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Giorno: 24 Dicembre 2020

“TV series, tempo lineare e tempo intrecciato”

“TV series, tempo lineare e tempo intrecciato”

Di Angela Maiello un testo sulla lunga serialità nell’epoca postmediale

Angela Maiello

Epoca postmediale in cui si alimentano la serialità televisiva e le nuove forme di comunicazione online. Post-cinema come momento in cui ci si chiede “Cosa resta del cinema oggi?”, e si risponde che vi sono nuove forme audiovisive, online e no, che circolano sui social, sulle piattaforme, ecc., e che vanno oltre la forma “breve” tipica del film (e del romanzo).

Applicazione del concetto bachtiniano di cronotopo alle serie tv, che possono procedere o secondo una temporalità lineare a spazio aperto o, invece, con una intrecciata a spazio chiuso.

Serie tv come un work in progress, continuamente rivisto dallo spettatore in un’interazione continua tra fruizione e rielaborazione.

Infine, audience in quanto pubblico non più diviso secondo le tradizionali variabili socio-demografiche, bensì fortemente frantumato, personalizzato, ma che si ritrova come una collettività sulla rete.

Questi i principali temi affrontati da Angela Maiello, docente di Cinema presso l’Università della Calabria, nel suo Mondi in serie. L’epoca postmediale delle serie tv, edito di recente da Pellegrini Editore.

La tesi del suo libro è che “le serie tv sono una forma di adattamento all’ambiente ibrido in cui viviamo.” Ce la potrebbe spiegare, in sintesi?

L’idea da cui è costruito il libro è appunto quella che c’è nel sottotitolo: viviamo nell’epoca postmediale. In questo termine risuona tutta la teoria della postmedialità, che va da Kraus in poi, ed è presente nell’ambito cinematografico con Casetti e Eugeni. Postmediale innanzitutto significa che non ci sono più gli ambiti specifici di riferimento dei singoli media, e quindi delle singole esperienze mediali, ma che viviamo in un grande ambiente ibrido in cui, senza soluzione di continuità, i media, e le diverse prassi che li abilitano, si incrociano. La caratteristica dell’epoca post-mediale, e che io poi descrivo anche attraverso l’analisi di una sorta di genealogia della narrazione attraverso i social, è la frammentarietà. Noi raccontiamo anche il nostro presente, viviamo le nostre vite attraverso frammenti, che siano foto, immagini, ecc., attraverso i social, come se tutto venisse restituito a partire da una grande frammentarietà del nostro tempo e del nostro vissuto.

Quindi, le serie tv, a fronte di questa frammentarietà, e di moltiplicazione anche dei racconti, costruiscono questi mondi unitari molto forti, riconoscibili, molto iconici anche, e pertanto rispondono a quella che Ricoeur definirebbe una domanda di concordanza che è istintiva nell’essere umano, cioè la necessità di avere un senso compiuto.

Lei parla anche di post-cinema a questo proposito…

Sì, parlo anche di post-cinema, perché la mia idea è quella di non collocare la serialità solo nell’ambito dell’evoluzione del medium televisione.

Il post-cinema è quel concetto utilizzato per rispondere alla domanda “Cosa resta del cinema oggi?”. Oggi, che non si va più in sala, si moltiplicano le piattaforme, ma si moltiplicano anche i prodotti, perché ci sono pure nuovi prodotti audiovisivi sulla rete, ecc., e qui si rientra il concetto di post-cinema.

Secondo me la serialità va collocata in quest’ampia riflessione sull’audiovisivo in generale, non solo televisivo, ma sull’audiovisivo nato dopo il digitale, che si è sviluppato dagli anni 2000. È ovvio che ci sono delle specificità del medium TV, e in proposito penso in Italia ai recenti lavori di Barra, di Scaglioni, che guardano alla serialità a partire dall’evoluzione della TV come medium, studiando questioni legate al palinsesto, alla distribuzione, ecc..

Però la mia ipotesi procede un po’ più alla larga cioè, partendo da una riflessione sulla medialità contemporanea in generale, considera la serialità un momento di questa galassia, come la definisce Arcagni, post-cinema.

In un mio articolo uscito recentemente su Comparatismi io affermo che il paradosso dell’osservatore, che era tanto vivo in linguistica con Labov, nella fanfiction su web è molto sfumato, in quanto esiste una circolarità tra utente, producer e studioso. In pratica è quello che dice lei anche a proposito delle serie tv…

Sì, sicuramente questa è anche la caratteristica delle serie tv che, nel momento in cui si fanno, si espongono anche al mondo. Come dire, nel momento in cui si evolvono, e stanno accadendo, hanno anche quest’esposizione verso l’esterno, verso gli utenti. Alla metà del libro approfondisco pure il tema delle forme di riappropriazione dei racconti da parte degli utenti, perché mi sembra davvero una specificità molto importante.

