare questi studi ci vorrebbero dei metodi quantitativi…

Sì, però anche dal punto di vista delle forme espressive si potrebbe fare una categorizzazione. In questo libro sui generi televisivi sono riuscito a muovermi su un terreno che è mio a livello professionale, per cui so quello che c’è e come funziona. Per quanto riguarda i social, faccio un po’ più fatica, anche anagraficamente, e non nascondo che i giovani, i ragazzi, siano molto più smart, molto più veloci, più reattivi, in quanto ci vivono dentro…

Poi i social sono in una evoluzione così veloce che, mentre della TV si può fare una storia, in quanto va avanti per decenni, più o meno, qui si dovrebbe fare una storia che va da tre mesi in tre mesi, perché quello che esisteva un anno fa probabilmente è già passato di moda. Ad esempio, se prendiamo Facebook, i ragazzi di quindici anni non sanno quasi più cos’è, ormai esso è un social per adulti, mentre sette o otto anni fa era il più usato dagli adolescenti.

Quale genere televisivo (fiction, informazione, entertainment, cultura) ha subito più cambiamenti in seguito alle nuove tecnologie? Forse la fiction?

Beh sì, se intendiamo nuove tecnologie, come gli effetti speciali. Questi, cioè l’effettistica, sicuramente danno la possibilità di usare effetti digitali anche per la fiction. Hanno offerto la possibilità anche alla televisione di affrontare una serie di generi narrativi che prima erano molto difficili da fare in TV, come la fantascienza, il fantasy e comunque tutte le ricostruzioni storiche. Infatti, adesso per esempio con il green screen, quindi per le riprese su sfondo, a cui poi vengono aggiunti gli sfondi “reali”, così come con i ritocchi digitali, le modifiche che si possono fare sono incredibili e sempre più credibili. Attualmente si può realizzare a costi più contenuti una serie come Il trono di spade, cosa che un tempo era impensabile, perché sarebbe costata tantissimo, in quanto si sarebbe dovuto ricostruire tutto, usare le comparse vere, gli sfondi, ecc. Ora invece con il digitale si può fare una serie come The crown: per quanto riguarda ad esempio la scena sull’incoronazione della Regina Elisabetta, se uno vede il backstage su YouTube, mentre sullo schermo avveniva tra due ali di folla nella cattedrale, invece in realtà è stata fatta tutta in green screen con solo dieci persone e poi è stato rielaborato in digitale. Queste innovazioni tecnologiche hanno reso possibile portare in televisione dei generi che fino a 10, 15 anni fa sarebbero stati impensabili, in quanto sarebbero costati uno sproposito.

Poi, ci sono anche delle innovazioni su altri generi: c’è tutta la questione dell’interazione digitale che può riguardare anche l’intrattenimento, come i talent. Si pensi a un talent come come X Factor, dove i social, con l’interazione di voto, il televoto, che adesso si fa con Internet, gioca un ruolo importantissimo.

Comunque, la vera innovazione tecnologica, più che i generi in sé, consiste nel fatto che adesso non abbiamo più la necessità di vedere la televisione a casa, ma la possiamo guardare ovunque, in treno, per strada, sul telefono, su iPad: possiamo vedere quello che vogliamo, quando vogliamo e dove vogliamo. Questa sicuramente è una grande rivoluzione, ma lo è più di distribuzione che di contenuto, perché io posso vedere un programma come Beautiful che esiste da 30 anni, ma invece di vedermelo su Canale 5 alle due del pomeriggio me lo posso guardare in spiaggia sul telefono un mese dopo la messa in onda, anche se si tratta sempre dello stesso programma.

Dal punto di vista dei generi quindi non è cambiato molto…

No. Ad esempio, con la pandemia, abbiamo visto come anche l’informazione abbia potuto continuare ad esistere in televisione, per esempio con gli ospiti di un talk show o di un telegiornale. Così, invece di essere intervistati in presenza, con le nuove tecnologie essi potevano intervenire da casa. Abbiamo avuto così tantissime interviste di esperti, di qualunque tipo, che si inserivano nei programmi ciascuno da casa sua, con il proprio computer: queste cose qui, sicuramente, fino a qualche tempo fa erano molto più complicate, si potevano realizzare, ma solo telefonicamente, con molta difficoltà e con esiti non sempre eccezionali. Insomma, adesso ci si vede in faccia, si fa la ripresa e noi siamo tutti collegati, connessi.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“Film e fiction, parliamo sempre di narrazioni”

Uscite per Carocci due Bussole, uno sulla settima arte, uno sulla sua sorella minore, la TV

Una videointervista, anche se mediata dal digitale, più “naturale” del campo-controcampo del cinema classico, che però viene percepito dallo spettatore come un dispositivo immediato e spontaneo. Ancora, l’insistere sul carattere narrativo dell’”oggetto” film, che rimane tale anche nel cinema d’avanguardia. Infine, il prodotto cinematografico come distinto da quello seriale in quanto autoconcluso in due ore, mentre una fiction può durare teoricamente all’infinito. E tutto questo anche nel caso di innesti, spesso fecondi, tra serie TV e film.

Di questo e di altro si è parlato, appunto in una videointervista, con Andrea Bellavita, docente di Storytelling e Fiction TV all’Università dell’Insubria di Varese, e con Andrea Bernardelli, che insegna Semiotica e Teoria delle Narrazioni all’Università di Perugia. I due hanno scritto a due mani Che cos’è la narrazione cinematografica, edito nel 2021 per Carocci, ma la chiacchierata ha preso le mosse anche dal testo di Grignaffini – Bernardelli, Che cos’è una serie televisiva, (2020), sempre per Carocci, per una proficua incursione nello statuto della fiction.

In quanti modi si può affrontare l’”oggetto” film?

BELLAVITA. All’interno del libro abbiamo affrontato l’”oggetto” film dal punto di vista della narrazione: esso si può approcciare infatti da tanti punti di vista, da quello del linguaggio, all’aspetto teorico, alla sua dimensione storica. Partendo dal punto di vista della narrazione, abbiamo dato un’impostazione di tipo storico, nel senso che anche la narrazione cinematografica segue un’evoluzione storica, cioè cambia nel tempo.

Noi studiosi di cinema, di storia del cinema, dobbiamo tener presenti tutte le fasi e tutte le caratteristiche del prodotto filmico. Lo spettatore, invece, nella stragrande maggioranza dei casi, a meno che non sia uno studioso, un appassionato di cinema, è concentrato sul modello contemporaneo, localizzato dal punto di vista storico e anche della narrazione.

Uno degli aspetti interessanti di chi studia cinema è vedere che cosa delle forme della narrazione delle fasi precedenti rimane anche nei film contemporanei. Noi abbiamo fatto una suddivisione tra cinema delle origini, classico, moderno e postmoderno. Una delle osservazioni che si possono fare è che esistono tracce di narrazione classica all’interno del cinema postmoderno, nelle sue varie tipologie, così come ci sono elementi di modernità del racconto che rimangono anche dopo questa corrente cinematografica. La storia del cinema è un percorso di tipo diacronico-evolutivo, in cui alcuni elementi permangono a livello sincronico.

Io mi sono occupato dunque dell’inquadramento storico, Bernardelli, invece, che è il massimo esperto a questo riguardo, dell’aspetto narratologico. La narratologia è una disciplina che studia ogni forma di racconto nelle sue diverse declinazioni: abbiamo provato a vedere quali sono gli elementi linguistici tipici del film che costruiscono la narrazione. Ci sono tutte le diverse fasi della preparazione pre-filmica, quella che va dal soggetto, al trattamento fino alla sceneggiatura, poi c’è la dimensione di produzione che è la ripresa e la scelta di tecniche di ripresa particolari-tutto ciò implica naturalmente una forma di narrazione-, infine c’è la post-produzione, che sarebbe il montaggio. Con il montaggio si arriva alla versione definitiva e più conclusa del racconto.

L’ultimo tra i punti di vista che abbiamo analizzato era il genere. Nel cinema, riferendosi alla letteratura, si dice che il genere è una forma che si basa sul riconoscimento da parte del pubblico. Questo impara, dalla storia, dall’esperienza, a riconoscere in un film certe caratteristiche, e ha delle attese nei confronti di una tipologia di cinema. Nel momento in cui il film risponde a una serie di attese, si definisce il riconoscimento, da parte del pubblico, di quel genere. E a generi diversi corrispondono strutture di racconto differenti.

BERNARDELLI. Io mi sono occupato di scrivere di narratologia, ma di una narratologia di base, essendo questo un manuale. Ad esempio non ho parlato della narratologia cognitiva, perché la cosa sarebbe stata troppo complessa. Di fatto la traccia era sempre quella, fare un manuale sul cinema che avesse come filo rosso la narrazione. È venuto a mancare un interessante capitolo sulle nuove frontiere, ma purtroppo lo spazio del volumetto era quello che era.

BELLAVITA. Hai ragione. L’altro aspetto che è rimasto fuori è quello dell’autore, perché normalmente, quando si lavora sul genere, è frequente dargli come prospettiva anche quella dell’autore. La cifra su cui avevamo pensato di lavorare era su una serie di autori, tutti contemporanei, che fossero esemplari. Per esempio, il cinema di Eastwood è esemplarmente neoclassico, o meglio classico-classico, che è diverso dal racconto alla Tarantino, da quello di registi come Nolan, come Fincher, ecc.. Comunque, ci saremmo mossi in un modo del tutto confrontabile con la letteratura: come è possibile conoscere lo stile di un romanziere, allo stesso modo si può individuare lo stile di racconto di un regista. Riconoscere da tutti i punti di vista, nel senso che lo riconosce lo studioso, ma anche lo spettatore.

Quest’ultimo sa cosa si trova di fronte a un racconto di Tarantino, a un nuovo film di Nolan, ecc. Il pubblico sa perfettamente che una storia gli verrà raccontata da un autore che ha imparato a conoscere e di fronte al quale si pone nelle condizioni di seguire il suo racconto.

Si può dire che il montaggio, partendo dai piani autarchici degli anni Dieci del ‘900, è stato un fattore fondativo per il cinema? Qual è stata la sua evoluzione?

Andrea Bernardelli

BELLAVITA. Si potrebbe arrivare a dire che il montaggio è l’essenza narrativa del cinema. Ogni prodotto audiovisivo ha una dimensione narrativa, e anche ogni prodotto visivo la ha in sé. L’audiovisivo ha una duratività, ed essa implica una trasformazione. Nel libro ci siamo concentrati su quello che si può definire il cinema narrativo, cioè quello che esplicitamente racconta una storia, e che quindi mette al centro dell’evoluzione dei personaggi il contenuto del film. Abbiamo così lasciato da parte tutte le forme di cinema sperimentale, di cinema d’arte, per certi versi pure il cinema documentario. Anche in tutte queste tipologie di cinema esiste la dimensione narrativa, ma un volume che vuole essere una soglia d’entrata all’argomento deve operare delle semplificazioni. Tuttavia, dovrà vedere che cos’è narrazione: c’è narrazione anche nella camera fissa di Warhol, nel cinema contemporaneo di Lav Diaz o in certo cinema sperimentale, che lavora sull’annichilimento del racconto. Piuttosto che lavorare per differenze, abbiamo preferito puntare al bersaglio del cinema narrativo.

Al suo interno il montaggio è la cifra essenziale, perché il montaggio è quello che mette in sequenza tutto ciò che si è girato. Tralasciando tutta la fase iniziale, cioè il cinema dell’attrazione (anni Dieci del ‘900), si possono delineare alcune caratteristiche del cinema “classico”. Esse sono la trasparenza, l’immediatezza: lo spettatore non deve percepire la finzione, anche se in realtà la coglie benissimo, ma deve sublimare questa percezione, cioè non deve avvertire il lavoro che sta dietro il montaggio, deve vedere tutto come se fosse la cosa più naturale possibile. Questo è uno straordinario paradosso: se io vedo un campo-controcampo per un dialogo, in realtà sto guardando la cosa più innaturale del mondo, perché vedo prima un attore poi l’altro, mentre nella realtà non è così. Invece, quello che stiamo facendo noi in questa videointervista è naturale, perché ci sono tre persone che condividono lo stesso spazio, per quanto digitale.

Quanto da lei affermato riguarda il cinema classico hollywoodiano…

BELLAVITA. Sì, il montaggio di questo tipo è formalizzato nel cinema classico hollywoodiano, che è alla base di ciò che noi intendiamo per montaggio e che oggi vediamo sempre, anche nella fiction seriale. Questa è la fase più pura e più semplice del montaggio.

Quello moderno, invece, non lavora più sulla trasparenza, ma sull’opacità, e quindi si deve vedere la mano, la caméra-stylo, si deve vedere la presenza del lavoro, e quindi il montaggio gioca anche sulle infrazioni, sul tempo perso, sulle peregrinazioni, sul pedinamento.

Il montaggio postmoderno, invece, opera sull’accelerazione, che significa spezzettamento delle inquadrature, e la moltiplicazione dei punti di vista.

Nel vostro testo voi esaminate, tra le tante tipologie del prodotto filmico, soprattutto la sua narratività. Quanto invece essa è assente nei cosiddetti film “sperimentali”, e quanto ha informato il cinema “classico,” intendendo con questo termine anche il cinema moderno degli anni Quaranta-Sessanta della cinematografia europea?

BERNARDELLI. Rispetto a quello che diceva Bellavita, nel testo mi sono trovato di fronte alla necessità di identificare, da un punto di vista narratologico, un corrispettivo cinematografico del narratore, della voce narrante. Non è un caso che molti teorici, tra cui Gaudreault, l’abbiano identificato nel montaggio, che sarebbe quel momento nel film in cui emerge la guida di una voce narrativa, quella che ha un corrispettivo nel letterario. La cosa che ho fatto io nel libro è stata appunto quella di identificare, rispetto alla già nota narratologia del letterario, i dispositivi corrispondenti nell’ambito cinematografico.

BELLAVITA. Sono assolutamente d’accordo. Forse l’unica cosa che si può aggiungere è che il modello della narrazione moderna è forse quello che si è più storicizzato, cioè che si è più concluso. Quel tipo di racconto lo ritroviamo ancora oggi in certo cinema d’autore, che volutamente ed esplicitamente rende omaggio a quella modernità (quella di Truffaut, di Godard, del Neorealismo, ecc.). Non usiamo il termine “si è concluso, si è superato”, diciamo che si è storicizzato, per cui viene ancora utilizzata quella forma di narrazione ma come un omaggio, un’esplicitazione, un riferimento. La si trova moltissimo anche in tanto cinema contemporaneo di genere statunitense, quello da Sundance. Curiosamente, anche film come Malcolm & Marie, che va su Netflix, che ha avuto un successo straordinario e che è cinema puro, ma cinema da piattaforma, è un omaggio quasi letterale per certi versi al Disprezzo di Godard. È un film che parla di cinema e che ha tantissimi elementi che sono proprio di una narrazione francese pura, godardiana.

Qual è il rapporto tra film e serie televisive? Quali sono i metodi di analisi per due prodotti apparentemente così vicini, ma ognuno con caratteristiche peculiari (prima tra tutte, la lunghezza)?

BERNARDELLI. Agli inizi si parlava di nuove serie TV di qualità, ma non si capiva bene cosa si intendesse con quel termine. Si diceva cioè che le serie TV della fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila fossero molto cinematic, ovvero molto cinematografiche. Si affermava cioè che le caratteristiche tecniche delle serie TV cambiavano in direzione del cinema, non fosse altro per quei tanti registi, sceneggiatori, attori, che si volgevano dal cinema alla serialità.

Il rapporto tra fiction e cinema c’è, c’è continuità, nel senso che le serie TV hanno ricevuto una bella iniezione di qualità dall’ambito cinematografico. Per quanto riguarda le caratteristiche peculiari delle due forme, più che la lunghezza, conta il diverso ritmo, cioè l’esigenza proprio diversa della serialità televisiva di tenere in piedi una narrazione lunga, o che tale si presuppone debba essere, anche se per motivi produttivi una serie può essere chiusa e durare una stagione sola. Il principio formale di costruzione della serie TV è che deve continuamente tenere in piedi una costante fidelizzazione dello spettatore, per cui c’è un ritmo molto diverso da quello del film, che in due ore circa deve chiudere un arco narrativo. Il formato della fiction, 40-50 minuti, deve potersi chiudere e potenzialmente riaprire ogni volta. Al di là del cliffhanger, che è il trucchetto della sospensione del finale di ogni episodio, preso dall’ambito delle soap opera, in realtà è proprio questa continua tensione, questa curiosità che lo spettatore della serie TV deve tenere attiva e che deve essere alimentata da un certo tipo di ritmo di costruzione narrativa.

BELLAVITA. La fiction lavora sempre sull’equilibrio tra due modelli narrativi, uno verticale e uno orizzontale, con infinite possibilità di combinazione, dal massimo della verticalità, la sitcom e il procedural, al massimo della orizzontalità, la soap. In mezzo ci sono tutte le possibili combinazioni: la complex TV, la supersoap, la serie di qualità, chiamiamola come vogliamo, è un modello di serialità che ha una strutturazione sostanzialmente orizzontale ma che poi, per tante ragioni, non ultima quella di attirare, come diceva Bernardelli, sempre l’attenzione del pubblico, lavora su innesti con la cultura verticale.

