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Giorno: 9 Settembre 2020

Nicola Dusi: “Serie TV, molte parole chiave per analizzare la fiction”

“Serie TV, molte parole chiave per analizzare la fiction”

Ecco, in una lunga intervista, Nicola Dusi che, con Giorgio Grignaffini, ha scritto per questo genere un testo per Carocci

Nicola Dusi

Storyworld, mondo possibile, crossmedialità, transmedialità, intertestualità, intermedialità, recap e teaser sono solo alcune delle parole chiave spiegate, in una lunga chiacchierata, da Nicola Dusi, docente di Linguaggi intermediali e Semiotica del cinema e dei media all’Università di Modena e Reggio Emilia. E lo fa per presentare il suo Capire le serie TV. Generi, stili, pratiche, scritto a due mani per Carocci insieme a Giorgio Grignaffini, direttore editoriale della Taodue Film (Gruppo Mediaset), nonché docente alla Cattolica di Milano e allo IULM.

Il volume si potrebbe incentrare su alcune parole chiave, come per esempio le varianti, termine desunto dalla letteratura e che viene proficuamente utilizzato per le diverse versioni e di sceneggiatura e di prodotto finito di una serie televisiva, come nel caso del recente Made in Italy, andato in onda su Canale 5 e su Amazon Prime Video

Made in Italy è una serie che nello standard delle serie TV italiane è riuscita per la prima volta a vendere prima su una piattaforma come Amazon che ad uscire in chiaro sulla televisione, e quindi è stato un bel successo per i produttori e ne dimostra la qualità della scrittura. Siamo partiti da Made in Italy perché Giorgio Grignaffini è, oltre a coautore di questo volume, direttore editoriale della Taodue Film. Il suo lavoro è di produrre passo passo una serie TV, in questo caso Made in Italy, dal pitch, cioè dall’idea iniziale, alla sceneggiatura, alle varie versioni delle sceneggiature, per arrivare alla scelta del cast, alle riprese, al montaggio e anche a tutti i problemi di postproduzione e di distribuzione. Infatti, essendo la Taodue in relazione con Mediaset, è molto attenta anche al lancio della serie e alla distribuzione, anche sul piano internazionale. Made in Italy era un buon esempio perché era molto fresca, era sottomano, e perché Giorgio Grignaffini la conosceva dalla nascita all’età adulta.

Giorgio Grignaffini

È un po’ questa l’idea del volume che abbiamo pensato insieme, per fare qualcosa che la semiotica testuale, la sociosemiotica o l’analisi televisiva delle serie TV di questi anni hanno un po’ perso di vista. Abbiamo deciso di lavorare nei primi capitoli sulla genetica testuale, sulla genesi della costruzione e della produzione di una serie tv a monte invece che a valle, cioè di lavorare su tutto quel processo di scelta che parte da poche righe di un pitch, che è un brevissimo soggetto, l’idea iniziale di una serie, e che l’accompagna dopo aver venduto l’idea ai produttori lo sviluppo e la sua complessificazione, la stratificazione, verso il prodotto finale.

La semiotica lavora di solito sul testo finito, sul testo realizzato, sull’opera messa a disposizione dei fruitori, dei lettori, o degli spettatori. La nostra idea era invece di tener presente le serie tv non solo per come appaiono agli spettatori, ma anche per come vengono costruite.

Quest’idea è appunto alla base del volume ed è collegata alle parole varianti/invarianti che provengono dalla linguistica, dalla semiotica testuale, ma che hanno a che fare però anche con la variantistica di cui si parla (ad esempio con Contini) in letteratura. Noi abbiamo cercato di spostarle verso un lavoro sulla produzione testuale della serialità televisiva, intendendo con ciò che pensiamo alle serie tv come al prodotto di una serie di step traduttivi.

Alla base della costruzione di un prodotto seriale ci sono elementi sia di interpretazione, sia di traduzione continua, perché già dal momento in cui viene approvato un pitch di una serie TV fino alla sua scrittura c’è un passaggio espansivo, che chiamiamo una “variante espansiva”. Essa si verifica quando si comincia a mettere carne sul fuoco, a costruire ad esempio dei personaggi. Questa variante espansiva ha a che fare con un percorso di costruzione del prodotto seriale, che dal pitch passa al concept, poi al soggetto, alle varie versioni di sceneggiatura fino allo shooting script, cioè a quella sceneggiatura dettagliata, con didascalie e dialoghi (a volte anche con dettagli tecnici come i movimenti di macchina) che arriva al regista e alla produzione per definire le fasi di lavoro e delle riprese della serie.