In questo periodo sto facendo un corso all’Unical, e gli studenti mi hanno raccontato dei momenti riappropriativi delle serie di cui non ero a conoscenza, per esempio su Skam, o su Game of Thrones.

L’idea è che l’utente si possa riappropriare di un racconto, farlo andare avanti, perché la serie esce fuori da sé. Si crea una circolarità tra mondo del racconto e mondo del reale, dovuta al fatto che la serie è strutturata, appunto, con la lunga durata, che ha questi mondi così fortemente riconoscibili, così fortemente connotati, proprio come se lo spettatore potesse abitarli.

Però, allo stesso tempo, la riappropriazione del racconto è dovuta anche a una questione distributiva (v. il binge watching) e produttiva, che va ad incidere fortemente pure su quella creativa e, pertanto, sulle modalità di ricezione della serialità.

Il suo testo si potrebbe quindi articolare in due parti: il prodotto seriale e quello che fa il pubblico con esso…

Sì, la mia idea è che le serie creano mondi, ed è importante sottolineare cosa fa lo spettatore con esse, in un’operazione che non è a posteriori. Cioè, tale operazione di appropriazione da parte dello spettatore è integrata nell’evoluzione del prodotto seriale stesso. Non si tratta di due momenti separati, ma la serie si fa nell’incrocio di queste due operazioni, cioè la sua creazione e la sua appropriazione da parte dell’utente.

Nel suo lavoro, lei insiste molto sull’importanza del cronotopo, termine coniato da Bachtin, che lo ha applicato al romanzo. In che modo tale concetto può attagliarsi alle serie tv?

Perché le serie creano mondi, e allora lo spazio e il tempo diventano le coordinate necessarie per orientarvisi. In Bachtin il cronotopo può avere una funzione di gerarchizzazione, o comunque di sistematizzazione dei generi.

Potrebbe definire il concetto di cronotopo?

Il cronotopo è secondo Bachtin l’incrocio di spazio e tempo, che vengono usati per creare quella che lui definisce l’unità dotata di senso. È come se spazio e tempo creassero l’unità del racconto, ed è nel modo in cui si incrociano spazio e tempo, che questo acquista un senso. Nella serialità io provo a individuare due modalità del criterio spazio e tempo, cioè una temporalità lineare, progressiva, a cui corrisponde un allargamento, una continua esplorazione nello spazio, e una temporalità intrecciata, quando le serie indagano vari piani temporali (questa modalità si sta verificando sempre più spesso nelle serie), e ciò avviene in un luogo chiuso.

Spazio e tempo sono anche le coordinate principali per capire il modo in cui noi fruiamo le serie tv, cioè lo spazio della serialità e della fruizione che è diventato lo spazio dello schermo, che non è più quello del salotto di casa come poteva essere con la TV tradizionale.

C’è una stretta correlazione anche tra la prossimità tra il tempo dello spettatore e quello del racconto, che appunto in questa lunga dilatazione della serialità coincide molto più che in una temporalità finita, come può essere quella di un film, che ha la caratteristica di avere il finale che, direbbe Ricoeur, riconfigura tutta l’esperienza del formato chiuso, come quello di un film o di un libro.

Lei ha parlato, nella sua esposizione, di tempo lineare con spazialità aperta, con cui alcune serie sono strutturate, e di tempo intrecciato con spazialità chiusa, tipico di altre. Ci potrebbe fare qualche esempio?

Un esempio che si potrebbe fare è Mad Men, che è una serie che, come tempo del racconto, copre un arco temporale di una decina d’anni, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, a cui corrisponde una spazialità aperta.

Questo potrebbe sembrare un concetto controintuitivo, poiché uno potrebbe dire che Mad Men è ambientata sempre a New York, a Madison Avenue, negli uffici. Tuttavia, c’è l’idea di un’America che si sviluppa tra Est e Ovest, e sappiamo che nella serie questi viaggi tra Est e Ovest servono a scandire la narrazione.

A una temporalità lineare corrisponde pertanto un’esplorazione dello spazio e, nel caso di Mad Men, è interessante perché insieme ad essa compare anche l’esplorazione del tempo storico. Infatti, le fasi storiche che racconta Mad Men della storia degli Stati Uniti, e in qualche modo della cultura occidentale, costituiscono un vero e proprio rito di passaggio. Si passa, infatti, da una società dei consumi che stava cominciando ad affermarsi, ad una che comincia a mettere in questione quella stessa cultura da cui deriva. E con quel finale che forse è uno dei migliori della lunga serialità, che tra l’altro porta di nuovo la serialità fuori dal racconto narrativo, è interessante vedere questa relazione tra la temporalità lineare e lo spazio.

Per quanto riguarda la serie The Handmaid’s Tale, esempio di temporalità lineare, lei però ha parlato di spazialità chiusa…

The Handmaid’s Tale costituisce un esempio in cui il processo di serialità si inceppa, tant’è vero che nelle ultime stagioni secondo me fatica a mantenere anche la sua promessa, proprio perché, se la protagonista esce da quel mondo chiuso che è lo stato di Gilead, una dittatura, e quindi uno spazio chiuso per eccellenza, la serie fondamentalmente finisce.