Attualmente, quando si parla di complex TV o quality TV, si parla anche di tecniche di ripresa cinematografiche. Come valutate tutto questo alla luce di period drama complessi come Mad Men? Esso infatti usa un décupage classico, estremamente lineare, mentre la stratificazione avviene soprattutto a livello di introspezione psicologica e di costruzione della trama…

BERNARDELLI. Mi veniva in mente, rispetto all’idea che si usano tecniche tradizionali di ripresa dal punto di vista formale, una serie TV, True Detective, che ha colpito tutti per questi aspetti, la ricercatezza, la raffinatezza formale, a volte quasi dei virtuosismi (in un episodio ci sono 12-14 minuti di piano-sequenza). Se la trama di True Detective nella prima stagione era piuttosto banale, un noir con tracce di mistery e una spolveratina di horror, dal punto di vista formale colpiva molto proprio anche per questi aspetti della raffinatezza, dell’uscire dalla tradizione. Penso invece a Colombo o a La signora in giallo, che dal punto di vista delle riprese e del montaggio non tendevano certo a creare qualcosa di nuovo.

BELLAVITA. Se non mi sbaglio, era proprio l’episodio 6 della prima stagione di True Detective quello del piano-sequenza, girato da Cary Joji Fukunaga, che poi non ha fatto una grande carriera come regista di cinema.

Tornando alla fiction seriale in genere, essa oggi è molto eterogenea: per esempio, Lost è già storia. Quando esce, essa costituisce qualcosa di innovativo, e ancor prima lo era stata Twin Peaks, e in precedenza Miami Vice¸ che ha l’intento visivo di Michael Mann, anche se non era stata direttamente girata da lui.

Tutte le volte che una personalità autoriale si avvicina al mondo della fiction fa qualcosa di strano. Rivisto adesso, Lost è assolutamente tradizionale, anzi è un po’ sorpassato. Oggi ci sono lavori, in termini di costruzione del racconto, che sono tutt’altro che tradizionali. Pensiamo a una serie come Fargo, allo sviluppo delle serie antologiche: attualmente c’è veramente di tutto. Prendiamo, ad esempio, una serie contemporanea come la tedesca Hausen, che di fatto è una Twin Peaks ambientata in un palazzo popolare della ex DDR: essa lavora tutta, fino all’iperbole, sulla frantumazione del racconto. Altro esempio, Apple TV ha appena fatto uscire Calls, che è una serie di nove episodi di 22 minuti tutti parlati, chiamate telefoniche senza immagini.

Pertanto, la complex TV contemporanea, e tra un po’ dovremo trovare un termine che superi il concetto di complex, così come complex superava quello di quality TV, oggi ha davvero una molteplicità di soluzioni, sia in termini di scrittura, che di ripresa, che di montaggio. Però, di fianco a questo, ci sono decine e decine di serie che sono le più tradizionali del mondo. C’è tanto prodotto superclassico, e poi c’è tanto prodotto propriamente innovativo.

Nicola Dusi e Giorgio Grignaffini, che lei ha già intervistato, nel loro ultimo volume Capire le serie TV, hanno un capitolo molto interessante. In esso vanno proprio a vedere, in casi come The Young Pope, Gomorra, Il nome della rosa, come questi showrunner, questi scrittori, questi montatori, questi registi (in casi come Sorrentino, un regista di film a tutti gli effetti), utilizzino delle tecniche squisitamente cinematografiche per far evolvere il modello del racconto TV seriale in una dimensione sempre più ricca.

Come valutate una serie come Mad Men, che ha una bibliografia sterminata per quanto riguarda i contenuti, lo stile, le tematiche femministe, ecc.? La cosa a cui mi sembra gli studiosi non abbiano guardato a sufficienza è la sua tecnica di ripresa molto lineare, con una struttura da soap opera, perché con una multiplot narrative. Al contrario, tutta la sua innovatività risiede nella complessità dell’intreccio, nell’introspezione psicologica, nello stile…

BELLAVITA. Mad Men è quella che potrebbe essere definita super soap, cioè una struttura completamente orizzontale con poca verticalità di episodio, quindi il modello raffinato, super, della soap. Non c’è dubbio che, tranne alcuni episodi, alcune situazioni, alcune immagini, Mad Men abbia una struttura narrativa a tutti i livelli, di montaggio e di scrittura, piuttosto classica, la profondità la fanno tutti gli altri aspetti. Mad Men è una delle serie sulla quale, secondo me, si è scritto di più, anche perché contiene un aspetto, cioè il concetto di nostalgia, che è il motivo per cui anche io la sto riprendendo e analizzando.

In proposito si potrebbe citare l’ultimo, famoso episodio della prima stagione, The Wheel (La ruota del destino), quando Don Draper pubblicizza il proiettore di diapositive della Kodak…

BELLAVITA. L’episodio simbolico è proprio quando Don Draper fa la campagna pubblicitaria per questo prodotto: su questo hanno scritto veramente tutti. Di Mad Men si può dire tutto tranne che sia nostalgico, cioè che guardi con favore a ciò che è accaduto prima. Quello che affronta la serie è un modo di vedere il passato per capire le criticità del presente.

BERNARDELLI. Mi viene in mente che una serie forse da mettere in parallelo con Mad Men, anche se lontana temporalmente, è l’italiana Made in Italy. Anche qui c’è il senso di nostalgia per quello che era il mondo della moda degli anni ’70-’80 e anche lì c’è un recupero quasi filologico degli abiti, di quell’epoca. Però lì forse c’è una visione quasi positiva, nostalgica in senso proprio, del tipo “Quant’era bello allora e quanto invece è confuso e complesso adesso”. Sia Mad Men che Made in Italy sono serie storiche. Un convegno organizzato a Varese, dove io e Bellavita ci siamo conosciuti e che era intitolato “Storia e televisione”, era incentrato proprio sul fatto che, attraverso la fiction televisiva, si faccia anche storia, recupero di ciò che è stato in passato. Sono, Mad Men e Made in Italy, di sicuro due serie nostalgiche, più o meno critiche…

Un’altra cosa interessante in Mad Men si ha quando Don Draper, nella puntata finale della sesta stagione, davanti a un gruppo di executive esterrefatti, fa la pubblicità della barretta di cioccolato Hershey. Qui racconta della sua infanzia in un bordello, e come la barretta Hershey, che si procurava attraverso degli spiccioli che gli dava una prostituta, è un modo per ricordare. Questa volta, però, l’idea del ricordo è rovesciata negativamente rispetto alla nostalgia “positiva” del prodotto Kodak…

BELLAVITA. Mad Men è tutto fatto di giochi di questo tipo, il passaggio dal presente al passato, cioè il presente e il passato dei personaggi in scena, e quindi tra il presente dello spettatore e il passato raccontato nella serie, di andare e venire apparentemente, di stabilire dei punti, che apparentemente sono nostalgici, anche perché poi la base della nostalgia è il famoso surface realism, il realismo di superficie e il deliberato arcaismo. Questi due elementi sono le due componenti che definiscono il concetto di nostalgia, cioè il non approfondimento, ma il realismo superficiale, e poi la rappresentazione del passato come deliberato arcaismo, quindi di tipo elegiaco. Mad Men apparentemente fa questo lavoro, ma tutte le volte che ci fa guardare indietro, lo fa mostrando un lato oscuro.

BERNARDELLI. Ogni tanto però la serie è anche didascalica. Mi ricordo che nella prima stagione Mad Men citava la famosa pubblicità della Volkswagen che era stata geniale, quella del “Think small”, quella in cui la VW Beatles era definita piccola, e così rappresentata graficamente, perché era una vettura piccola per il mercato statunitense. Ne parlava anche Umberto Eco in un suo famoso saggio sulla pubblicità: nel caso della Volkswagen Mad Men fa storia della pubblicità, e lo fa in modo neutro, cioè non c’è né il senso della criticità, né il senso della nostalgia. Un manuale di pubblicità con meccanismi semplicemente espositivi del passato.

TV series, soprattutto quelle della terza Golden Age (primi anni Duemila), quindi come filiazione o evoluzione del cinema?

BELLAVITA. No, TV series, quelle della Golden Age dei primi anni Duemila, come evoluzione della storia della fiction seriale. La fiction seriale nasce essenzialmente nel 1950, e ha un percorso evolutivo lunghissimo, che arriva fino ai nostri giorni. Il vero discrimine è che attualmente, all’interno della fiction seriale, lavorano moltissime professionalità (registi, sceneggiatori, tecnici, attori), che condividono anche l’esperienza cinematografica.

BERNARDELLI. Sì, poi ci sono dei fenomeni come Sorrentino, che si mette a fare The Young Pope e The New Pope. Tuttavia, casi come questi costituiscono un esperimento fino a un certo punto, nel senso che i registi trasportano il loro stile cinematografico nella serialità televisiva, non cambiando qualcosa, ma semplicemente facendo un cameo di loro stessi, con il loro stile, il loro modo di fare fiction. Certo, la presenza di persone provenienti dal cinema ha alzato un po’ il tiro, come dicevi tu.

Ho visto The Undoing, quella miniserie andata in onda su Sky Atlantic, che era farcita di attori hollywoodiani famosissimi, come Nicole Kidman e Hugh Grant. Tuttavia, la trama è molto deludente: si tratta di un thriller molto interessante ma molto tradizionale, con un finale piuttosto scontato. Non è che in questo caso il passaggio del materiale umano, soprattutto attori, dall’ambito hollywoodiano abbia poi realmente inciso, semplicemente è stato realizzato un bel prodotto “laccato”, perfetto, ma niente di che.

BELLAVITA. Sono due fattispecie diverse, nel senso che ci sono casi molto particolari come quelli di Sorrentino, di Guadagnino, di Lynch, ecc., che giustamente fanno una mithology series, cioè una fiction in cui il regista porta dentro il prodotto seriale tutta la sua mitologia pregressa. Casi come questi saranno sempre più frequenti, questa sarà probabilmente una delle evoluzioni della fiction seriale, ma finora si tratta di casi molto particolari. Poi ci sono forme di travaso, che dal massimo al minimo arrivano a prendere degli attori per farli recitare in una fiction, come The Undoing. Si arriva poi fino a Fincher o a registi che si prestano a dirigere alcune puntate di qualche TV series, ed è chiaro che lì vedi una mano diversa, ed un valore aggiunto. Tuttavia, il cinema rimane un’altra cosa, dove, attenzione, non si tratta di una questione qualitativa, ma di qualcosa di diverso. Sono due sport diversi proprio dal punto di vista narrativo. Il cinema costruisce la narrazione in un certo modo, la fiction in un altro, anche se dal cinema alle serie televisive ci può essere un travaso di professionalità, di esperienze, di immaginari. Secondo me le TV series sono l’evoluzione della fiction seriale, che strutturalmente è seriale, che dialoga molto con il cinema, che è però un’altra forma, perché ha una struttura narrativa di tipo puntuale e circoscritto. Ovviamente, ci sono punti d’incontro: Il Marvel Cinematic Universe è sicuramente un punto d’incontro, perché è un mondo, un vecchio mondo narrativo che ha declinazioni cinematografiche puntuali, che ha saghe in cui è implicita la consequenzialità, l’orizzontalità tra un film e l’altro, ha serie TV molto diverse tra loro, perché i prodotti Marvel per Netflix sono molto diversi da quelli per la Disney e da quelli per i canali generalisti. Casi come questi, tuttavia, sono, secondo me, piuttosto circoscritti.

MARIA GRAZIA FALÀ

“Cinema Made in Italy, tra mainstream e Festival”

“Cinema Made in Italy, tra mainstream e Festival”

Uscita per Carocci una miscellanea sul destino dei film italiani all’estero

Massimo Scaglioni

Una ricerca, quella sulla diffusione dei film italiani all’estero, che ha riguardato Francia, Svizzera, Regno Unito, USA, anche se non sono mancate incursioni nei paesi “latini” come Spagna, Grecia e Portogallo. Mancanza di un certo appeal dei film nostrani che si sono appiattiti, a livello mainstream, su progetti low budget, oppure sulle commedie (v. Tolo tolo di Checco Zalone), mentre il cinema d’autore circola soprattutto grazie ai Festival (caso più eclatante, Paolo Sorrentino, con il suo Oscar per La grande bellezza). Rimedio a questo empasse: le co-produzioni, rivelatesi produttive soprattutto a livello di serialità televisiva (The Young Pope, The New Pope, sempre di Sorrentino). Infine, televisione come grande produttrice di film, sia nei soggetti istituzionali (Medusa, Rai Cinema, Vision), sia in quelli Ott come Netflix.

Queste, in sintesi, le parole di Massimo Scaglioni, docente di Storia ed economia dei media alla Cattolica di Milano, nel commentare Cinema made in Italy, da lui curato, ed edito per Carocci nel 2020.

 Il vostro progetto di ricerca, CInCIt (Circolazione internazionale del cinema italiano), che prende in analisi il decennio 2007-2016, ha scelto quattro paesi su cui focalizzare lo studio (Francia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti). Perché non ha preso in esame anche gli altri big five europei, e cioè Spagna e Germania?

Il progetto di ricerca, che ha visto un finanziamento dal MIUR nell’ambito dei progetti PRIN, coinvolgendo cinque università, è partito da una serie di ipotesi che fossero esplorabili anche sulla base delle risorse che avevamo a disposizioni. Una prima analisi generale dei dati di circolazione e successo dei film italiani all’estero ha fatto emergere la rilevanza dei quattro paesi citati, ognuno per ragioni diverse. La Francia, per esempio, ha una lunga tradizione tanto di co-produzioni con l’Italia, tanto di forte circolazione di film italiani attraverso un radicato circuito di sale attente al cinema d’autore. La Svizzera, da parte sua, ha una regione linguistica italofona e tradizionalmente anche una presenza di italiani anche nelle regioni della “Svizzera interna”. Regno Unito e Stati Uniti invece sono mercati molto più difficili per i film italiani, a parte ovviamente nelle grandi città come Londra, New York o Los Angeles, per esempio. Si tratta, insomma, di percorsi di circolazione molto differenti, e interessanti proprio per questa ragione. Ciò però non ci ha impedito di studiare, almeno in chiave di distribuzione e successo dei film italiani, anche gli altri contesti europei. Fra questi, quelli più interessanti sono forse i paesi mediterranei, che presentano culture vicine a quella italiana: in Spagna, in Portogallo, in Grecia, per esempio, c’è più facilità che una commedia (per es. quelle interpretate da Checco Zalone) possa circolare e avere anche un discreto successo…

In un saggio contenuto nel libro, Marco Cucco scrive: “se la circolazione del cinema italiano continua a essere poco significativa non è per la mancanza di validi strumenti a sostegno dell’export, ma forse per un limite della produzione stessa che, per ragioni diverse, poco si presta a essere esportata e a intercettare un pubblico straniero.” Come commenterebbe queste parole?

Nel corso degli ultimi anni anche il Legislatore si è reso conto che la circolazione internazionale del cinema è un tema importante. Non tanto (o soltanto) in chiave economica, ma anche e soprattutto culturale. Il cinema è da sempre veicolo di soft power, può creare un indotto positivo (si pensi solamente all’immagine dell’Italia veicolata dai film, che talvolta è in grado di generare fenomeni di cine-turismo, o oggi, pensando alle serie, di cine-tele-turismo). Gli strumenti di sostegno e promozione del cinema italiano ci sono – anche se forse andrebbero meglio coordinati – ma talvolta i nostri film si assestano su una medietà low budget che finisce per non essere appealing fuori dai confini nazionali. Ma le ricette sono già sotto i nostri occhi. Le co-produzioni (e possiamo qui includere anche quelle seriali) hanno per definizione più capacità non solo di circolare all’estero, ma anche di registrare un discreto o buon successo. Da questo punto di vista oggi in termini produttivi è più trainante la Tv e la serialità. Si pensi a casi di eccellenza, come “L’Amica geniale”, come “The Young/The New Pope”, e altri ancora.

Perché in Italia “tirano” molto le commedie mentre, fatte le debite eccezioni, all’estero si vendono molto i film d’autore di registi come Garrone, Sorrentino, Guadagnino, Moretti, ecc.?

Le commedie sono state, fino alla chiusura dei cinema per causa della pandemia, la forza trainante del cinema in sala, almeno in termini commerciali. L’anno 2020 si è aperto con l’ottimo successo di “Tolo Tolo”, prima che il Covid si abbattesse come una calamità soprattutto sull’esercizio, sulle sale. Le commedie hanno intrinsecamente un gusto molto nazionale, perché è più difficile – anche se non impossibile – esplorare la comicità. Anche in questo caso però non sono utili le generalizzazioni. Un’attività mirata e articolata di sostegno alla circolazione del cinema italiano all’estero, che tenga conto anche delle specifità dei Paesi e delle culture, potrebbe rivelare delle sorprese. In generale però il cinema italiano si identifica all’estero per il grande cinema d’autore. Quest’ultimo ha dei suoi propri meccanismi di valorizzazione che passano attraverso Festival e premi, e consente ad autori come Paolo Sorrentino, Gianfranco Rosi, Luca Guadagnino, Nanni Moretti, Matteo Garrone e qualcun’altro ancora di avere un buon mercato fra gli spettatori che più apprezzano il cinema cosiddetto “arthouse”. Ma non dobbiamo anche dimenticare che tutto sta rapidamente cambiando. Dopo la pandemia, il ruolo della piattaforme di streaming sarà sempre più rilevante, anche se la sala tornerà a giocare il suo ruolo. Rispetto allo specifico problema della circolazione del cinema italiano all’estero, bisognerebbe essere creativi e sistematici nel immaginare che nuovo spazio il nostro cinema può guadagnarsi nel nuovo ecosistema distributivo globale. E’ un compito non semplice, ma per fortuna abbiamo dalla nostra due vantaggi che spesso ci riconoscono all’estero: una grande tradizione cinematografica (cosa che talvolta diventa però anche un limite, poiché si tende a ricondurre il nostro cinema agli stilemi del Neorealismo) e una ricchezza territoriale e paesaggistica da sfruttare ancora meglio, nel solco dell’importante lavoro svolto da molte Film Commission regionali.