La cosa che ci interessa è mettere a confronto queste varianti espansive, dette così nel senso che sono una trasformazione dal nucleo iniziale di poche righe in una sceneggiatura fatta e finita, che porta al prodotto che viene filmato, con le varianti che chiamiamo “paradigmatiche”. Il termine paradigmatico viene dalla linguistica: si parte cioè dall’idea che il linguaggio sia una catena sintagmatica di segni, di espressioni, dall’altra una catena di segni intesi come possibilità. Come diceva Roland Barthes, il menù del ristorante con tutte le sue possibilità è il paradigmatico, e invece il sintagmatico è la successione del primo, il secondo e il caffè, che costituisce la catena sintagmatica del mio pranzo.

Il nostro assunto è che ci sia anche un mondo paradigmatico dietro alla serialità che vediamo come spettatori, e qui si nota l’importanza di avere tra le mani un prodotto fresco di edizione come Made in Italy. L’abbiamo riaperto a partire dalle varianti di sceneggiatura che Grignaffini aveva ancora sulla scrivania, e abbiamo lavorato anche sulle varianti di montaggio, che sono molto difficili da trovare, soprattutto in una serie TV. Infatti, le varianti di montaggio sono quel tipo di trasformazione testuale che si perdono per strada e che di solito spariscono. Se si tratta di un film d’autore spesso magari rimangono in qualche cassetto (o meglio database), in modo da poter poi fare i contenuti speciali del DVD, ma in una serie TV è difficile che rimangano a disposizione.

Invece, in questo caso, siamo riusciti anche a lavorare su queste varianti paradigmatiche, cioè sui ripensamenti e sulle scelte di seconda o di terza istanza una volta che il prodotto era stato filmato e montato, in un primo momento, seguendo la sceneggiatura.

A questo punto è entrata in gioco una pluralità di soggetti (registi, produttori e sceneggiatori) che ha rilavorato sul materiale girato: questo perché esiste un’autorialità diffusa nelle serie TV.

Si tratta di un insieme di professionisti, di persone che lavorano su questi prodotti che fa dire ormai che non c’è un solo autore, ma un’autorialità più ampia. Si parla adesso molto di showrunner come di colui che, soprattutto nelle serie americane, tiene insieme le fila di tutto questo lavoro: in Italia questa figura non esiste allo stesso modo, ma esiste comunque un gruppo di lavoro costituito da chi ha seguito il progetto fin dall’inizio che svolge una funzione di garante della coerenza complessiva del prodotto.

Poi all’interno di questo gruppo, il ruolo del produttore è senza dubbio centrale in quanto permette alla produzione di avere anche un interlocutore definito per la promozione del lavoro di fronte al pubblico e ai giornalisti, ma in effetti anche per tutto il reparto produzione che si rifà a un’unica figura.

Siamo quindi partiti da un’idea di traduzione, che abbiamo ripreso dalle proposte di Paolo Fabbri quando, fin dalla fine degli anni Duemila, si ragionava con lui sulla traduzione intersemiotica, cioè sul problema di tradurre tra linguaggi differenti. Infatti, quando passo da una scrittura di poche righe a una sceneggiatura sono ancora dentro al linguaggio della scrittura, ma nel momento in cui lo metto in scena e quindi scelgo di filmarlo, di avere una location, e poi lavoro sul montaggio di ciò che ho filmato e infine sulla postproduzione, sono dentro un linguaggio audiovisivo totalmente diverso dalla scrittura.

Quando abbiamo un passaggio tra linguaggi con materie dell’espressione differenti, direbbe la semiotica, abbiamo una traduzione intersemiotica. Quest’idea ci ha guidato perché il concetto delle varianti e delle invarianti è un’idea forte nel processo traduttivo. In esso si conserva quello che è invariante e si trasforma quello che è variante. Quindi l’idea di trasformazione, di variazione, è quella importante. L’abbiamo ripresa chiaramente anche da Lotman, che ha sempre proposto una semiotica della cultura con una forte base traduttiva. Da semiologi, quando parliamo di passare da un linguaggio all’altro, verso forme di traduzione che possono diventare molto espanse come nel caso delle serie TV e che diventano non solo prodotti televisivi, ma vivono anche nel web per diventare galassie di prodotti ancillari, come quelli promozionali, quelli di lancio, i promo, i trailer, oppure anche prodotti come i recap o i teaser. Sul web le serie TV vengono oltretutto spesso riprese, manipolate, riaggiustate, con moltissimi remix da parte dei fan e degli utenti più attivi.