The Handmaid’s Tale è un esempio di come una serie, per andare avanti, ha bisogno di questa continua, progressiva esplorazione dello spazio. Nel caso di questa fiction, che è stata tratta da un libro, l’esplorazione di questo mondo avviene tutta nelle prime due stagioni, che sono anche quelle legate al libro. Queste, a differenza della terza, funzionano molto bene, perché noi dobbiamo imparare a conoscere quel mondo. Nel momento in cui c’è la continua attesa o la possibilità di un fuori, che però non si realizza mai, la serie resta impigliata nel suo stesso meccanismo di strutturazione.

È questo il caso in cui una serialità lineare non ha la possibilità di espandersi anche spazialmente, quindi di continuare quel processo di costruzione del mondo che ci si aspetterebbe.

Pertanto, come detto prima, tempo lineare e tempo intrecciato…

Il mio è il tentativo di provare a offrire una panoramica generale per vedere come il tutto funziona, poi si possono trovare mille eccezioni, e quindi non la prenderei come legge scritta, ma come un tentativo di sistematizzazione. Sicuramente, queste sono le due strade principali attraverso cui la serialità si organizza, nel senso che si ha o il tempo lineare o il tempo intrecciato. Questa può sembrare un’ovvietà, però le serie possono giocare proprio su questo, perché la lunga durata permette di creare questo gioco sull’intreccio del tempo in modo molto più ampio, più approfondito, rispetto a quello che può accadere nel formato film.

Inoltre, è come se il tempo intrecciato fosse il luogo in cui la serialità sperimenta di più anche rispetto al proprio formato.

Ci potrebbe fare l’esempio di Lost come tempo intrecciato?

Lost da questo punto di vista è una serie paradigmatica. È una serie della prima fase della grande serialità, che inizia nel 2000, che lavora in maniera spregiudicata sul tempo intrecciato, tanto che Mittell scrive che con Lost è chiaro quel tentativo di comprendere il funzionamento del mondo, e il modo per capire come funziona la temporalità è importante per lo spettatore per comprendere quel mondo stesso.

La fase più significativa di Lost è che lo spettatore non capisce che c’è un prima e un dopo, e che le categorie di prima e dopo non vanno più bene per spiegare come essa funziona. E, se ci pensiamo, per un racconto seriale di lungo tempo sembra quasi un ossimoro, un’assurdità, il fatto che fondamentalmente il prima e il dopo non hanno più quel significato rispetto al valore tradizionale. In Lost questo prima e questo dopo saltano, tant’è vero che la serie ha l’isola come luogo di svolgimento della storia, un luogo chiuso, anche lì, che può essere esplorato, ma dove nuove parti dell’isola vengono continuamente scoperte in diverse temporalità.

La cosa importante di Lost è che, rispetto ad altre serie, è stato un vero blockbuster, quindi ha avuto una grandissima popolarità che è riuscita a mantenere lo spettatore attaccato allo schermo proprio a partire da questo gioco di comprensione di temporalità multiple.

Nel libro dico “Noi non guardiamo le serie per vedere come vanno a finire le storie, ma per capire come funziona quel mondo.” Di ciò sono abbastanza convinta, perché le storie lo sappiamo già come vanno a finire, non è quello il punto, ma è di capire come il mondo funziona e come le cose ritornano in maniera sensata all’interno di esso.

L’audience non è più un qualcosa che si costruisce attraverso variabili socio-demografiche, ma come un elemento che, tramite i Big Data, è sempre più articolato e individualizzato. Ce ne potrebbe parlare?

È una questione su cui bisognerà ragionare molto anche negli anni a venire, perché attualmente è difficile identificare, parlando di audience, di gruppi sociali, demografici, in quanto, con le piattaforme, avviene una forte personalizzazione della fruizione. Da un lato quindi viene meno l’audience come collettività: siamo tutti singoli portatori di dati a dover essere intercettati. Dall’altro, a fronte di questa perdita dell’esperienza collettiva, ed è interessante che durante la pandemia questa cosa si sia molto vista, e che la TV abbia mantenuto questa funzione di rito collettivo, è significativo notare che, a differenza delle fruizioni audiovisive che avvengono principalmente attraverso piattaforma, a fronte di questa personalizzazione estrema dei contenuti, sentiamo l’esigenza di ritornare sulla rete per condividere. È come se questa collettività, frantumata a partire dalle nuove forme di distribuzione, senta comunque l’esigenza di ricomporsi nel fandom, nelle comunità online, nei commenti, nelle pagine Facebook, ecc., proprio per ritrovare la dimensione collettiva persa.

Pertanto, anche dal punto di vista degli studi sull’audience, questo è un grande cambiamento che stravolge anche le categorie a cui eravamo abituati.

MARIA GRAZIA FALÀ