Qual è il ruolo dei festival per la distribuzione all’estero di film italiani arthouse?

Come dicevo prima, il ruolo dei Festival e dei premi è molto rilevante per la circolazione dei film che siamo abituati a chiamare “d’autore”: i grandi Festival (Cannes, Venezia, Berlino, Toronto etc.) e ovviamente i premi (in primis quelli attribuiti dalla Academy Awards) contribuiscono all’affermazione dei nomi del nostro cinema cui si attribuisce un importante credito. Si pensi all’ottima circolazione che ha avuto un piccolo film “difficile” come “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, che è poi un documentario e non un film di finzione. Puntare ai grandi Festival è finora una delle strategie vincenti per il cinema d’autore.

Perché, sempre nel decennio considerato, negli USA praticamente solo tre film italiani, Io sono l’amore (Guadagnino, 2009), La grande bellezza (Sorrentino, 2013), e Youth (Sorrentino, 2015), hanno avuto una certa diffusione?

Il mercato americano è molto difficile per il cinema italiano. E d’altra parte, come mostriamo in una delle infografiche del libro, il cinema europeo ha un discreto successo negli Usa, ma di questo successo l’Italia rappresenta solo una piccola parte, appunto rappresenta dai pochi film che ha citato. I casi di Sorrentino e Guadagnino sono diversi e andrebbero studiati. Quello di Sorrentino è più classico: la vittoria dell’Oscar come miglior film internazionale lo ha consacrato come un autore noto anche agli americani. Grazie alla sua presenza e al suo nome, uniti al nome delle principali star, è stato possibile per la casa di produzione portare a bordo del progetto “The Young Pope” l’americana HBO. Il caso di Guadagnino è un po’ diverso. “Io sono l’amore” è un case study davvero interessante, perché fu un vero e proprio insuccesso in Italia, mentre è stata una rivelazione nella sua uscita americana. Guadagnino è un autore attentissimo a provare a cogliere i lati d’interesse per l’Italia all’estero, e specialmente negli Usa. Ha avuto l’intelligenza di guardare con ambizione fuori dai confini italiani, con film più riusciti (sicuramente il più riuscito, “Chiamami col tuo nome”) e altri meno (il remake di “Suspiria”). Anche lui, poi, è finito a realizzare una serie coprodotta da Sky Italia e HBO, un teen drama d’autore che forse non ha avuto la visibilità che meritava.

Quanto può contribuire la TV, lineare e no, alla circolazione dei film italiani all’estero?

La televisione è il principale produttore di film, quindi sì. Sarebbe sempre più necessario che i grandi produttori (come Rai Cinema, Medusa e Vision) siano in grado di costruire linee editoriali differenziate, senza disperdere troppo le risorse in mille progetti (è un problema che riguarda in particolare Rai Cinema), ma comprendendo quali progetti possono mostrare – fin dalle prime fasi della scrittura del soggetto e della sceneggiatura – l’ambizione di viaggiare anche oltre i confini. E naturalmente, questo accadrà sempre anche grazie alle produzioni “locali” dei servizi Ott, come Netflix. Non tutto il nostro cinema può avere la forza di varcare i confini, ma su alcuni progetti, e alcuni nomi, si può puntare, con ambizione. Ne va, anche, della nostra capacità di raccontarci a un mondo che resta sempre molto interessato (e appassionato) all’Italia.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“Cinema, non storia ma storie”

“Cinema, non storia ma storie”

A cura di Christian Uva e Vito Zagarrio un manuale sulla storia della settima arte

Christian Uva
Christian Uva

Le storie del cinema, non una storia del cinema, perché lo studio di quest’arte non deve seguire una progressione schematica e deterministica. E novità, rispetto ai manuali precedenti, di un apporto di storici puri per inquadrare ogni epoca. Poi, un’attenzione alle cinematografie altre, cioè non solo europee dell’Ovest e di Hollywood. Strutturazione, per narrare ogni epoca, in tre parti: Contesti (la parte storica), capitolo propriamente detto, e Controstorie, contrappunto su alcuni problemi da approfondire o su alcuni miti da sfatare. Infine, una struttura circolare, che parte dall’oggi inquadrato storicamente e vi ritorna alla fine del libro per studiarne le sue peculiarità teoriche. Queste, in sintesi, le principali caratteristiche del corposo Le storie del cinema. Dalle origini al digitale, edito nel 2020 per Carocci a cura di Christian Uva, docente di Cinema italiano all’Università Roma Tre, e di Vito Zagarrio, docente di Istituzioni di Regia sempre a Roma Tre.

Perché avete intitolato il vostro manuale Le storie del cinema e non Storia del cinema?

Uva. Le Storie invece della Storia è proprio l’idea alla base di questo manuale, che è appunto quella di dare conto di una pluralità di prospettive le quali, intrecciate in una trama fitta di fili, costituiscono un tessuto omogeneo. In tale “tessuto” ci sono i tanti momenti che hanno scandito la storia del cinema, ma anche molte delle più interessanti angolazioni dalle quali essi possono essere interpretati.

Nel testo abbiamo inoltre voluto ospitare una serie di contributi provenienti non da studiosi di cinema, ma da storici puri. Il manuale contempla infatti undici Contesti, ossia appunto undici interventi di storici contemporaneisti che ritraggono il periodo all’interno del quale si collocano i fenomeni cinematografici affrontati di volta in volta nei vari capitoli. Si tratta di un’assoluta novità per un manuale di storia del cinema.

Altre storie che vengono raccontate nel volume sono le Controstorie, ossia sintetici testi scritti in “punta di penna” da studiosi di primissimo piano che leggono i fenomeni affrontati nei capitoli da una prospettiva eccentrica e ponendoli in una luce problematica.

Non avete avuto paura che ci fosse un’eccessiva frammentazione?

Vito Zagarrio
Vito Zagarrio

Uva. Sì, il rischio della polverizzazione era dietro l’angolo ma abbiamo sempre vigilato con estrema attenzione affinché la polifonia messa in campo nel manuale fosse indirizzata alla massima armonia possibile. Questo ha significato ovviamente congegnare sin dall’inizio con estrema cura l’indice del volume e l’assortimento degli autori che avrebbero lavorato ai testi. A ciò ha corrisposto, “a valle”, lo scrupoloso lavoro di editing che, in un continuo scambio con gli autori, ci ha permesso di uniformare il tutto, pur nel rispetto delle singole competenze e prospettive d’approccio.

Vorrei porre una domanda a Vito Zagarrio. Ha qualcosa da dire sulle introduzioni storiche e le cinematografie altre?

Zagarrio. Volevo aggiungere a quello che ha detto Uva che questo volume riempie un vuoto. C’era un vuoto perché la storia del cinema è stata insegnata da storici che avevano il desiderio e la voglia di sintetizzare con un’unica linea tutta la storia del cinema (penso a Rondolino, al manuale di Bordwell e Thompson). Si procedeva cioè secondo una storia deterministica, che ha il suo percorso ineluttabile.

Invece, noi proponiamo delle storie in cui ci sono molti possibili percorsi e sviluppi, e per questo le abbiamo chiamate storie, in quanto appunto la storia del cinema si può raccontare da molti punti di vista.

Tutti quelli individuati sono storici che hanno lavorato sul rapporto tra cinema e storia. Cionondimeno, ci sembrava importante che degli storici di mestiere fornissero il quadro d’insieme delle dinamiche politiche e sociali., e infatti questi capitoli storici sono chiamati Contesti, all’interno dei quali articolare il nostro processo di cinema.

In quest’ottica, è significativo anche raccontare tante storie. Noi di solito raccontiamo la storia dell’Europa e quella di Hollywood, la vicenda di Méliès e dei fratelli Lumière, e ci sono infinite varianti tra queste contrapposizioni che di solito si sono fatte perché bisogna semplificare.

A maggior ragione, e adesso rispondo alla seconda domanda, il cinema altro è la comprensione, la coscienza che ci sono tante altre cinematografie, che purtroppo per problemi di spazio non abbiamo potuto trattare come avremmo voluto. Penso al cinema africano, al cinema asiatico, ecc. Parlando di cinema asiatico poi, si fa già una generalizzazione, perché c’è il cinema cinese, giapponese, di Hong Kong, di Taiwan, ognuno con una sua identità. Ecco, tutte queste cinematografie minori, pensiamo al cinema latinoamericano, che pure è importantissimo, argentino, brasiliano, meritano di stare in una storia del cinema generale.

Quindi noi le abbiamo segnalate sia nei capitoli principali, sia nei tanti interventi delle Controstorie. In due Controstorie si parla dell’Europa dell’Est, poi c’è un pezzo che parla del cinema orientale e latinoamericano, visto soprattutto attraverso la presenza nei festival ma, ripeto, avremmo potuto anche raccontare un’altra storia.

Cosa succede oggi? Dall’oggi gli studenti, che sono i principali destinatari del nostro manuale, devono capire qual è il cinema che sta loro di fronte, che non è più quello tradizionale della sala cinematografica, peraltro chiusa in questi giorni, ma è quello che viene fruito sui computer, sui cellulari.

Tutto ciò è assurdo per la mia generazione. Però, partendo da questa realtà, siamo tornati a rintracciare le cause, le origini, molto lontane, del cinema, parola molto desueta che possiamo chiamare in maniera diversa, cioè immagini in movimento che un uomo vede, vuoi nelle caverne preistoriche, vuoi nelle sale di oggi.

Per fare un esempio, interessante a questo proposito mi sembra l’apertura verso le cinematografie dell’Est prima della cortina di ferro…

Zagarrio. Tutto è nato da alcuni giovani colleghi che ci hanno sollecitato e che ci hanno detto “Se fate una storia del cinema, non dovete parlare solo dell’America e dell’Europa.” Quindi, sfruttando anche le nostre relazioni internazionali, perché Forgacs è un collega della New York University che viene spesso ai nostri convegni, mentre la Iordanova, autrice di Controstorie. Gli anni Sessanta degli altri, l’ho incontrata a un convegno dove mi ha invitato in Gran Bretagna, mentre altri sono esperti di cinema giapponese, o dell’Est, abbiamo cercato di allargare la nostra ottica a tutte queste nuove tendenze.

Ma le dirò di più: uno dei saggi che voglio richiamare è quello di Pietro Montani (Controstorie. Il montaggio è morto. Viva il montaggio), dove c’è addirittura la possibilità di ripercorrere la storia come avrebbe potuto essere, cioè con il metodo del What if? Cioè, che cosa sarebbe successo se non avesse vinto il montaggio hollywoodiano, come poi è stato, perché gli Stati Uniti erano potenti, perché c’era un problema di capitalismo, ecc., che ha diffuso quel tipo di codice in tutto il mondo? Cosa sarebbe accaduto, se avesse vinto il cinema russo, o sovietico? Ecco, tutte queste sono domande che ognuno si dovrebbe porre. Lo storico infatti è un po’ come un detective, che deve seguire delle tracce e fare delle ipotesi, dopodiché la storia è quella di chi ha vinto, ma non è detto che si debba allora fare per forza la storia del cinema hollywoodiano mainstream. Ci sono molte altre storie che sono degnamente storie del cinema, dal cinema italiano fuori norma, cioè quello che non esce nei cinema, me è indipendente, low budget, fatto col video, al cinema indipendente americano, dalle commedie sexy degli anni Settanta, che sono comunque da storicizzare, al cinema cosiddetto di serie B degli anni Trenta o degli anni Cinquanta, che è un cinema di cui parlare.

Io trovo, per concludere, che tutta questa frammentazione abbia portato a un libro molto compatto, che spinge i ragazzi che lo leggono a porsi dei problemi, a fare ulteriori ricerche, a documentarsi su Internet, ecc. Leggere una storia del cinema è un po’ come fare un viaggio, e noi ne proponiamo molti, e alquanto interessanti.

Perché avete deciso di aprire e chiudere con la contemporaneità? Con il post-2001 avete infatti aperto e chiuso il vostro manuale, trattando l’argomento da un punto di vista storico all’inizio, e poi, da un punto di vista teorico alla fine…

Zagarrio. Siamo partiti dalla necessità di lavorare sull’oggi, di parlare soprattutto a un pubblico, quello giovanile della laurea triennale del DAMS, sullo stato delle cose di fronte a cui si trovano, e poi tornare con un lungo flashback alla storia del passato.

Addirittura partiamo dai primitivi del Paleolitico e poi passiamo al Rinascimento, alla fotografia, al cinema muto, a quello degli anni Trenta, ecc., chiudendo infine il cerchio con un processo molto cinematografico. Infatti, qualche critico ci ha detto “Voi avete fatto un flashback”, ed è vero, il nostro è un libro con dei flashback, con delle dissolvenze incrociate, con degli zoom.

Insomma, c’è molto l’idea di un testo fatto da due cinematografici, cioè da due che sono molto interessati al linguaggio del film e che lo ripropongono nel loro modo di fare storia. Christian Uva è un esperto dei rapporti tra cinema e storia e dirige, insieme a Paolo Mattera, una rivista che si chiama Cinema e storia, io sono uno storico laureato in Storia, e ho lavorato per una rivista di storia e ho studiato, forse tra i primi in Italia, nell’’81-’82, il rapporto tra cinema e storia. Quindi noi siamo molto interessati alla storia, che deve essere declinata in modo diverso, non usando vecchie categorie ideologiche o deterministiche, ma applicando metodi diversi come il gender, il genere, la psicanalisi, la semiotica, la teoria delle emozioni, ecc.

Come avete coniugato, nel fare questo, un Ruggero Eugeni, che è un teorico del cinema, con un Forgacs, che ha un approccio più culturalista?

Uva. È proprio questa la polifonia su cui, come dicevo all’inizio, abbiamo scommesso. In base al tipo di temi e periodi trattati, ciascun capitolo si è avvalso delle competenze che meglio potevano essere messe a frutto di volta in volta. Questo ha fatto sì che nel manuale compaiano studiosi con differenti matrici metodologiche e provenienti da diverse aree geoculturali e generazionali.

Ancora una volta, crediamo che tutto ciò costituisca uno dei valori aggiunti di quest’impresa editoriale.

Se vuole concludere dicendo qualcosa, Christian…

Uva. Aggiungo solo, riprendendo un tema toccato in precedenza, che per noi era fondamentale partire dall’attualità per dare vita al lungo viaggio nelle storie del cinema al centro del volume. Rivolgendoci in primis ai giovani, abbiamo sentito l’urgenza di fotografare anzitutto il presente, proponendo qualche linea di lettura capace di orientare il nostro pubblico nel mare magnum di immagini e suoni che oggi lo pervade. Siamo convinti infatti che, solo facendo preliminarmente i conti con questo “disordine” contemporaneo (straordinariamente stimolante e creativo tuttavia) sia possibile tornare indietro per capire cosa è successo prima e come si sia giunti oggi allo scenario audiovisivo in cui siamo immersi.

Vito, voleva dire un’ultima cosa?

Zagarrio. Il nostro testo sta avendo successo, tanto che, a qualche mese di uscita, ha avuto già due ristampe. A proposito di qualche feedback che ne ho avuto, alcuni ragazzi mi hanno detto una cosa che mi ha fatto riflettere: “Questo libro mi ha fatto pensare in un altro modo.” Ciò mi rende molto orgoglioso, in quanto il manuale ha aperto dei percorsi alla Borges. Il libro è un punto di partenza, non di arrivo: poi sta allo studente e all’istruttore che lo guida proporre tematiche e riflessioni.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“TV series, tempo lineare e tempo intrecciato”

“TV series, tempo lineare e tempo intrecciato”

Di Angela Maiello un testo sulla lunga serialità nell’epoca postmediale

Angela Maiello

Epoca postmediale in cui si alimentano la serialità televisiva e le nuove forme di comunicazione online. Post-cinema come momento in cui ci si chiede “Cosa resta del cinema oggi?”, e si risponde che vi sono nuove forme audiovisive, online e no, che circolano sui social, sulle piattaforme, ecc., e che vanno oltre la forma “breve” tipica del film (e del romanzo).

Applicazione del concetto bachtiniano di cronotopo alle serie tv, che possono procedere o secondo una temporalità lineare a spazio aperto o, invece, con una intrecciata a spazio chiuso.

Serie tv come un work in progress, continuamente rivisto dallo spettatore in un’interazione continua tra fruizione e rielaborazione.

Infine, audience in quanto pubblico non più diviso secondo le tradizionali variabili socio-demografiche, bensì fortemente frantumato, personalizzato, ma che si ritrova come una collettività sulla rete.

Questi i principali temi affrontati da Angela Maiello, docente di Cinema presso l’Università della Calabria, nel suo Mondi in serie. L’epoca postmediale delle serie tv, edito di recente da Pellegrini Editore.

La tesi del suo libro è che “le serie tv sono una forma di adattamento all’ambiente ibrido in cui viviamo.” Ce la potrebbe spiegare, in sintesi?