Per noi tutto questo percorso è sempre osservabile con uno sguardo semiotico, che nella prospettiva di Lotman è una traduzione e reinterpretazione continua che diventa la base di ogni cultura, nel senso che interpreto e traduco perché fa parte della semiotica di fondo di ogni processo culturale e di ogni modo di produrre senso. Pertanto non diciamo nulla di nuovo, solo che, applicandolo alle serie TV, troviamo ad esempio le sceneggiature che sono da una parte dei contenuti da tradurre, dall’altra delle istruzioni per poterlo fare, perché dicono come fare, ad esempio dove posizionare la macchina da presa, ecc.

Usando questa idea di traduzione abbiamo cominciato a ragionare in termini sociosemiotici fin dalla prima parte del volume, usando una proposta di Landowski (un allievo di Greimas, come Paolo Fabbri), che appartiene alla semiotica francese di taglio generativo e strutturale.

Landowski propone di pensare alle pratiche della costruzione di senso con quattro grandi polarità, che dispone su una sorta di quadrato semiotico, organizzandole per contrarietà, per complementarietà e per contraddizione, e rendendole molto dinamiche tra loro.

Per lui c’è un momento forte di “programmazione”, e una pratica collegata e complementare alla programmazione che chiama “manipolazione”. Il primo è quello che la semiotica conosce meglio, perché vuol dire la costruzione di un testo, la programmazione per quello che può fare un autore o meglio una strategia autoriale rispetto alle competenze che serviranno per leggere o per interpretare quel testo, quindi ad esempio quando si fa una serie tv pensare a quali spettatori, quale tipo di target si privilegerà nella fruizione di quel prodotto, e anche questo vuol dire pensare al tipo di complessità narrativa, ad esempio il tipo di linguaggio che useranno i personaggi, le ambientazione, il ritmo narrativo, ecc.

La programmazione come dicevo è quella che la semiotica testuale ha considerato di più negli anni Settanta, ma negli anni Ottanta diventa subito anche “semiotica delle passioni” e manipolazione, come dice Landowski. È questo un momento in cui qualcuno fa fare a un altro qualcosa, quindi lo manipola, nel senso che lo seduce, lo porta verso i suoi valori, lo porta a vedere con i suoi occhi. In quest’ottica troviamo per esempio tutte le strategie di enunciazione, il fatto che io, cambiando il punto di vista in un racconto, cambio anche i modi di informare lo spettatore: sono tutte forme di manipolazione testuale.

Ma ciò che ci interessa è che non c’è solo il binomio programmazione/manipolazione nella proposta di Landowski, ci sono anche due voci che i sociologi conoscono fin dagli anni Settanta, quando si parlava di caos versus ordine, o di aggiustamento relazionale nelle conversazioni. Ecco, Landowski propone di parlare proprio di questo, di “aggiustamento” e di “alea”.

L’alea è il momento dell’incidente, del caos, della cosa imprevista, che può accadere sempre, anche nella produzione di una serie TV, per esempio quando si ammala o muore l’attore che interpreta il personaggio principale, oppure quando la produzione chiude i finanziamenti e quindi bisogna trovare una soluzione di finale decente, oppure lasciare proprio cadere la stagione successiva. Si tratta di incidenti di percorso a cui si deve rispondere, e questo ci interessa molto, come pratica di aggiustamento.

Le modalità dell’aggiustamento per Landowski sono per noi la chiave, perché sono forme di trasformazione, di adattamento, di continuo confronto creativo tra i soggetti, per cui la realizzazione di un prodotto ha a che fare coi suoi vincoli, con i limiti che vengono dati dagli apparati tecnici, perfino dagli imprevisti durante la lavorazione.

Il momento dell’aggiustamento è ciò che rende lo showrunner o il gruppo produttivo-autoriale necessario, nel senso che c’è bisogno di qualcuno che continui a tirare le fila e a riorganizzare il tutto. Questo, applicato alle serie TV, vuol dire che i momenti di scrittura e di organizzazione della produzione, della messa in scena, ecc., sono momenti tra la programmazione e la manipolazione. Tuttavia, quando il prodotto comincia via via a prendere forma, c’è un continuo aggiustamento.