L’idea da cui è costruito il libro è appunto quella che c’è nel sottotitolo: viviamo nell’epoca postmediale. In questo termine risuona tutta la teoria della postmedialità, che va da Kraus in poi, ed è presente nell’ambito cinematografico con Casetti e Eugeni. Postmediale innanzitutto significa che non ci sono più gli ambiti specifici di riferimento dei singoli media, e quindi delle singole esperienze mediali, ma che viviamo in un grande ambiente ibrido in cui, senza soluzione di continuità, i media, e le diverse prassi che li abilitano, si incrociano. La caratteristica dell’epoca post-mediale, e che io poi descrivo anche attraverso l’analisi di una sorta di genealogia della narrazione attraverso i social, è la frammentarietà. Noi raccontiamo anche il nostro presente, viviamo le nostre vite attraverso frammenti, che siano foto, immagini, ecc., attraverso i social, come se tutto venisse restituito a partire da una grande frammentarietà del nostro tempo e del nostro vissuto.

Quindi, le serie tv, a fronte di questa frammentarietà, e di moltiplicazione anche dei racconti, costruiscono questi mondi unitari molto forti, riconoscibili, molto iconici anche, e pertanto rispondono a quella che Ricoeur definirebbe una domanda di concordanza che è istintiva nell’essere umano, cioè la necessità di avere un senso compiuto.

Lei parla anche di post-cinema a questo proposito…

Sì, parlo anche di post-cinema, perché la mia idea è quella di non collocare la serialità solo nell’ambito dell’evoluzione del medium televisione.

Il post-cinema è quel concetto utilizzato per rispondere alla domanda “Cosa resta del cinema oggi?”. Oggi, che non si va più in sala, si moltiplicano le piattaforme, ma si moltiplicano anche i prodotti, perché ci sono pure nuovi prodotti audiovisivi sulla rete, ecc., e qui si rientra il concetto di post-cinema.

Secondo me la serialità va collocata in quest’ampia riflessione sull’audiovisivo in generale, non solo televisivo, ma sull’audiovisivo nato dopo il digitale, che si è sviluppato dagli anni 2000. È ovvio che ci sono delle specificità del medium TV, e in proposito penso in Italia ai recenti lavori di Barra, di Scaglioni, che guardano alla serialità a partire dall’evoluzione della TV come medium, studiando questioni legate al palinsesto, alla distribuzione, ecc..

Però la mia ipotesi procede un po’ più alla larga cioè, partendo da una riflessione sulla medialità contemporanea in generale, considera la serialità un momento di questa galassia, come la definisce Arcagni, post-cinema.

In un mio articolo uscito recentemente su Comparatismi io affermo che il paradosso dell’osservatore, che era tanto vivo in linguistica con Labov, nella fanfiction su web è molto sfumato, in quanto esiste una circolarità tra utente, producer e studioso. In pratica è quello che dice lei anche a proposito delle serie tv…

Sì, sicuramente questa è anche la caratteristica delle serie tv che, nel momento in cui si fanno, si espongono anche al mondo. Come dire, nel momento in cui si evolvono, e stanno accadendo, hanno anche quest’esposizione verso l’esterno, verso gli utenti. Alla metà del libro approfondisco pure il tema delle forme di riappropriazione dei racconti da parte degli utenti, perché mi sembra davvero una specificità molto importante.

In questo periodo sto facendo un corso all’Unical, e gli studenti mi hanno raccontato dei momenti riappropriativi delle serie di cui non ero a conoscenza, per esempio su Skam, o su Game of Thrones.

L’idea è che l’utente si possa riappropriare di un racconto, farlo andare avanti, perché la serie esce fuori da sé. Si crea una circolarità tra mondo del racconto e mondo del reale, dovuta al fatto che la serie è strutturata, appunto, con la lunga durata, che ha questi mondi così fortemente riconoscibili, così fortemente connotati, proprio come se lo spettatore potesse abitarli.

Però, allo stesso tempo, la riappropriazione del racconto è dovuta anche a una questione distributiva (v. il binge watching) e produttiva, che va ad incidere fortemente pure su quella creativa e, pertanto, sulle modalità di ricezione della serialità.

Il suo testo si potrebbe quindi articolare in due parti: il prodotto seriale e quello che fa il pubblico con esso…

Sì, la mia idea è che le serie creano mondi, ed è importante sottolineare cosa fa lo spettatore con esse, in un’operazione che non è a posteriori. Cioè, tale operazione di appropriazione da parte dello spettatore è integrata nell’evoluzione del prodotto seriale stesso. Non si tratta di due momenti separati, ma la serie si fa nell’incrocio di queste due operazioni, cioè la sua creazione e la sua appropriazione da parte dell’utente.

Nel suo lavoro, lei insiste molto sull’importanza del cronotopo, termine coniato da Bachtin, che lo ha applicato al romanzo. In che modo tale concetto può attagliarsi alle serie tv?

Perché le serie creano mondi, e allora lo spazio e il tempo diventano le coordinate necessarie per orientarvisi. In Bachtin il cronotopo può avere una funzione di gerarchizzazione, o comunque di sistematizzazione dei generi.

Potrebbe definire il concetto di cronotopo?

Il cronotopo è secondo Bachtin l’incrocio di spazio e tempo, che vengono usati per creare quella che lui definisce l’unità dotata di senso. È come se spazio e tempo creassero l’unità del racconto, ed è nel modo in cui si incrociano spazio e tempo, che questo acquista un senso. Nella serialità io provo a individuare due modalità del criterio spazio e tempo, cioè una temporalità lineare, progressiva, a cui corrisponde un allargamento, una continua esplorazione nello spazio, e una temporalità intrecciata, quando le serie indagano vari piani temporali (questa modalità si sta verificando sempre più spesso nelle serie), e ciò avviene in un luogo chiuso.

Spazio e tempo sono anche le coordinate principali per capire il modo in cui noi fruiamo le serie tv, cioè lo spazio della serialità e della fruizione che è diventato lo spazio dello schermo, che non è più quello del salotto di casa come poteva essere con la TV tradizionale.

C’è una stretta correlazione anche tra la prossimità tra il tempo dello spettatore e quello del racconto, che appunto in questa lunga dilatazione della serialità coincide molto più che in una temporalità finita, come può essere quella di un film, che ha la caratteristica di avere il finale che, direbbe Ricoeur, riconfigura tutta l’esperienza del formato chiuso, come quello di un film o di un libro.

Lei ha parlato, nella sua esposizione, di tempo lineare con spazialità aperta, con cui alcune serie sono strutturate, e di tempo intrecciato con spazialità chiusa, tipico di altre. Ci potrebbe fare qualche esempio?

Un esempio che si potrebbe fare è Mad Men, che è una serie che, come tempo del racconto, copre un arco temporale di una decina d’anni, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, a cui corrisponde una spazialità aperta.

Questo potrebbe sembrare un concetto controintuitivo, poiché uno potrebbe dire che Mad Men è ambientata sempre a New York, a Madison Avenue, negli uffici. Tuttavia, c’è l’idea di un’America che si sviluppa tra Est e Ovest, e sappiamo che nella serie questi viaggi tra Est e Ovest servono a scandire la narrazione.

A una temporalità lineare corrisponde pertanto un’esplorazione dello spazio e, nel caso di Mad Men, è interessante perché insieme ad essa compare anche l’esplorazione del tempo storico. Infatti, le fasi storiche che racconta Mad Men della storia degli Stati Uniti, e in qualche modo della cultura occidentale, costituiscono un vero e proprio rito di passaggio. Si passa, infatti, da una società dei consumi che stava cominciando ad affermarsi, ad una che comincia a mettere in questione quella stessa cultura da cui deriva. E con quel finale che forse è uno dei migliori della lunga serialità, che tra l’altro porta di nuovo la serialità fuori dal racconto narrativo, è interessante vedere questa relazione tra la temporalità lineare e lo spazio.

Per quanto riguarda la serie The Handmaid’s Tale, esempio di temporalità lineare, lei però ha parlato di spazialità chiusa…

The Handmaid’s Tale costituisce un esempio in cui il processo di serialità si inceppa, tant’è vero che nelle ultime stagioni secondo me fatica a mantenere anche la sua promessa, proprio perché, se la protagonista esce da quel mondo chiuso che è lo stato di Gilead, una dittatura, e quindi uno spazio chiuso per eccellenza, la serie fondamentalmente finisce.

The Handmaid’s Tale è un esempio di come una serie, per andare avanti, ha bisogno di questa continua, progressiva esplorazione dello spazio. Nel caso di questa fiction, che è stata tratta da un libro, l’esplorazione di questo mondo avviene tutta nelle prime due stagioni, che sono anche quelle legate al libro. Queste, a differenza della terza, funzionano molto bene, perché noi dobbiamo imparare a conoscere quel mondo. Nel momento in cui c’è la continua attesa o la possibilità di un fuori, che però non si realizza mai, la serie resta impigliata nel suo stesso meccanismo di strutturazione.

È questo il caso in cui una serialità lineare non ha la possibilità di espandersi anche spazialmente, quindi di continuare quel processo di costruzione del mondo che ci si aspetterebbe.

Pertanto, come detto prima, tempo lineare e tempo intrecciato…

Il mio è il tentativo di provare a offrire una panoramica generale per vedere come il tutto funziona, poi si possono trovare mille eccezioni, e quindi non la prenderei come legge scritta, ma come un tentativo di sistematizzazione. Sicuramente, queste sono le due strade principali attraverso cui la serialità si organizza, nel senso che si ha o il tempo lineare o il tempo intrecciato. Questa può sembrare un’ovvietà, però le serie possono giocare proprio su questo, perché la lunga durata permette di creare questo gioco sull’intreccio del tempo in modo molto più ampio, più approfondito, rispetto a quello che può accadere nel formato film.

Inoltre, è come se il tempo intrecciato fosse il luogo in cui la serialità sperimenta di più anche rispetto al proprio formato.

Ci potrebbe fare l’esempio di Lost come tempo intrecciato?

Lost da questo punto di vista è una serie paradigmatica. È una serie della prima fase della grande serialità, che inizia nel 2000, che lavora in maniera spregiudicata sul tempo intrecciato, tanto che Mittell scrive che con Lost è chiaro quel tentativo di comprendere il funzionamento del mondo, e il modo per capire come funziona la temporalità è importante per lo spettatore per comprendere quel mondo stesso.

La fase più significativa di Lost è che lo spettatore non capisce che c’è un prima e un dopo, e che le categorie di prima e dopo non vanno più bene per spiegare come essa funziona. E, se ci pensiamo, per un racconto seriale di lungo tempo sembra quasi un ossimoro, un’assurdità, il fatto che fondamentalmente il prima e il dopo non hanno più quel significato rispetto al valore tradizionale. In Lost questo prima e questo dopo saltano, tant’è vero che la serie ha l’isola come luogo di svolgimento della storia, un luogo chiuso, anche lì, che può essere esplorato, ma dove nuove parti dell’isola vengono continuamente scoperte in diverse temporalità.

La cosa importante di Lost è che, rispetto ad altre serie, è stato un vero blockbuster, quindi ha avuto una grandissima popolarità che è riuscita a mantenere lo spettatore attaccato allo schermo proprio a partire da questo gioco di comprensione di temporalità multiple.

Nel libro dico “Noi non guardiamo le serie per vedere come vanno a finire le storie, ma per capire come funziona quel mondo.” Di ciò sono abbastanza convinta, perché le storie lo sappiamo già come vanno a finire, non è quello il punto, ma è di capire come il mondo funziona e come le cose ritornano in maniera sensata all’interno di esso.

L’audience non è più un qualcosa che si costruisce attraverso variabili socio-demografiche, ma come un elemento che, tramite i Big Data, è sempre più articolato e individualizzato. Ce ne potrebbe parlare?

È una questione su cui bisognerà ragionare molto anche negli anni a venire, perché attualmente è difficile identificare, parlando di audience, di gruppi sociali, demografici, in quanto, con le piattaforme, avviene una forte personalizzazione della fruizione. Da un lato quindi viene meno l’audience come collettività: siamo tutti singoli portatori di dati a dover essere intercettati. Dall’altro, a fronte di questa perdita dell’esperienza collettiva, ed è interessante che durante la pandemia questa cosa si sia molto vista, e che la TV abbia mantenuto questa funzione di rito collettivo, è significativo notare che, a differenza delle fruizioni audiovisive che avvengono principalmente attraverso piattaforma, a fronte di questa personalizzazione estrema dei contenuti, sentiamo l’esigenza di ritornare sulla rete per condividere. È come se questa collettività, frantumata a partire dalle nuove forme di distribuzione, senta comunque l’esigenza di ricomporsi nel fandom, nelle comunità online, nei commenti, nelle pagine Facebook, ecc., proprio per ritrovare la dimensione collettiva persa.

Pertanto, anche dal punto di vista degli studi sull’audience, questo è un grande cambiamento che stravolge anche le categorie a cui eravamo abituati.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

“Propp, nato a Pietroburgo e morto a Leningrado”

“Propp, nato a Pietroburgo e morto a Leningrado”

A cura di Gianfranco Marrone ripubblicata per Mimesis La fiaba russa, opera postuma del grande narratologo

Gianfranco Marrone

Un’interessante occasione, la ripubblicazione in italiano per Mimesis de La fiaba russa di Propp, uscita postuma nel 1984 dopo la morte dell’autore (1970), per parlare di narratologia e di semiotica. Quanto ha influito il Propp di Morfologia della fiaba (1928) sui narratologi francesi degli anni Sessanta-Settanta, e quanto è invece importante La fiaba russa, che si pone con un taglio storico-genetico? E come reagì Propp al regime sovietico, dato che “nacque a Pietroburgo e morì a Leningrado”, senza allontanarsi mai dall’Unione Sovietica, nonostante la sua fama in Occidente? A questo e ad altre domande risponde Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, e curatore del libro.

Negli anni Sessanta-Settanta escono lavori seminali di narratologia francese come Sémantique structurale di Greimas (1966) e Figures III di Genette (1972). Come si pongono queste opere nei confronti del Propp di Morfologia della fiaba, tradotto in inglese nel 1958, e di Le radici storiche dei racconti di fate (1948), che studia le fiabe con un taglio diacronico e genetico, come lo fa (in parte) La fiaba russa?

Innanzitutto il testo che considererei fondatore della narratologia strutturale è quel volume che in Italia si intitola Analisi del racconto, che è stato pubblicato da Bompiani nel 1968 e che è uscito in Francia nel ‘66, lo stesso anno di Sémantique structurale. Il volume conteneva una lunga introduzione di Roland Barthes, e saggi di Greimas, di Genette, di Violette Morin, di Metz, il semiologo del cinema, di Todorov, che tra l’altro è quello che ha inventato il termine narratologia, ecc.

La fiaba russa, che ho chiesto a Mimesis di ripubblicare, a me interessava perché è l’ultimo libro di Propp, quello in cui finalmente mette insieme queste sue due anime, quella morfologica, di Morfologia della fiaba, che ha tanto influenzato lo strutturalismo, e l’anima storico–diacronico–genetica, che invece ha avuto un impatto molto minore nella cultura occidentale.

Tutti i narratologi, ognuno a suo modo, hanno considerato Propp un punto di riferimento, però, paradossalmente, tradendolo, nel senso che Propp sosteneva che la sua metodologia era utile solo per le fiabe russe di magia, mentre gli altri autori, soprattutto francesi, sostenevano il contrario, però non prendendo le 31 funzioni di Propp per applicarle a qualsiasi cosa, ma riaggiustandole, cambiandole, modificandole in parte. In proposito si può citare il lavoro fatto nell’ultimo capitolo della Sémantique strutturale di Greimas che si chiama, non a caso, Alla ricerca dei modelli di trasformazione. Qui Greimas riadatta le 31 funzioni a una logica narrativa più astratta e dunque, proprio perché più astratta, molto più utilizzabile per tantissimi racconti. La sfida di Greimas era quella di non lavorare sulla narrazione, ma su quella che chiamava la narratività, cioè l’uso di modelli narrativi per studiare fenomeni, testi e situazioni anche apparentemente non narrativi, e lì Propp è stato veramente utile.

Invece, per parlare dell’Italia, negli anni ‘60 la cultura era quella marxista, e quindi accadde che il libro Le radici storiche dei racconti di fate arrivasse prima della Morfologia della fiaba ma, in generale, anche qui, il Propp importante è stato quello formalista, suo malgrado.

Tornando al clima culturale francese, potremmo citare la polemica Propp-Lévi-Strauss, per cui Lévi-Strauss scrisse a Propp nel 1960 a proposito del suo Morfologia della fiaba, e lui gli rispose…

Questa polemica è interessante anche perché a quei tempi, bei tempi, a volte i dibattiti si facevano anche grazie all’editoria, cioè l’editoria che oggi è un po’ spenta, terrorizzata soprattutto dal mercato, in quegli anni poteva permettersi di suscitare, intervenire, creare dei dibattiti, e anche delle polemiche. Nella traduzione italiana della Morfologia della fiaba l’editore Einaudi inserì la famosa recensione che Lévi-Strauss aveva fatto a Propp, poi la diede a leggere a Propp in persona, che rispose. La pubblicazione dei due saggi in un unico volume insieme alla Morfologia della fiaba esiste solo in Italia, ed è molto interessante quest’edizione di Propp che ancora esiste sul mercato.

Cosa diceva Lévi-Straus? Lévi-Strauss faceva un’osservazione significativa, sosteneva che Propp era contemporaneamente troppo formalista e troppo poco formalista. Con ciò voleva dire che lo studioso sovietico rifiuta l’idea di un’analisi strutturale della storia. Nelle sue domande lei usa la parola diacronia, che, se mi posso permettere, parlando del testo di Propp non è un termine correttissimo, perché la parola diacronia viene da Saussure, il quale distingueva tra sincronia e diacronia e sosteneva dunque che si poteva studiare in maniera strutturale anche la storia della lingua. Invece Propp sostiene di no, dice che una cosa è l’analisi formale, morfologica, e un’altra è quella storica, ed è lì che si appunta la critica di Lévi-Strauss. Lui dice: “No, non è così. Noi, attraverso l’analisi strutturale, possiamo fare sia sincronia che diacronia, cioè lavorare sulle fiabe di oggi ma lavorare anche sul modo in cui sono cambiate.” Propp non lo capì, o fece finta di non capirlo, non lo sapremo mai, ed è lì che ci fu una forte incomprensione tra i due. Quindi, paradossalmente, Propp è divenuto il faro della narratologia malgrado i suoi continui tentativi di distaccarsene.

Ne La fiaba russa Propp afferma esplicitamente che la sua teoria morfologica si può applicare esclusivamente alle fiabe di magia, mentre alle altre no. Per esempio, per quelle di animali, si può soltanto dire che (forse) avevano origine totemica e che la loro formazione “va fatta risalire allo stadio preclassista di sviluppo della società.” (p. 365) Come si può spiegare questo limite di Propp in relazione ai progressi dei narratologi occidentali, specialmente quelli francesi, che giungono a studiare tutti i racconti? Per esempio, Greimas nel 1975 scrive il suo libro Maupassant. La semiotica del testo: esercizi pratici, appena cinque anni dopo de La fiaba russa (che però viene pubblicata postuma nel 1984)…

Su questo le ho risposto. Lei ha parlato di narratologi occidentali, non solo francesi, e ha ragione. C’era in quegli anni, esattamente dagli anni ’50, anche negli USA una scuola narratologica, soprattutto a Chicago, dove operavano Wellek, Warren, Burke e altri. Propp è arrivato dopo, ma questi studiosi avevano già cominciato a fare l’analisi strutturale della letteratura. Poi a poco a poco i vari filoni si sono riuniti, ma non dimentichiamoci che questo era il periodo in cui la cultura francese era ancora la cultura delle scienze umane, era la cultura dominante.

Per quanto riguarda la narratologia oggi, le posso raccontare un episodio di una studentessa che mi scrive da non mi ricordo quale università italiana dicendomi: “Guardi, professore, noi abbiamo studiato la narratologia legata alle neuroscienze, però dopo averla studiata io non riesco ad analizzare nessun racconto. Cosa devo fare?” Io le ho risposto: “Butti a mare le neuroscienze e torni a leggere le opere degli anni ‘70”. Cioè, oggi, con il cognitivismo, o con le neuroscienze, lo studio della narrazione si è spostato su altri problemi, non migliori o peggiori, non di tipo metodologico, ma di tipo storico-evoluzionista. Quindi, la narratologia oggi ha un po’ perduto per strada la grande tradizione narratologica francese degli anni ‘60-‘70 con grandi figure come Genette, il cui Figures III è un capolavoro, è un libro fondamentale, come quelli di Greimas e di Barthes. Oggi tutte queste opere non le legge quasi più nessuno ed è un grande peccato, perché, quando si tratta di andare ad analizzare un testo, non si hanno più gli strumenti adeguati.

Quando scriveva La fiaba russa, Propp appare un convinto leninista, considerando, per esempio, le novelle o fiabe novellistiche come uno stadio in cui il contadino russo, attraverso tipizzazioni, esprimeva la propria realtà. Lo stesso Propp in più punti della sua opera cita proprio Lenin…

Propp è stato un grandissimo innovatore nello studio del racconto, per quanto, paradossalmente, suo malgrado. Ora, noi non sapremo mai se lui era influenzato, se non addirittura spaventato, dal regime sovietico, che imponeva negli studi linguistici, folcloristici, letterari, ecc., il materialismo dialettico, quello di Marr, di cui lei parla nella domanda successiva, o se ne fosse veramente convinto. Lei giustamente dice: “Propp cita spesso Lenin”. Ebbene, tutti citavano Lenin in quel periodo da un lato, nel senso che era considerato un nome di riferimento fondamentale per la cultura sovietica e non soltanto sovietica. Dall’altro lato c’è da dire anche che, per quanto possa sembrare strano, gente come Lenin, Stalin, e Trotskij, erano molto interessati al formalismo e alla linguistica. Uno come Stalin, che un po’ di cose da fare le aveva, nella sua vita, per quanto cattive, ha scritto un intero libro sulla linguistica, che si intitola Il Marxismo e la linguistica (magari non l’avrà scritto lui, ma insomma, l’ha firmato). Trotskij pure scrisse un libro sul formalismo russo per prenderne le distanze. Oggi fa un po’ ridere che i politici di quel calibro si interessassero di problemi metodologici di critica letteraria o di linguistica, allora invece era molto importante.

Detto questo, noi non sapremo mai se Propp cambiò idea rinunciando alla morfologia a causa dell’oppressione sovietica o lo fece per reali convinzioni.

Parlando di fiabe di magia, ne La fiaba russa Propp si rifà al cosiddetto principio dello sviluppo stadiale di Marr, che sarebbe “lo studio dello sviluppo della società in base agli stadi determinati dall’insieme della cultura materiale, sociale e spirituale,” per cui “i fenomeni della cultura spirituale sono derivati e costituiscono una sovrastruttura della base socioeconomica.” In Occidente i linguisti concepiscono il marrismo come “un’aberrazione” del pensiero sovietico applicato alla linguistica (si veda Bolelli). Lei cosa ne pensa e, soprattutto, come si poneva Propp tanto “occidentale” nel suo pensiero “formalista” e tanto “sovietico” nello stesso tempo?

A ciò ho già risposto a proposito della domanda precedente. L’unica cosa che aggiungerei è che il discorso della struttura e della sovrastruttura è un refrain, un ritornello tipico del marxismo più semplificato, il marxismo cosiddetto volgare. Diciamo, e su questo insisto molto, la migliore tradizione strutturalista, quella di Foucault, di Lévi-Strauss, di Deleuze, e quant’altri, e anche quella della semiotica, sono nate esattamente contro questo principio del marxismo, cioè l’idea che ci fosse una struttura, quella economica, da cui tutte le altre dipendevano. È stato dimostrato da storici della religione come Dumézil, da antropologi come Lévi-Strauss, da semiologi come Greimas, Barthes, Eco, per non parlare di Althusser, Althusser che era il marxista francese, che l’opposizione struttura-sovrastruttura non tiene, che nella società può accadere anche esattamente il contrario. Per esempio, la storia politica, la sfera sessuale, come ci ha insegnato Freud, la sfera religiosa, come ci ha insegnato Max Weber e quant’altro, sono esse in alcuni casi a generare delle trasformazioni storiche. Quest’idea della sovrastruttura, quindi, attualmente risulta del tutto superata, nessun marxista oggi la utilizzerebbe più, e lo strutturalismo è stato, dal punto di vista della sua pars destruens, una critica feroce al marxismo allora imperante.

Quanto c’è della cultura sovietica in Propp? Come viveva lo studioso russo il fatto di vivere in URSS, mentre il suo pensiero “spopolava” in Occidente?

Non lo sapremo mai, non possiamo sapere quanto lui fosse veramente aderente al marxismo e quanto lo facesse invece per ragioni di convenienza, se non addirittura di sopravvivenza.

Ma lui non si è mai trasferito da lì, è sempre rimasto in Unione Sovietica…

La battuta che faccio nella mia prefazione a La fiaba russa è che Propp è nato a Pietroburgo ed è morto a Leningrado, la stessa città, anche se il nome, con la Rivoluzione d’Ottobre, era cambiato.

Allora lui ha saputo molto poco dei narratologi occidentali…

Molto poco.

La fiaba russa è una summa del pensiero di Propp molto significativa, in particolare quando lo studioso parla della fiaba di magia, in cui coniuga in maniera notevole diacronia e sincronia. Quanto è “passato” di questo nei narratologi e semiologi occidentali che, forse, hanno un po’ dimenticato la diacronia?

Mi rifaccio alla polemica Propp-Lévi-Strauss, e dico che non bisogna confondere diacronia e storia. Storia si può fare in tanti modi, la diacronia è un modo particolare di studiare la storia, cioè una storia studiata in maniera strutturale e non in maniera storicista. A trasformarsi sono le strutture e non i singoli elementi, ma questa è una formula semplicistica, perché il discorso sarebbe abbastanza complesso. Diciamo che non è vero che i semiologi occidentali hanno trascurato la diacronia, esistono tantissimi studi in proposito.

Ci potrebbe fare qualche nome?

Inizierei proprio dai semiologi sovietici, come Lotman, come Uspenskij, che ha scritto un libro che si chiama Semiotica e storia, per non parlare dei grandi antichisti francesi, come François Hartog. Poi, ci sono stati i grandi studi di Jorge Lozano, che ha scritto un libro che si intitola Il discorso storico. Barthes stesso, in tutti i suoi lavori, sulla moda, sulla letteratura, sull’arte, si è sempre posto il problema di una metodologia della ricerca storica, basti pensare che i suoi più grandi scritti semiotici sono stati pubblicati sulla rivista Les Annales, che era la rivista di Marc Bloch, Lucien Febvre, ecc….

Qual è, secondo lei, il punto debole dell’analisi diacronica delle fiabe che Propp fa ne La fiaba russa? Cosa c’è ancora di valido, e quanto è datata la sua analisi genetica delle fiabe?

Per quanto riguarda l’analisi genetica, Propp utilizzava una teoria antropologica che è la cosiddetta teoria dei residui, per cui lui sosteneva che la fiaba è un residuo degli antichi miti d’iniziazione del Neolitico. Questa è una teoria molto invecchiata, che anche Lévi-Strauss già negli anni ‘60 criticava.

MARIA GRAZIA FALÀ

Nicola Dusi: “Serie TV, molte parole chiave per analizzare la fiction”

“Serie TV, molte parole chiave per analizzare la fiction”

Ecco, in una lunga intervista, Nicola Dusi che, con Giorgio Grignaffini, ha scritto per questo genere un testo per Carocci

Nicola Dusi

Storyworld, mondo possibile, crossmedialità, transmedialità, intertestualità, intermedialità, recap e teaser sono solo alcune delle parole chiave spiegate, in una lunga chiacchierata, da Nicola Dusi, docente di Linguaggi intermediali e Semiotica del cinema e dei media all’Università di Modena e Reggio Emilia. E lo fa per presentare il suo Capire le serie TV. Generi, stili, pratiche, scritto a due mani per Carocci insieme a Giorgio Grignaffini, direttore editoriale della Taodue Film (Gruppo Mediaset), nonché docente alla Cattolica di Milano e allo IULM.

Il volume si potrebbe incentrare su alcune parole chiave, come per esempio le varianti, termine desunto dalla letteratura e che viene proficuamente utilizzato per le diverse versioni e di sceneggiatura e di prodotto finito di una serie televisiva, come nel caso del recente Made in Italy, andato in onda su Canale 5 e su Amazon Prime Video

Made in Italy è una serie che nello standard delle serie TV italiane è riuscita per la prima volta a vendere prima su una piattaforma come Amazon che ad uscire in chiaro sulla televisione, e quindi è stato un bel successo per i produttori e ne dimostra la qualità della scrittura. Siamo partiti da Made in Italy perché Giorgio Grignaffini è, oltre a coautore di questo volume, direttore editoriale della Taodue Film. Il suo lavoro è di produrre passo passo una serie TV, in questo caso Made in Italy, dal pitch, cioè dall’idea iniziale, alla sceneggiatura, alle varie versioni delle sceneggiature, per arrivare alla scelta del cast, alle riprese, al montaggio e anche a tutti i problemi di postproduzione e di distribuzione. Infatti, essendo la Taodue in relazione con Mediaset, è molto attenta anche al lancio della serie e alla distribuzione, anche sul piano internazionale. Made in Italy era un buon esempio perché era molto fresca, era sottomano, e perché Giorgio Grignaffini la conosceva dalla nascita all’età adulta.

Giorgio Grignaffini

È un po’ questa l’idea del volume che abbiamo pensato insieme, per fare qualcosa che la semiotica testuale, la sociosemiotica o l’analisi televisiva delle serie TV di questi anni hanno un po’ perso di vista. Abbiamo deciso di lavorare nei primi capitoli sulla genetica testuale, sulla genesi della costruzione e della produzione di una serie tv a monte invece che a valle, cioè di lavorare su tutto quel processo di scelta che parte da poche righe di un pitch, che è un brevissimo soggetto, l’idea iniziale di una serie, e che l’accompagna dopo aver venduto l’idea ai produttori lo sviluppo e la sua complessificazione, la stratificazione, verso il prodotto finale.

La semiotica lavora di solito sul testo finito, sul testo realizzato, sull’opera messa a disposizione dei fruitori, dei lettori, o degli spettatori. La nostra idea era invece di tener presente le serie tv non solo per come appaiono agli spettatori, ma anche per come vengono costruite.

Quest’idea è appunto alla base del volume ed è collegata alle parole varianti/invarianti che provengono dalla linguistica, dalla semiotica testuale, ma che hanno a che fare però anche con la variantistica di cui si parla (ad esempio con Contini) in letteratura. Noi abbiamo cercato di spostarle verso un lavoro sulla produzione testuale della serialità televisiva, intendendo con ciò che pensiamo alle serie tv come al prodotto di una serie di step traduttivi.

Alla base della costruzione di un prodotto seriale ci sono elementi sia di interpretazione, sia di traduzione continua, perché già dal momento in cui viene approvato un pitch di una serie TV fino alla sua scrittura c’è un passaggio espansivo, che chiamiamo una “variante espansiva”. Essa si verifica quando si comincia a mettere carne sul fuoco, a costruire ad esempio dei personaggi. Questa variante espansiva ha a che fare con un percorso di costruzione del prodotto seriale, che dal pitch passa al concept, poi al soggetto, alle varie versioni di sceneggiatura fino allo shooting script, cioè a quella sceneggiatura dettagliata, con didascalie e dialoghi (a volte anche con dettagli tecnici come i movimenti di macchina) che arriva al regista e alla produzione per definire le fasi di lavoro e delle riprese della serie.

La cosa che ci interessa è mettere a confronto queste varianti espansive, dette così nel senso che sono una trasformazione dal nucleo iniziale di poche righe in una sceneggiatura fatta e finita, che porta al prodotto che viene filmato, con le varianti che chiamiamo “paradigmatiche”. Il termine paradigmatico viene dalla linguistica: si parte cioè dall’idea che il linguaggio sia una catena sintagmatica di segni, di espressioni, dall’altra una catena di segni intesi come possibilità. Come diceva Roland Barthes, il menù del ristorante con tutte le sue possibilità è il paradigmatico, e invece il sintagmatico è la successione del primo, il secondo e il caffè, che costituisce la catena sintagmatica del mio pranzo.

Il nostro assunto è che ci sia anche un mondo paradigmatico dietro alla serialità che vediamo come spettatori, e qui si nota l’importanza di avere tra le mani un prodotto fresco di edizione come Made in Italy. L’abbiamo riaperto a partire dalle varianti di sceneggiatura che Grignaffini aveva ancora sulla scrivania, e abbiamo lavorato anche sulle varianti di montaggio, che sono molto difficili da trovare, soprattutto in una serie TV. Infatti, le varianti di montaggio sono quel tipo di trasformazione testuale che si perdono per strada e che di solito spariscono. Se si tratta di un film d’autore spesso magari rimangono in qualche cassetto (o meglio database), in modo da poter poi fare i contenuti speciali del DVD, ma in una serie TV è difficile che rimangano a disposizione.

Invece, in questo caso, siamo riusciti anche a lavorare su queste varianti paradigmatiche, cioè sui ripensamenti e sulle scelte di seconda o di terza istanza una volta che il prodotto era stato filmato e montato, in un primo momento, seguendo la sceneggiatura.

A questo punto è entrata in gioco una pluralità di soggetti (registi, produttori e sceneggiatori) che ha rilavorato sul materiale girato: questo perché esiste un’autorialità diffusa nelle serie TV.

Si tratta di un insieme di professionisti, di persone che lavorano su questi prodotti che fa dire ormai che non c’è un solo autore, ma un’autorialità più ampia. Si parla adesso molto di showrunner come di colui che, soprattutto nelle serie americane, tiene insieme le fila di tutto questo lavoro: in Italia questa figura non esiste allo stesso modo, ma esiste comunque un gruppo di lavoro costituito da chi ha seguito il progetto fin dall’inizio che svolge una funzione di garante della coerenza complessiva del prodotto.

Poi all’interno di questo gruppo, il ruolo del produttore è senza dubbio centrale in quanto permette alla produzione di avere anche un interlocutore definito per la promozione del lavoro di fronte al pubblico e ai giornalisti, ma in effetti anche per tutto il reparto produzione che si rifà a un’unica figura.

Siamo quindi partiti da un’idea di traduzione, che abbiamo ripreso dalle proposte di Paolo Fabbri quando, fin dalla fine degli anni Duemila, si ragionava con lui sulla traduzione intersemiotica, cioè sul problema di tradurre tra linguaggi differenti. Infatti, quando passo da una scrittura di poche righe a una sceneggiatura sono ancora dentro al linguaggio della scrittura, ma nel momento in cui lo metto in scena e quindi scelgo di filmarlo, di avere una location, e poi lavoro sul montaggio di ciò che ho filmato e infine sulla postproduzione, sono dentro un linguaggio audiovisivo totalmente diverso dalla scrittura.