Le varianti appartengono all’area dell’aggiustamento, sono il momento in cui penso: “Potrei dirlo in questo modo oppure in un altro: quale dei due è più efficace?” e faccio una scelta. Allora, in qualche modo, aggiusto continuamente le possibilità rispetto ai contesti, alle situazioni e alle prospettive comunicative che ho di fronte.

Su un prodotto molto fresco come Made in Italy, allora, ci abbiamo ragionato ed abbiamo provato a scrivere in particolare rispetto ai cambiamenti del personaggio principale (la giornalista in erba, la giovane Irene), che nella serie cresce gradualmente, da studentessa di arte che poi lascia l’università a neofita del mondo della moda che diventa lentamente sempre più professionale, fino addirittura alla fine della prima stagione a diventare la direttrice del giornale.

All’inizio questo personaggio era stato pensato dagli sceneggiatori in un modo molto diverso, e c’è stato un aggiustamento progressivo, mano a mano che veniva costruito. Ad esempio, all’inizio della scrittura era una protagonista che veniva dall’alta borghesia milanese, poi è diventata la figlia di un operaio.

Io comunque l’avrei lasciata con quel background, perché ritrarla come Cenerentola mi sembrava un po’ scontato…

La Cenerentola è un po’ scontata, però funziona, perché è un archetipo narrativo: soprattutto funziona per creare conflitto e desiderio di rivalsa rispetto al mondo di partenza e a quello di arrivo, quello del lusso, della moda che comincia a nascere nella Milano degli anni ’70. Infatti, l’idea di fondo è stata questa, cioè di costruire un racconto sull’inizio della moda a Milano negli anni Settanta seguendo un po’la falsariga della biografia di Franca Sozzani, la direttrice di Vogue Italia. Di Franca Sozzani è stata letta la sua biografia, raccontando alcune delle persone che aveva intervistato, cioè i vari stilisti, che poi sarebbero diventati famosi come Giorgio Armani, Trussardi, e altri. Nella serie tv essi, ovviamente, sono stati reinterpretati da attori, però con un’attenzione alla realtà storica. Pertanto, fin dalla scrittura, c’è stata un’attenzione a mescolare la fiction con delle vere interviste. Per esempio ci sono le parole autentiche da Giorgio Armani, interpretato nella finzione da Raoul Bova, legate alla sua dimensione professionale e alle interviste trovate sui giornali di quegli anni.

Ecco, l’idea era che, mano a mano che cresce la competenza di questa giornalista neofita, aumenta anche quella del pubblico, perché all’inizio viene presentato Giorgio Armani come un sarto di alta moda che ha appena cominciato ad essere conosciuto come disegnatore e stilista, e poi dietro le presentazioni dei vestiti si coglie lo sguardo della giornalista che ne scrive, cioè si riassume anche la competenza critica rispetto all’innovazione portata da uno stilista come Armani. Quindi si fa anche crescere lo spettatore rispetto a questa competenza. Per tornare alle varianti, la prima stesura di sceneggiatura era più fedele alla realtà sociale dell’alta borghesia che si apriva al mondo della moda, con una giornalista che proveniva da un ambiente che in qualche modo conosceva e apprezzava questo mondo. Nella seconda versione, invece, si ha la trasformazione di Irene in una figlia di operai, che si sono sacrificati per farla studiare, e che lascia l’università per dedicarsi a questo mondo.

Si tratta di una Cenerentola, ma anche dell’idea di costruire un conflitto valoriale nel personaggio che lo rende molto più interessante, molto più appetibile rispetto alla prima versione.

Altre varianti di montaggio che abbiamo trovato sono ad esempio quando la giornalista in erba viene mandata per la prima volta all’estero, in Marocco, per fare un servizio. Qui ha a che fare con un fotografo di moda già molto famoso, i due hanno un problema con la modella che era stata mandata dalla redazione, e quindi Irene si inventa un escamotage. Come modella fa lavorare la cameriera marocchina, una ragazza bellissima: lo shooting funziona molto bene, ma la giornalista non sa ancora che poi il servizio sarà cassato completamente, perché in quegli anni una modella nera non si era ancora mai vista nelle riviste di moda. Poi va a cena con il fotografo e inizia una scena di seduzione. In quel momento, durante il montaggio, ci si è accorti che si poteva rimontare prima la scena del cibo (il cous cous) mangiato assieme e poi quella dei provini fotografici guardati dai due, rispetto alla prima scrittura, e quella è rimasta la versione definitiva. In questo modo il tutto è diventato più efficace in termini di trasformazione passionale del personaggio di Irene, ed ecco dove la semiotica può aiutare in una costruzione graduale del senso di un racconto.