Quando abbiamo un passaggio tra linguaggi con materie dell’espressione differenti, direbbe la semiotica, abbiamo una traduzione intersemiotica. Quest’idea ci ha guidato perché il concetto delle varianti e delle invarianti è un’idea forte nel processo traduttivo. In esso si conserva quello che è invariante e si trasforma quello che è variante. Quindi l’idea di trasformazione, di variazione, è quella importante. L’abbiamo ripresa chiaramente anche da Lotman, che ha sempre proposto una semiotica della cultura con una forte base traduttiva. Da semiologi, quando parliamo di passare da un linguaggio all’altro, verso forme di traduzione che possono diventare molto espanse come nel caso delle serie TV e che diventano non solo prodotti televisivi, ma vivono anche nel web per diventare galassie di prodotti ancillari, come quelli promozionali, quelli di lancio, i promo, i trailer, oppure anche prodotti come i recap o i teaser. Sul web le serie TV vengono oltretutto spesso riprese, manipolate, riaggiustate, con moltissimi remix da parte dei fan e degli utenti più attivi.

Per noi tutto questo percorso è sempre osservabile con uno sguardo semiotico, che nella prospettiva di Lotman è una traduzione e reinterpretazione continua che diventa la base di ogni cultura, nel senso che interpreto e traduco perché fa parte della semiotica di fondo di ogni processo culturale e di ogni modo di produrre senso. Pertanto non diciamo nulla di nuovo, solo che, applicandolo alle serie TV, troviamo ad esempio le sceneggiature che sono da una parte dei contenuti da tradurre, dall’altra delle istruzioni per poterlo fare, perché dicono come fare, ad esempio dove posizionare la macchina da presa, ecc.

Usando questa idea di traduzione abbiamo cominciato a ragionare in termini sociosemiotici fin dalla prima parte del volume, usando una proposta di Landowski (un allievo di Greimas, come Paolo Fabbri), che appartiene alla semiotica francese di taglio generativo e strutturale.

Landowski propone di pensare alle pratiche della costruzione di senso con quattro grandi polarità, che dispone su una sorta di quadrato semiotico, organizzandole per contrarietà, per complementarietà e per contraddizione, e rendendole molto dinamiche tra loro.

Per lui c’è un momento forte di “programmazione”, e una pratica collegata e complementare alla programmazione che chiama “manipolazione”. Il primo è quello che la semiotica conosce meglio, perché vuol dire la costruzione di un testo, la programmazione per quello che può fare un autore o meglio una strategia autoriale rispetto alle competenze che serviranno per leggere o per interpretare quel testo, quindi ad esempio quando si fa una serie tv pensare a quali spettatori, quale tipo di target si privilegerà nella fruizione di quel prodotto, e anche questo vuol dire pensare al tipo di complessità narrativa, ad esempio il tipo di linguaggio che useranno i personaggi, le ambientazione, il ritmo narrativo, ecc.

La programmazione come dicevo è quella che la semiotica testuale ha considerato di più negli anni Settanta, ma negli anni Ottanta diventa subito anche “semiotica delle passioni” e manipolazione, come dice Landowski. È questo un momento in cui qualcuno fa fare a un altro qualcosa, quindi lo manipola, nel senso che lo seduce, lo porta verso i suoi valori, lo porta a vedere con i suoi occhi. In quest’ottica troviamo per esempio tutte le strategie di enunciazione, il fatto che io, cambiando il punto di vista in un racconto, cambio anche i modi di informare lo spettatore: sono tutte forme di manipolazione testuale.

Ma ciò che ci interessa è che non c’è solo il binomio programmazione/manipolazione nella proposta di Landowski, ci sono anche due voci che i sociologi conoscono fin dagli anni Settanta, quando si parlava di caos versus ordine, o di aggiustamento relazionale nelle conversazioni. Ecco, Landowski propone di parlare proprio di questo, di “aggiustamento” e di “alea”.

L’alea è il momento dell’incidente, del caos, della cosa imprevista, che può accadere sempre, anche nella produzione di una serie TV, per esempio quando si ammala o muore l’attore che interpreta il personaggio principale, oppure quando la produzione chiude i finanziamenti e quindi bisogna trovare una soluzione di finale decente, oppure lasciare proprio cadere la stagione successiva. Si tratta di incidenti di percorso a cui si deve rispondere, e questo ci interessa molto, come pratica di aggiustamento.

Le modalità dell’aggiustamento per Landowski sono per noi la chiave, perché sono forme di trasformazione, di adattamento, di continuo confronto creativo tra i soggetti, per cui la realizzazione di un prodotto ha a che fare coi suoi vincoli, con i limiti che vengono dati dagli apparati tecnici, perfino dagli imprevisti durante la lavorazione.

Il momento dell’aggiustamento è ciò che rende lo showrunner o il gruppo produttivo-autoriale necessario, nel senso che c’è bisogno di qualcuno che continui a tirare le fila e a riorganizzare il tutto. Questo, applicato alle serie TV, vuol dire che i momenti di scrittura e di organizzazione della produzione, della messa in scena, ecc., sono momenti tra la programmazione e la manipolazione. Tuttavia, quando il prodotto comincia via via a prendere forma, c’è un continuo aggiustamento.

Le varianti appartengono all’area dell’aggiustamento, sono il momento in cui penso: “Potrei dirlo in questo modo oppure in un altro: quale dei due è più efficace?” e faccio una scelta. Allora, in qualche modo, aggiusto continuamente le possibilità rispetto ai contesti, alle situazioni e alle prospettive comunicative che ho di fronte.

Su un prodotto molto fresco come Made in Italy, allora, ci abbiamo ragionato ed abbiamo provato a scrivere in particolare rispetto ai cambiamenti del personaggio principale (la giornalista in erba, la giovane Irene), che nella serie cresce gradualmente, da studentessa di arte che poi lascia l’università a neofita del mondo della moda che diventa lentamente sempre più professionale, fino addirittura alla fine della prima stagione a diventare la direttrice del giornale.

All’inizio questo personaggio era stato pensato dagli sceneggiatori in un modo molto diverso, e c’è stato un aggiustamento progressivo, mano a mano che veniva costruito. Ad esempio, all’inizio della scrittura era una protagonista che veniva dall’alta borghesia milanese, poi è diventata la figlia di un operaio.

Io comunque l’avrei lasciata con quel background, perché ritrarla come Cenerentola mi sembrava un po’ scontato…

La Cenerentola è un po’ scontata, però funziona, perché è un archetipo narrativo: soprattutto funziona per creare conflitto e desiderio di rivalsa rispetto al mondo di partenza e a quello di arrivo, quello del lusso, della moda che comincia a nascere nella Milano degli anni ’70. Infatti, l’idea di fondo è stata questa, cioè di costruire un racconto sull’inizio della moda a Milano negli anni Settanta seguendo un po’la falsariga della biografia di Franca Sozzani, la direttrice di Vogue Italia. Di Franca Sozzani è stata letta la sua biografia, raccontando alcune delle persone che aveva intervistato, cioè i vari stilisti, che poi sarebbero diventati famosi come Giorgio Armani, Trussardi, e altri. Nella serie tv essi, ovviamente, sono stati reinterpretati da attori, però con un’attenzione alla realtà storica. Pertanto, fin dalla scrittura, c’è stata un’attenzione a mescolare la fiction con delle vere interviste. Per esempio ci sono le parole autentiche da Giorgio Armani, interpretato nella finzione da Raoul Bova, legate alla sua dimensione professionale e alle interviste trovate sui giornali di quegli anni.

Ecco, l’idea era che, mano a mano che cresce la competenza di questa giornalista neofita, aumenta anche quella del pubblico, perché all’inizio viene presentato Giorgio Armani come un sarto di alta moda che ha appena cominciato ad essere conosciuto come disegnatore e stilista, e poi dietro le presentazioni dei vestiti si coglie lo sguardo della giornalista che ne scrive, cioè si riassume anche la competenza critica rispetto all’innovazione portata da uno stilista come Armani. Quindi si fa anche crescere lo spettatore rispetto a questa competenza. Per tornare alle varianti, la prima stesura di sceneggiatura era più fedele alla realtà sociale dell’alta borghesia che si apriva al mondo della moda, con una giornalista che proveniva da un ambiente che in qualche modo conosceva e apprezzava questo mondo. Nella seconda versione, invece, si ha la trasformazione di Irene in una figlia di operai, che si sono sacrificati per farla studiare, e che lascia l’università per dedicarsi a questo mondo.

Si tratta di una Cenerentola, ma anche dell’idea di costruire un conflitto valoriale nel personaggio che lo rende molto più interessante, molto più appetibile rispetto alla prima versione.

Altre varianti di montaggio che abbiamo trovato sono ad esempio quando la giornalista in erba viene mandata per la prima volta all’estero, in Marocco, per fare un servizio. Qui ha a che fare con un fotografo di moda già molto famoso, i due hanno un problema con la modella che era stata mandata dalla redazione, e quindi Irene si inventa un escamotage. Come modella fa lavorare la cameriera marocchina, una ragazza bellissima: lo shooting funziona molto bene, ma la giornalista non sa ancora che poi il servizio sarà cassato completamente, perché in quegli anni una modella nera non si era ancora mai vista nelle riviste di moda. Poi va a cena con il fotografo e inizia una scena di seduzione. In quel momento, durante il montaggio, ci si è accorti che si poteva rimontare prima la scena del cibo (il cous cous) mangiato assieme e poi quella dei provini fotografici guardati dai due, rispetto alla prima scrittura, e quella è rimasta la versione definitiva. In questo modo il tutto è diventato più efficace in termini di trasformazione passionale del personaggio di Irene, ed ecco dove la semiotica può aiutare in una costruzione graduale del senso di un racconto.

Su questo siamo riusciti a ragionare comparando le varianti: è un terreno molto fertile di ricerca, perché ad esempio è ciò che fa Netflix oggi, che prende spesso delle serie andate in onda magari in modo sfortunato su dei canali TV nazionali, le compra, le rimonta e le rilancia in modo globale facendole diventare delle serie di successo. Penso a La Casa di carta, che nella prima stagione, nella versione spagnola, non ha funzionato. Netflix l’ha comprata, l’ha rimontata, ha fatto del color correction e ha lavorato sui chiaroscuri, ha cambiato la musica, adattandola a ogni personaggio, ha serrato un po’ il montaggio, insomma, ha preso un prodotto già finito e l’ha rielaborato. Questo per la prima stagione, poi le altre sono di casa Netflix.

Allora, la versione televisiva precedente cos’è? Diventa una variante. Netflix la riscrive con mille accortezze stilistiche, facendola diventare un prodotto di successo.

Lei si sofferma poi su paratesti come i recap, per lo più, diremo, “compilativi”, che servono a fidelizzare il pubblico su una serie, e che possono essere tra l’altro “a riassunto” o modulari. Ce ne potrebbe fare qualche esempio?

I recap, come dice la parola, sono delle recapitulations, dei riassunti che tutti gli spettatori conoscono perché non li ha inventati la TV contemporanea, sono i previously on, sono quei frammenti iniziali di un episodio, di una puntata, di un telefilm, per esempio degli anni Settanta – Novanta, quando si diceva “nelle puntate precedenti”. I previously on sono riassunti di quello che è appena successo che permettono allo spettatore che non ha visto la puntata precedente, o invece l’ha messa in memoria e quindi la può riattivare, di partire con il piede giusto nel nuovo episodio.

I recap sono diventati ormai sempre più interessanti da studiare, perché si possono pensare come degli entry point, cioè come dei punti d’ingresso della grande architettura dell’informazione seriale che apre un “ecosistema”, come dicono alcuni studiosi di Bologna (Pescatore e Innocenti), un ecosistema seriale dentro cui si entra da vari varchi.

Uno degli ingressi possibile è il recap: io vedo il riassunto delle puntate precedenti, ho perso degli episodi, so che posso andare a ripescarli, eppure posso entrare anche a stagione iniziata e godere dell’episodio corrente. Studiando i recap di Lost o di Breaking Bad nel libro, anche sulla scorta di autori che ci hanno molto scritto e ragionato, parliamo ad esempio di recap “a riassunto” o recap “modulari”.

Quelli “a riassunto” sarebbero i più semplici, i più tradizionali, quando una voice over informa di ciò che è successo nelle puntate precedenti, quelli “modulari” sono invece più legati al mondo digitale, cioè sono frammenti selezionati e rimontati senza voice over, in modo molto rapido, per dare visivamente una ‘rinfrescata’ a ciò che è accaduto, cioè una maniera per poter rimettere in pista il racconto. Ecco, a seconda di come metto in prospettiva questa rinfrescata, questi frammenti, posso costruire il racconto precedente di un personaggio specifico oppure di personaggi che sono stati perduti o intravisti solo in alcuni episodi molto lontani o, addirittura, andare a pescare nella stagione precedente, oppure posso far tornare attraverso un recap episodi di stagioni precedenti.

Il recap, pertanto, pesca anche in modo inter-stagionale, non solo inter-episodico, e fa qualcosa che non è solamente un riassunto, ma piuttosto un riattualizzare dando delle nuove pertinenze, cioè riorientando, tematizzando nuovamente il racconto. C’è anche poi il fatto di fornire delle chiavi di accesso, e con un passo indietro rispetto ai varchi di entrata potremmo anche dire che il recap è una mappatura rispetto al mondo narrativo. Quando faccio un recap sto anche rimettendo in gioco, per lo spettatore, delle “mappe cognitive”, delle mappe narrative, delle “situazioni quadro”, come le definirebbe Ruggero Eugeni, cioè delle mappe di sintesi della situazione narrativa, in cui lo spettatore si riambienta, si riorganizza.

In Breaking Bad, ad esempio, verso la fine della quinta stagione troviamo il sodale del protagonista, Jesse Pinkman, che attraverso le stagioni ha uno sviluppo, un suo percorso trasformativo, molto forte, pari a quello del personaggio principale, Walter White, che diventa sempre più cinico e drug lord rispetto all’iniziale professore di chimica che si dava quasi per disperazione alla produzione di metanfetamine per far un po’ di soldi rapidamente. White sconfitto il tumore diventa sempre più cinico e manipolatore, mentre Jesse, che all’inizio della serie è un balordo che però impara a cucinare metanfetamine, un aiutante di White, piano piano nelle varie stagioni diventa una figura etica, che fa da contraltare rispetto al cinismo di White.

Nell’ultima stagione (la quinta), Jesse recupera la memoria della sua fidanzata di qualche stagione precedente, e questa memoria interstagionale viene ricordata a partire dal recap, che va a recuperare dei frammenti della storia d’amore con lei, che poi era morta per overdose di fronte a un Walter White che era entrato in casa di notte, li aveva visti entrambi svenuti, e aveva assistito alla morte di lei senza fare niente, pur di poter continuare a manipolare il suo aiutante.

La ragazza morta quindi torna nei ricordi fin dal recap, e questi danno allo spettatore anche l’idea della sofferenza, della trasformazione del personaggio di Jesse. Il recap si mette al servizio dello spettatore e ricorda appunto, riprende delle scene delle stagioni precedenti, e in tal modo apre al teaser, al primo segmento narrativo vero e proprio dell’episodio in cui si recupera con un flashback una gita fatta dai due fidanzati qualche anno prima. Il teaser allora si mette in relazione con il recap, e mi interessava molto lavorare su questo passaggio, da una parte vedere i teaser e dall’altra i microtesti come i recap, questi “nanotesti” (definiti così da Scolari), che sono invece oggetti prodotti, dati dalla rete e dalla produzione.

Un altro paratesto, più evocativo e originale, quasi sempre frutto autoriale, è per l’appunto il teaser…

Dal punto di vista testuale e produttivo, lavorare sui recap, sul confronto con un altro microtesto o nanotesto come il teaser, ci permette di capire un aspetto legato a due parole chiave del nostro libro, che sono “espansione” e “condensazione”. Prima parlavamo di “varianti e invarianti”, e abbiamo già accennato alle varianti espansive. Ecco, espansione e condensazione sono due parole chiave dei problemi traduttivi: posso espandere e costruire a cerchi concentrici un racconto oppure farlo per stratificazioni successive, oppure posso invece condensare, ridurlo in poche frasi, ed è questo che fa il recap, condensa e riduce.

Il teaser invece, che si pone all’inizio degli episodi, in apertura, è quel momento chiamato anche cold open, di ingresso in un nuovo episodio, che è diventato molto importante in alcune serie TV contemporanee. In Breaking Bad è molto famoso l’innovativo utilizzo dei teaser, cioè delle prime sequenze del nuovo episodio, che spesso sono totalmente slegate in apparenza al racconto che si sta portando avanti, infatti sono dei flashforward o dei flashback o delle riprese in macro con punti di vista molto ravvicinati su animali (come uno scarafaggio), o su oggetti in situazioni insolite…

Insomma, spesso i teaser di Breaking Bad sono momenti un po’ perturbanti per lo spettatore, e questo ci fa dire che essi sono, a loro modo, una forma breve, che introduce un episodio, ideata dai creatori della serie, girata ad hoc con una funzione testuale molto specifica, perché orienta anche il senso dell’episodio. Il recap, invece è qualcosa di applicato successivamente dalla produzione (e si tratta quindi di oggetti molto diversi).

Il recap è una condensazione, il teaser è una dilatazione, un’apertura, perché permette di aprire a nuove prospettive narrative, di dare un anticipo su qualcosa che vedremo alla fine dell’episodio o addirittura alla fine della stagione, come accade nei teaser della seconda stagione di Breaking Bad, che sono casi molto studiati.