Su questo siamo riusciti a ragionare comparando le varianti: è un terreno molto fertile di ricerca, perché ad esempio è ciò che fa Netflix oggi, che prende spesso delle serie andate in onda magari in modo sfortunato su dei canali TV nazionali, le compra, le rimonta e le rilancia in modo globale facendole diventare delle serie di successo. Penso a La Casa di carta, che nella prima stagione, nella versione spagnola, non ha funzionato. Netflix l’ha comprata, l’ha rimontata, ha fatto del color correction e ha lavorato sui chiaroscuri, ha cambiato la musica, adattandola a ogni personaggio, ha serrato un po’ il montaggio, insomma, ha preso un prodotto già finito e l’ha rielaborato. Questo per la prima stagione, poi le altre sono di casa Netflix.

Allora, la versione televisiva precedente cos’è? Diventa una variante. Netflix la riscrive con mille accortezze stilistiche, facendola diventare un prodotto di successo.

Lei si sofferma poi su paratesti come i recap, per lo più, diremo, “compilativi”, che servono a fidelizzare il pubblico su una serie, e che possono essere tra l’altro “a riassunto” o modulari. Ce ne potrebbe fare qualche esempio?

I recap, come dice la parola, sono delle recapitulations, dei riassunti che tutti gli spettatori conoscono perché non li ha inventati la TV contemporanea, sono i previously on, sono quei frammenti iniziali di un episodio, di una puntata, di un telefilm, per esempio degli anni Settanta – Novanta, quando si diceva “nelle puntate precedenti”. I previously on sono riassunti di quello che è appena successo che permettono allo spettatore che non ha visto la puntata precedente, o invece l’ha messa in memoria e quindi la può riattivare, di partire con il piede giusto nel nuovo episodio.

I recap sono diventati ormai sempre più interessanti da studiare, perché si possono pensare come degli entry point, cioè come dei punti d’ingresso della grande architettura dell’informazione seriale che apre un “ecosistema”, come dicono alcuni studiosi di Bologna (Pescatore e Innocenti), un ecosistema seriale dentro cui si entra da vari varchi.

Uno degli ingressi possibile è il recap: io vedo il riassunto delle puntate precedenti, ho perso degli episodi, so che posso andare a ripescarli, eppure posso entrare anche a stagione iniziata e godere dell’episodio corrente. Studiando i recap di Lost o di Breaking Bad nel libro, anche sulla scorta di autori che ci hanno molto scritto e ragionato, parliamo ad esempio di recap “a riassunto” o recap “modulari”.

Quelli “a riassunto” sarebbero i più semplici, i più tradizionali, quando una voice over informa di ciò che è successo nelle puntate precedenti, quelli “modulari” sono invece più legati al mondo digitale, cioè sono frammenti selezionati e rimontati senza voice over, in modo molto rapido, per dare visivamente una ‘rinfrescata’ a ciò che è accaduto, cioè una maniera per poter rimettere in pista il racconto. Ecco, a seconda di come metto in prospettiva questa rinfrescata, questi frammenti, posso costruire il racconto precedente di un personaggio specifico oppure di personaggi che sono stati perduti o intravisti solo in alcuni episodi molto lontani o, addirittura, andare a pescare nella stagione precedente, oppure posso far tornare attraverso un recap episodi di stagioni precedenti.

Il recap, pertanto, pesca anche in modo inter-stagionale, non solo inter-episodico, e fa qualcosa che non è solamente un riassunto, ma piuttosto un riattualizzare dando delle nuove pertinenze, cioè riorientando, tematizzando nuovamente il racconto. C’è anche poi il fatto di fornire delle chiavi di accesso, e con un passo indietro rispetto ai varchi di entrata potremmo anche dire che il recap è una mappatura rispetto al mondo narrativo. Quando faccio un recap sto anche rimettendo in gioco, per lo spettatore, delle “mappe cognitive”, delle mappe narrative, delle “situazioni quadro”, come le definirebbe Ruggero Eugeni, cioè delle mappe di sintesi della situazione narrativa, in cui lo spettatore si riambienta, si riorganizza.