Ci sono infatti in questo caso dei teaser, che “anticipano” un incidente aereo nel cielo di Albuquerque con dei frammenti che cadono sulla città tra cui un orsetto fucsia di peluche che arriva nella piscina di White. Questo sarebbe solo il racconto di un incidente, ma viene così frammentato nei vari inizi degli episodi della seconda stagione, anche giocando non a metterli in successione, giocando a dislocarli. Lo spettatore è incuriosito, frastornato, non sa di cosa si tratta e viene premiato solo se arriva alla fine della stagione a recuperare l’intero di questo microracconto, che ha a che fare in effetti con il personaggio principale e con la fidanzata di Jesse. La ragazza era figlia di uno dei controllori di volo, e il fatto che Walter White abbia assistito alla sua morte senza fare nulla per aiutarla lo coinvolge indirettamente nell’incidente aereo. Il controllore di volo è infatti il padre della ragazza, dopo la sua morte cade in depressione, e contribuisce all’incidente aereo con la sua distrazione.

Quello che ci permettono di dire questi teaser è che non esistono solo forme di condensazione, ma ci sono anche forme autoriali di espansione e di gioco con lo spettatore.

Riallacciandomi proprio ai recap e ai teaser, nel libro cerchiamo anche di inseguirli attraverso le loro trasformazioni “transmediali”, cioè di andare verso quel mondo del web in cui i fruitori e gli spettatori prendono pezzi della serie e li trasformano. Di solito prendono più facilmente formati brevi come i recap, oppure nel caso di Breaking Bad tutti i teaser della seconda stagione vengono da remixer del web rimontati l’uno di seguito all’altro. Pertanto si prendono solo quei frammenti di qualche minuto di ogni episodio, li si monta l’uno di seguito all’altro, e si riesce così a ricostruire quel racconto che era stato segmentato nel corso della stagione. Questa è una sorta di collection che fanno i remixer del web, fan della serie che riorganizzano il senso di una cosa appena vista e la portano verso nuove direzioni.

Questa per noi è la ricchezza del mondo transmediale. Le serie TV non sono solo dei prodotti seriali con un episodio dopo l’altro come eravamo abituati, ma sono anche dei prodotti che vivono di rielaborazioni, di remix, di rilanci da parte dei fan e degli utenti del web.

A questo punto emerge la contrapposizione tra “crossmediale” e “transmediale”?

In Italia si fa molta confusione tra questi due termini. Seguendo Davidson e altri autori americani la “crossmedialità” viene definita come qualcosa molto più legata agli utenti attivi, ai prosumer del al web, ad esempio alle parodie legate alle webseries fatte dai The Jackal: Gli effetti di Gomorra la serie sulla gente.

Il mondo crossmediale è quindi molto più discontinuo rispetto alle serie perché reinterpreta, manipola, come fanno i bricoleur, o meglio come fanno i remixer, mentre la “transmedialità” appare più legata al mondo testuale della serie, a quello che chiamiamo storyworld. Invece la crossmedialità lo riapre e lo trasforma. Nella transmedialità metterei anche tutte quelle forme che Jenkins chiama transmedia storytelling, cioè il racconto su diverse piattaforme mediali di una storia con una matrice comune.

Quindi il transmedia storytelling, appunto il transmediale, è legato a una storia che si dissemina su diverse piattaforme, mentre il crossmediale, almeno per come lo interpretiamo nel nostro volume (o anche nel mio libro Contromisure), è più aperto, è più ludico, più slegato da un canone e da una catena di coerenze. Con la crossmedialità si rompono le catene e si lavora in modo più creativo. Ad esempio negli ambienti videoludici i giocatori di videogame spesso hanno a che fare con frammenti e rielaborazioni di film, e questo è un momento che viene spesso filmato e messo a disposizione di altri utenti nel web (questo è un modo crossmediale). Invece il transmediale ha a che fare con una produzione più coerente, in qualche modo in continuità con il prodotto e il mondo di partenza.

Breaking Bad, ma anche Lost, propongono ad esempio dei webisodes, cioè dei mini-episodi per il web che fanno da traino tra una stagione e l’altra per lo spettatore. Per non perdere pubblico tra una stagione che chiude e la stagione successiva che riapre dopo l’estate vengono prodotti i webisodes, cioè microracconti che vanno visti nel web o sullo smartphone e che permettono ai produttori di tenere fidelizzati gli spettatori.

Ne parliamo nel libro per Lost e per Breaking Bad, ma ormai siamo arrivati a un tipo di consumo che permette di vedere tutto e subito, con Netflix e altre piattaforme OTT (“Over-the-Top”) di streaming video come Amazon Prime Video. Ciò sta trasformando il consumo e anche questi oggetti prodotti per fare da traino tra le stagioni oggi non hanno più molto senso se posso fare binge watching, cioè posso vedere una stagione dopo l’altra senza più avere il tempo di attesa che caratterizzava la serialità TV fino a ieri (un modo che comunque continua ad esistere nelle reti televisive tradizionali).

Tornando a La Casa di Carta, però, anche in questo caso una volta che ho consumato come spettatore Netflix tutte le stagioni disponibili, poi devo aspettare che venga prodotta quella successiva, e anche qui, quindi, si creano nuovi buchi temporali da riempiere.

Ecco, in tutto questo spazio di attesa si inseriscono le proliferazioni che chiamiamo transmediali e crossmediali. Da una parte possono essere dei webisodes prodotti dalla produzione (transmedialità), dall’altra sono invece rilanci, remix, rimontaggi fatti dagli utenti che cercano di mantenere vivo quel mondo a cui si sono affezionati. Ciò avviene chiaramente non solo nei passaggi fra le stagioni, ma anche durante la messa in onda della serie e anche successivamente alla sua ultima stagione, perché ad esempio, sempre per quanto riguarda Breaking Bad, la sua produzione testuale si continua a rimanipolare nel web anche se ormai la quinta stagione è finita da un pezzo.

Tornando a questa serie TV, ne possiamo parlare ormai come di un ecosistema. Questo universo complesso che chiamiamo ecosistema – Lotman lo chiamerebbe come una forma di “semiosfera”, cioè un insieme di racconti che si traducono tra loro, di testi in relazione di interpretazione/traduzione – è un universo complesso in evoluzione. Da una parte ha le sue cinque stagioni con i webisodes prodotti dall’alto, dalla produzione. Su Netflix inoltre si trova adesso una molto fortunata serie TV che è stata prodotta come spin off di Breaking Bad: Better Call Saul, che ha ripreso l’avvocato di Walter White, il simpatico Saul Goodman, ed è andata a ritroso da quando era piccolo e faceva i trucchetti e lo chiamavano “Jimmy Scivolone”, cioè quello che, scivolando faceva finta di farsi male per farsi pagare dai vari clienti sfortunati che venivano raggirati, fino ad arrivare alla costruzione del personaggio di Saul Goodman.

Goodman è interessante perché è un antieroe, sempre molto frustrato, molto alle prese con il mondo che non riesce a dominare, con un fratello che nelle prime stagioni è un avvocato di successo che lo tiene sotto il proprio tallone. Saul farà la scelta, piano piano, di diventare sempre più un avvocato che lavora ai margini della legalità e anzi spesso nell’illegalità, diventando appunto Saul Goodman (e non più Jimmy McGill, che è il suo vero nome). Insomma, questo personaggio viene costruito, riaperto completamente, dopo ben cinque stagioni di Breaking Bad, e diventa in altrettante stagioni una figura a tutto tondo, quasi alla pari di Walter White.

Questi però sono tutti racconti fatti dall’alto, top down, legati alle case di produzione, e siamo quindi nel campo della transmedialità.

C’è poi un sequel cinematografico…

Sì. Vincent Gilligan, lo showrunner di Breaking Bad, ha ben pensato di fare nel 2019 un sequel che si chiama Il Cammino. È la storia di Jesse Pinkman, che avevamo lasciato alla fine della quinta stagione appena liberato da una prigionia dall’ultimo sacrificio di Walter White. Nel film trova la sua strada, la possibilità di darsi una nuova identità, di crearsi una nuova vita. Ribadisco che questi sono tutti prodotti top down, quando invece parliamo di crossmedialità siamo sulle produzioni grassroots, cioè dal basso.

Parlando di Complex TV, termine che sembra andare al di là delle semplici categorie di brutto/bello, emergono tre concetti fondamentali, quello di intertestualità, intermedialità, transmedialità (di qust’ultimo abbiamo già parlato)…

Se pensiamo alla relazione tra transmediale e crossmediale, possiamo anche tornare a quelle di cui si è sempre occupata la semiotica, cioè a intertestualità e intermedialità. Sono le cose di cui ci occupiamo di più nella seconda parte del volume a partire proprio da Breaking Bad, ma anche da serie come Gomorra, oppure Il nome della rosa. Sono dei testi che trasmigrano a partire da romanzi, nel caso di Gomorra e de Il nome della rosa, quindi passano dalla letteratura al film e poi a serie televisive. Oppure, nel caso di Breaking Bad, troviamo invece giochi intermediali in cui la serie si mette in dialogo con tutto quello che c’era nella cultura cinematografica e audiovisiva precedente. In questo caso si è molto parlato di “western postmoderno”. Vince Gilligan, lo showrunner, ha espressamente ammesso di prendere spunto dai film di Sergio Leone.

Questa è intertestualità…

Sì, la si ha quando riesco a leggere dentro una serie altri testi, come appunti i film di Sergio Leone, oppure ritrovo Il braccio violento della legge di Friedkin, o accenni ai film di Tarantino, di Coppola, dei fratelli Coen, ecc.

Si ha invece “intermedialità” quando c’è il richiamo a più media. I teaser di alcuni episodi di Breaking Bad come quello con i mariachi, sembrano un videoclip, altri sono in stile spot, altri usano la forma del videogioco, insomma la serie si ibrida con altri media.

Spesso però c’è un problema di “cinematograficità” di queste nuove serie TV che abbiamo indicato parlando di serie cinematic. Per dire che sono serie di una qualità tale nel racconto, che molti ammettono che “ormai sono alla pari dei film, sono fatte meglio dei film”. Tuttavia, non è solo questo, è piuttosto che queste nuove serie TV usano l’universo cinematografico come un universo di riferimento costante (assieme certo a quello dei fumetti, a quello musicale, ecc.). Quindi l’intertestualità si complica nell’intermedialità: lo chiameremo con Manovich un “assemblaggio profondo”, cioè un modo di remixare e riprendere da varie fonti, ma anche però di lavorare usando al meglio le nuove tecnologie digitali e i nuovi software di produzione.

Qui siamo nell’ambito dell’intermedialità…

“Intertestuale” sarebbe una relazione tra testi, come quando trovo, in una serie TV, un ammiccamento, una parodia, un accenno a un film, ad esempio quando Breaking Bad in un episodio, riprende Il padrino di Coppola. “Intermediale” diventa invece quando un altro medium viene portato dentro (vedi il caso del videoclip, degli spot). Il modo del remix, anzi della “deep remixability” di Manovich (l’assemblaggio profondo di cui parlavamo) mischia tutto questo anche grazie alle nuove tecnologie digitali.

Nel nostro volume quindi abbiamo cercato di analizzare, non solo in Breaking Bad, ma anche in Gomorra e altre serie, quello che diventa intersemiotico e intermediale. Ad esempio quando il romanzo di Saviano diventa film e poi, dalla prima stagione di Gomorra La serie, diventa un mondo che viene espanso anche nel web con le parodie, con i recap, con i remix, ecc. Quello che ci interessa è che tutto questo non ha più a che fare solo con quello che tradizionalmente chiamavamo “mondo possibile finzionale”, seguendo la semiotica testuale di Umberto Eco in Lector in fabula, ma ha invece a che fare con uno storyworld, con questa parola inglese che vuol dire ancora mondo del racconto, ma va intesa in modo dinamico.

Storyworld e mondi possibili, concetto più dinamico il primo, più stabile invece il secondo…

Esatto. Il termine è usato proprio per uscire dall’idea di mondo possibile narrativo e aprirlo a queste espansioni ad opera di tutti gli altri soggetti, che non sono più solo gli autori, i produttori, i distributori, ma sono anche le audience, i fan. Nello storyworld teniamo insieme, come per gli ecosistemi, sia le produzioni dall’alto che quelle dal basso.

Invece il mondo possibile è qualcosa di più top down

Sì, potremmo dire che è una costruzione di programmazione autoriale, mentre gli storyworld sono mondi possibili che vengono realizzati ed espansi, come una fisarmonica o un bandoneon argentino. Negli storyworld si può anche decidere di uscire dal canone e passare a una seconda logica, che è quella del What if, cioè una logica del “Come se”, e questo ci ha permesso di capire meglio cosa è stato fatto per la serie tv Il nome della rosa, perché in questo caso molti spettatori che conoscevano il film sono rimasti delusi dalla proposta della RAI. Invece, ragionandoci in termini di storyworld, si capisce meglio l’operazione proposta da Giacomo Battiato, che è il regista ma anche il responsabile principale della sceneggiatura definitiva. Battiato ha garantito una coerenza autoriale al progetto, fino da quando gli è stato messo in mano come prima sceneggiatura dalla Rai, riscrivendolo, passando a dirigere le riprese, poi seguendo il montaggio e la postproduzione, quindi possiamo parlare di lui come un autore, non solo di uno showrunner.

La serie tv quindi, non solo ha ripreso la narrazione de Il nome della rosa romanzo e de Il nome della rosa film, esplorando meglio il mondo possibile del romanzo, ma è andato anche a chiedersi appunto “What if?”, ed ha così aperto una narrazione diversa, non più legata in modo “centripeto” allo storyworld, o al mondo possibile iniziale. Nei termini di Mittell e del suo Complex Tv, l’abbiamo chiamata uno storyworld centrifugo. Il racconto “centripeto” continua ad approfondire dentro un canone stabilito i personaggi, come fanno ad esempio quei webisode di Breaking Bad di cui parlavamo prima, quando vanno al fondo nelle storie dei personaggi dando loro delle backstories. Il racconto “centrifugo” apre alle nuove logiche dei fan, quelle del What if.

La serie Il nome della rosa ci permette così di ragionare sulla costruzione degli storyworld, cioè quei mondi possibili dinamici che possono restare nel canone dettato (in questo caso) dal romanzo e poi dal film, oppure possono uscire dal canone e sono allora costruiti da storytelling centrifughi, che usano una logica del What if, del “Come se”. E nel “Come se” la scrittura di Battiato (insieme agli altri sceneggiatori) propone nella serie Il Nome della rosa un nuovo personaggio, quello di Anna la figlia di Dolcino, cioè quell’eretico che nel romanzo di Eco veniva solo accennato (e di cui si sa solo che è finito sul rogo: nel romanzo e nel film non si è mai parlato di suoi figli). La serie TV presenta allora Anna come un nuovo personaggio d’invenzione. Questo personaggio permette alla serie di entrare in un filone di racconto sulle eresie medievali, presente nel romanzo di Eco, che il film non sapeva riaprire. Non è un caso che Giacomo Battiato sia un esperto di eresie medievali: le ha studiato a fondo, e ha portato queste sue competenze dentro la scrittura della serie. Ecco allora lo storytelling del personaggio di Anna, la figlia di Dolcino, che è una ragazza guerriera, assetata di vendetta, che cerca di vendicare il padre, ma è anche una profuga occitana in Italia. Anna cerca le ultime lettere del padre, che sono conservate all’abbazia, e infine si sacrifica per salvare la ragazza del popolo, quella di cui si è innamorato il giovane Adso da Melk, cioè il narratore del libro, del film e della serie.

Il personaggio di Anna allora ci permette di esplorare nuovi percorsi di senso. E la serie Rai fa in tal modo un lavoro di ibridazione tra almeno due pratiche, quella transmediale di approfondimento dei personaggi con le loro backstories che chiamiamo storytelling centripeto (molti personaggi hanno delle aperture sul loro passato), e la pratica invece del What if, che permette di raccontare l’eresia e questo personaggio alternativo. Sono modi delle serie TV contemporanee di prendere dentro la loro costruzione le strategie degli utenti del web, crossmediali e transmediali, e quindi di rinnovarsi, di trasformarsi seguendo nuove strategie di storytelling.

MARIA GRAZIA FALÀ

Luca Barra: Sitcom, perché in Italia solo Boris e Casa Vianello

“Sitcom, perché in Italia solo Boris e Casa Vianello”

Il perché di un genere quasi solo americano spiegato in un libro edito da Carocci

Luca Barra
Luca Barra

Un genere leggero, con trame che fanno ridere, con aggiunta, nella narrazione, di risate che sottolineano i momenti comici. Una tradizione che ha avuto una lunga storia negli States, con titoli che hanno fatto epoca come I love Lucy, ma che in Italia ha sempre stentato, con due soli grandi testi, Casa Vianello e Boris, rispettivamente mainstream e di culto.

Poi, con l’arrivo delle TV non lineari, una “questione ancora aperta”, con la difficoltà di produrre nuovi titoli e con uno sguardo, nella programmazione, rivolto al passato.

Sono questi i nuclei portanti di un genere televisivo, la sitcom, raccontato da Luca Barra, docente di Storia della televisione all’Università di Bologna, nel suo La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, edito da Carocci.

Cosa direbbe a un lettore inesperto per definire una sitcom?

La sitcom è genere televisivo che tutti sappiamo intuitivamente individuare, ma di cui fatichiamo a definire i tratti distintivi. Soprattutto negli Stati Uniti, ha una rilevanza forte, sia da un punto di vista storico, in quanto nasce lì, e lì si sviluppa, sia oggi, visto che ogni anno vi sono sitcom in cima alle classifiche dei programmi più visti, e il genere mantiene una popolarità molto forte. Invece in Italia questa centralità arriva un po’ meno, perché tendiamo a considerarla come un sottogenere minore della serialità.

La caratteristica fondamentale della sitcom è quella di portare lo spettatore a ridere e insieme a sorridere. Ha una derivazione insieme di tipo teatrale e di tipo radiofonico, e quindi si basa su strutture narrative e produttive abbastanza stabili. Dal punto di vista narrativo, sitcom significa situation comedy, “commedia di situazione” con una rottura dell’equilibrio, vari tentativi di ristabilirlo, e alla fine un ritorno all’equilibrio iniziale: in qualcuna si ritorna esattamente all’inizio, e i personaggi non hanno memoria di quello che è successo loro prima. In altri casi, nella sitcom più recente, abbiamo invece anche percorsi narrativi che si sviluppano di puntata in puntata, ma c’è comunque sempre una storia che si esaurisce di episodio in episodio.

Un’altra caratteristica è produttiva: la sitcom è una storia abbastanza compatta, della durata di circa mezz’ora lorda, netta di 20 – 22 minuti, ritmata dalle pause pubblicitarie. È una narrazione realizzata in studi televisivi dove c’è un pubblico, che porta alle cosiddette “risate in scatola”, alla laugh track che sta in sottofondo e che caratterizza il genere in maniera forte. Inoltre le modalità di ripresa sono molto simili a quelle dell’intrattenimento televisivo, con tre o quattro telecamere che contemporaneamente riprendono un unico palco, con alcuni set fissi e ricorrenti, e gli attori che si esibiscono. Questo la accomuna al teatro, con le telecamere che riprendono da varie angolazioni, e il pubblico in studio che reagisce alle battute degli attori.

Della sitcom, dunque, si ha il “montaggio” in diretta. Non viene effettuata affatto la postproduzione?

Con I love Lucy, il primo grande successo del genere, abbiamo già una serie di pulsioni, persino un rovesciamento dei ruoli tra realtà e finzione. La protagonista femminile, Lucy, che è rappresentata sullo schermo come una svampita, nella realtà era quella che comandava, era la produttrice della serie, la protagonista assoluta, e quindi il gioco comico passava anche attraverso il contrasto tra il suo personaggio sullo schermo e la celebrità di cui godeva nella vita reale. Col procedere dei decenni c’è una sitcom legata ai valori familiari, ai quartieri residenziali fuori dalle grandi città, alle comunità rurali dell’America profonda, ma anche una sitcom fantascientifica con al centro mostri e altri personaggi soprannaturali dove si trasfigura la paura dell’altro (siamo in piena Guerra Fredda). Negli anni ‘70 c’è un’attenzione ai valori progressisti: All in the Family, Mary Tyler Moore, M.A.S.H. sono esempi di questo periodo. Negli anni ‘80 si dà più importanza all’individuo, in un’ottica più conservatrice (sono gli anni di Reagan). Negli anni ‘90 sono rappresentate famiglie disfunzionali, gruppi di amici, come in Seinfeld, Friends, ecc. E anche nella sitcom contemporanea c’è un’attenzione verso le nuove organizzazioni familiari, verso la figura femminile, sempre più autonoma e indipendente, verso l’omosessualità, verso, proprio come all’inizio della storia della sitcom, le minoranze (latine, asiatiche, afroamericane, ecc.). La sitcom quindi, anche quando non si fa portatrice di messaggi in senso forte, resta comunque un termometro importante di una società americana che cambia.

Perché, nei palinsesti italiani, una distribuzione così disordinata di sitcom importate dagli Stati Uniti?

Perché non l’abbiamo mai capita fino in fondo, o comunque l’abbiamo sempre interpretata a modo nostro. La sitcom ha un legame fortissimo con il paese e con il pubblico per cui è creata, e quindi quella americana lo ha con la propria società, dando per scontati molti elementi che per noi italiani non lo sono. Questo fattore ha sempre un po’ rallentato in Italia la fortuna del genere, considerato un po’ laterale, minoritario, banale. All’inizio si ha per esempio un fraintendimento con le risate registrate…

Personalmente, a me danno fastidio, in quanto sembra che mi dicano quando devo ridere…

Sono fatte per non farci ridere da soli davanti al teleschermo, perché quando uno ride da solo si sente un po’ in imbarazzo, e quindi le risate sono introdotte per dare un senso di comunità. Sappiamo che tante altre persone, vedendo la stessa serie, proprio quando la stiamo vedendo noi, hanno la stessa reazione, le stesse risate, confermate appunto dalle “risate in scatola”. Le risate del pubblico in studio sono quelle di chi assiste alla sitcom, e sono arricchite o un po’ addolcite in postproduzione. Quando però la laugh track arriva in Italia, c’è un certo fastidio per le risate di sottofondo: da un lato in Italia non eravamo abituati, in quanto negli altri prodotti importati (come film e serie di tipo drama) non ci sono, e dall’altra il doppiaggio spesso non era altrettanto abile, rispetto all’originale, di portare lo spettatore italiano a ridere al punto giusto.

Così, quando la sitcom americana ha cominciato a diffondersi in Italia?

La sitcom diventa di successo prima quando si rivolge soprattutto a bambini e ad adolescenti, con Happy Days. E poi c’è un momento in cui arriva, alla fine degli anni ‘70 e negli ’80, grazie alle TV commerciali, e gode di una buona popolarità (I Jefferson, I Robinson). Più tardi, invece, l’interesse italiano verso la sitcom proviene non solo da un pubblico popolare, ma anche da uno un po’ più colto, che magari vuole vedersela in originale, e che capisce meglio le battute legate alla realtà americana. Negli anni Duemila, grazie alle reti satellitari, e ora grazie alle piattaforme digitali, in Italia arriva tantissima comedy, ma è una comedy che diventa anche un po’ di nicchia, e anche questo in fondo è un tradimento rispetto al contesto originale. L’ultimo grande successo davvero trasversale della sitcom italiana è forse stato Friends. Negli anni successivi ci sono stati altri titoli che hanno avuto una certa popolarità, ma spesso legata a una comunità di fan, a pubblici generazionali o a chi sa ridere di una certa comicità americana.

Per quale motivo Mediaset è stata meno “timida” della Rai nella via italiana alla sitcom? E perché tanti fallimenti?

Credo che il primo tentativo convinto di produrre sitcom italiane sia legato a due fattori connessi. Da un lato, negli USA la TV è soprattutto commerciale. Negli anni ‘80 Finivest impone in Italia il modello commerciale, e ha ovviamente in mente la TV americana: pone, pertanto, molta attenzione a quello che avviene là a tutti i livelli, sitcom compresa. Tante sitcom americane arrivano grazie a Finivest, e da qui nasce il tentativo di farne delle nostre. Il secondo fattore è il fatto che la sitcom è un genere a basso costo, con un modello produttivo industriale, e quindi questa è un’altra ragione per cui si è provato a portarla sul mercato italiano. Negli stessi anni la Fininvest lo ha fatto per la serialità per ragazzi, come qualche anno dopo la Rai e poi Mediaset lo faranno per la soap. Sono generi industriali, che permettono una lunga serialità, una ripetizione molto forte a costi relativamente contenuti rispetto alla fiction di prime time.

Le ragioni di questo fallimento, invece, sono tante, anche se il tentativo è stato sincero. Ci sono stati alcuni successi, il più grande dei quali è Casa Vianello. Lungo gli anni ‘90 e forse all’inizio degli anni 2000 si era quasi trovata una quadra del modello all’italiana: ma da noi è sempre mancato l’aggancio con la realtà sociale, culturale e politica nazionale. Non essendoci questo, la sitcom nostrana è rimasta legata all’avanspettacolo, prima con i grandi interpreti di questa tradizione come Vianello e Mondaini, Bramieri, ecc., e poi con alcuni personaggi televisivi, che hanno provato a modernizzare un po’ ma senza effettivi cambiamenti. Mentre la sitcom cambiava tantissimo negli States, in Italia è rimasta legata a formule vecchie e mai digerite del tutto, con il conseguente esaurirsi dell’esperimento.

Perché solo Casa Vianello e Boris, rispettivamente testi mainstream e di culto, sono le uniche sitcom italiane rimaste nell’immaginario collettivo?

Casa Vianello ha avuto un così grande successo per via dei due protagonisti, dell’affetto che hanno raccolto nella loro carriera precedente e poi in quei tantissimi anni in cui, come dire, era molto evidente la commistione tra la loro vita personale e quella che mettevano in scena.

Il caso di Boris è diverso, in quanto è stata una visione di culto: la sua grande fortuna è legata alla qualità della scrittura, di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo. Questi da un lato hanno “scorticato viva” l’industria televisiva italiana, mettendola costantemente in parodia, e dall’altro sono riusciti a inserire nella serie anche tantissimi riferimenti al carattere nazionale italiano, facendovi dei richiami persino anticipatori. Dopo essere uscita dal catalogo, Boris è tornata su Netflix qualche giorno fa, e rivederla in queste settimane di quarantena fa capire come su molte cose resti di un’attualità sconcertante.

Nuove modalità di fruizione con le TV non lineari: quanto cambia e quanto invece rimane invariato?

Rispetto alla sitcom cambia tanto e cambia poco. Da un lato ci sono le piattaforme non lineari, on demand, Netflix, Amazon, ecc., che stanno cercando con più o meno convinzione di produrre delle loro sitcom, o ancora meglio, seguendo la tendenza degli ultimi anni, delle comedy, termine più largo.

Questo avviene negli States…

Sì, stiamo parlando degli Stati Uniti: in Italia c’è ancora molto poco, stanno facendo qualcosa RaiPlay, o Sky, ma in genere la sitcom non è la priorità. Come dicevo, anche negli Usa ci sono molti tentativi di fare comedy contemporanee. Tuttavia, la modalità di distribuzione di Netflix, che mette a disposizione dello spettatore, in un solo weekend, l’intera stagione, va a scardinare quel punto di forza della sitcom tradizionale che è la creazione di un appuntamento stabile, agganciandosi alle festività, e poi la durata nel tempo. Si ha così questa contraddizione: da un lato si investe molto per puntare su comedy che funzionano, ma dall’altro su una piattaforma on demand non si può dare loro lo spazio che le fa crescere e diventare dei veri e propri fenomeni.

Questo è ciò che cambia, poi c’è ciò che cambia poco, cioè il fatto che paradossalmente, sempre su queste piattaforme, le sitcom tradizionali, di maggiore successo, anche in replica e anche decine di anni dopo la loro chiusura, continuano a essere viste da tantissime persone. Per questo motivo, per esempio, Netflix ha investito milioni di dollari per avere Friends e, quando lo perderà, lo sostituirà con Seinfeld, e o stesso anno, per prodotti simili, altre piattaforme digitali. Sono tutte sitcom create dai network, quindi dai loro “acerrimi” nemici, ma che in realtà costituiscono un elemento cruciale anche per le TV non lineari. La sitcom infatti, tra i tanti vantaggi, ha la possibilità di essere ripetuta più volte senza invecchiare. A essa non diamo tanta importanza, in quanto è leggera, ma proprio qui sta il suo valore: si tratta di quello che gli americani stanno chiamando comfort television. Anche in queste settimane, tantissime persone hanno scelto, invece di dedicarsi a narrazioni più ansiogene o più impegnative, di rivedere magari per l’ennesima volta alcuni episodi di Friends o di altre sitcom.

MARIA GRAZIA FALÀ

Calabrese e Grignaffini: “Promessi Sposi, dal già detto all’immaginazione”

“Promessi Sposi, dal già detto all’immaginazione”

Per Carocci una miscellanea sui prequel del capolavoro manzoniano interpretati da più media

Giorgio Grignaffini

Un testo che a prima vista può sembrare eterodosso, in quanto contiene una rilettura, attraverso vari media, di un classico della letteratura italiana come i Promessi Sposi. Una ricostruzione che vuole affrontare soprattutto i prequel del romanzo, vedendolo attraverso varie lenti, come quello di una serie televisiva. Ed è proprio sulle serie televisive che si è appuntata questa conversazione con Stefano Calabrese, docente di Comunicazione narrativa all’Università di Modena e Reggio, e Giorgio Grignaffini, direttore editoriale della Taodue Film (Gruppo Mediaset), nonché docente alla Cattolica di Milano. Spunto, La bottega delle narrazioni, un libro curato da loro e uscito recentemente per la Carocci, nonché Che cos’è una serie televisiva, scritto a due mani da Grignaffini e Andrea Bernardelli nel 2017.

Com’è nata l’idea di rivedere un romanzo paradigmatico come I Promessi Sposi alla luce di vari media, e qual è il filo rosso che lega tutti i loro diversi punti di vista al capolavoro di Manzoni? L’idea del libro è quella di fornire al lettore le istruzioni necessarie per organizzare una narrazione nei principali media. SI trattava quindi, attraverso il contributo di affermati professionisti del settore, di spiegare i meccanismi tecnici di costruzione di una storia, prescindendo dall’altro elemento fondamentale che caratterizza l’operato del narratore, cioè la creatività. Per eliminare il fattore necessariamente individuale del trovare l’idea giusta, abbiamo deciso di chiedere a tutti i professionisti che abbiamo contattato, di cimentarsi andando a colmare un “non detto” di uno dei pochi testi che praticamente tutti i lettori italiani conoscono perché parte integrante dei programmi scolastici. Immaginarsi quello che ora chiamiamo il “prequel” dei Promessi Sposi, dava così a tutti i contributori un terreno comune di lavoro, in modo da rendere più evidenti le differenze tecniche relative ai diversi media. Il filo rosso è rintracciabile nel lavoro che tutti gli autori hanno fatto per chiarire uno degli snodi narrativi fondamentali dei Promessi Sposi – il motivo che spinge Don Rodrigo a impedire il matrimonio di Renzo e Lucia – su cui Manzoni non si dilunga troppo e che quindi può lasciare adito a interpretazioni differenti.

Nell’introduzione ai saggi contenuti in La bottega delle narrazioni voi fate una breve disamina narratologica del fenomeno complesso del racconto. Secondo voi, per fare una buona storia contano più l’intreccio o i caratteri, per dirla con termini aristotelici? E quanto conta questa miscela per costruire una buona serie televisiva?

Da un punto di vista teorico i due termini non sono separabili: intreccio e personaggi sono uno conseguenza dell’altro. Dal punto di vista pratico, partendo dalla mia esperienza professionale

Stefano Calabrese

nel settore della serialità televisiva, negli ultimi anni il modo di lavorare degli sceneggiatori sta privilegiando i personaggi, nel senso che il racconto nasce da uno spunto narrativo iniziale in cui è presentato il protagonista e poi il resto della storia tende a esplorare le reazioni di quest’ultimo di fronte ai fatti che sono accaduti. Questo accade soprattutto con le serie che presentano una narrazione unica che prosegue episodio dopo episodio e non ricorrente come invece accadeva di più in passato: in altre parole, nelle serie che prevedono il caso di puntata (pensiamo ad esempio al classico poliziesco come Il commissario Montalbano o Don Matteo) il personaggio, pur fondamentale per caratterizzare la serie non si sviluppa, è funzionale alla risoluzione del caso giallo. Tutto questo non accade invece nelle serie serializzate come ad esempio L’amica geniale dove invece è proprio l’evoluzione del main character ad essere al centro.

Nel suo contributo Luigi Forlai dice che le serie televisive sono un fenomeno complesso, che necessita di personaggi fondamentali (nomade, re, ricercatore, amante, guerriero) che possono ibridarsi, e di linee narrative, semplici o complesse. Quanto c’è di proppiano in tutto quello che afferma? Non si ritorna alla vecchia tipologia di caratteri fissi, come nella fiaba, che possono compiere ventotto funzioni?

La “morfologia della fiaba” di Propp è sicuramente uno dei modelli teorici più rilevanti nel campo della narratologia, così come quella di Campbell riguardante il viaggio dell’eroe nei miti di tutti i popoli: l’idea di fondo è proprio quella di ritrovare delle invarianti alla base di tutti i racconti, che siano le fiabe o i miti. Entrambi questi contributi stanno alla base di tutta la manualistica più recente che ha influenzato e influenza tuttora il modo di lavorare degli sceneggiatori cine-televisivi di tutto il mondo.

Qual è la chimica necessaria per “far funzionare” una fiction? Quanto conta il budget, per esempio, e quanto conterebbe per mettere in forma un romanzo storico come I Promessi Sposi? Ce ne potrebbe parlare, Giorgio, anche alla luce del suo Che cos’è una serie televisiva, scritto da lei insieme ad Andrea Bernardelli?

Una fiction è un prodotto audiovisivo molto costoso e sta diventando ancora più costoso con l’aumentare della concorrenza a livello internazionale. Disporre di un budget elevato è un requisito fondamentale per poter realizzare serie di alta qualità; una serie “period” cioè “in costume”, come i Promessi Sposi, ricca di scene di massa (pensiamo all’assalto ai forni di Milano o alla peste) richiederebbe senza dubbio uno sforzo economico importante che probabilmente in questo periodo storico sarebbe possibile solo con la partecipazione al budget di più soggetti (una rete televisiva nazionale, una piattaforma streaming, una coproduzione internazionale).

MARIA GRAZIA FALÀ