In Breaking Bad, ad esempio, verso la fine della quinta stagione troviamo il sodale del protagonista, Jesse Pinkman, che attraverso le stagioni ha uno sviluppo, un suo percorso trasformativo, molto forte, pari a quello del personaggio principale, Walter White, che diventa sempre più cinico e drug lord rispetto all’iniziale professore di chimica che si dava quasi per disperazione alla produzione di metanfetamine per far un po’ di soldi rapidamente. White sconfitto il tumore diventa sempre più cinico e manipolatore, mentre Jesse, che all’inizio della serie è un balordo che però impara a cucinare metanfetamine, un aiutante di White, piano piano nelle varie stagioni diventa una figura etica, che fa da contraltare rispetto al cinismo di White.

Nell’ultima stagione (la quinta), Jesse recupera la memoria della sua fidanzata di qualche stagione precedente, e questa memoria interstagionale viene ricordata a partire dal recap, che va a recuperare dei frammenti della storia d’amore con lei, che poi era morta per overdose di fronte a un Walter White che era entrato in casa di notte, li aveva visti entrambi svenuti, e aveva assistito alla morte di lei senza fare niente, pur di poter continuare a manipolare il suo aiutante.

La ragazza morta quindi torna nei ricordi fin dal recap, e questi danno allo spettatore anche l’idea della sofferenza, della trasformazione del personaggio di Jesse. Il recap si mette al servizio dello spettatore e ricorda appunto, riprende delle scene delle stagioni precedenti, e in tal modo apre al teaser, al primo segmento narrativo vero e proprio dell’episodio in cui si recupera con un flashback una gita fatta dai due fidanzati qualche anno prima. Il teaser allora si mette in relazione con il recap, e mi interessava molto lavorare su questo passaggio, da una parte vedere i teaser e dall’altra i microtesti come i recap, questi “nanotesti” (definiti così da Scolari), che sono invece oggetti prodotti, dati dalla rete e dalla produzione.

Un altro paratesto, più evocativo e originale, quasi sempre frutto autoriale, è per l’appunto il teaser…

Dal punto di vista testuale e produttivo, lavorare sui recap, sul confronto con un altro microtesto o nanotesto come il teaser, ci permette di capire un aspetto legato a due parole chiave del nostro libro, che sono “espansione” e “condensazione”. Prima parlavamo di “varianti e invarianti”, e abbiamo già accennato alle varianti espansive. Ecco, espansione e condensazione sono due parole chiave dei problemi traduttivi: posso espandere e costruire a cerchi concentrici un racconto oppure farlo per stratificazioni successive, oppure posso invece condensare, ridurlo in poche frasi, ed è questo che fa il recap, condensa e riduce.

Il teaser invece, che si pone all’inizio degli episodi, in apertura, è quel momento chiamato anche cold open, di ingresso in un nuovo episodio, che è diventato molto importante in alcune serie TV contemporanee. In Breaking Bad è molto famoso l’innovativo utilizzo dei teaser, cioè delle prime sequenze del nuovo episodio, che spesso sono totalmente slegate in apparenza al racconto che si sta portando avanti, infatti sono dei flashforward o dei flashback o delle riprese in macro con punti di vista molto ravvicinati su animali (come uno scarafaggio), o su oggetti in situazioni insolite…

Insomma, spesso i teaser di Breaking Bad sono momenti un po’ perturbanti per lo spettatore, e questo ci fa dire che essi sono, a loro modo, una forma breve, che introduce un episodio, ideata dai creatori della serie, girata ad hoc con una funzione testuale molto specifica, perché orienta anche il senso dell’episodio. Il recap, invece è qualcosa di applicato successivamente dalla produzione (e si tratta quindi di oggetti molto diversi).

Il recap è una condensazione, il teaser è una dilatazione, un’apertura, perché permette di aprire a nuove prospettive narrative, di dare un anticipo su qualcosa che vedremo alla fine dell’episodio o addirittura alla fine della stagione, come accade nei teaser della seconda stagione di Breaking Bad, che sono casi molto studiati.

Ci sono infatti in questo caso dei teaser, che “anticipano” un incidente aereo nel cielo di Albuquerque con dei frammenti che cadono sulla città tra cui un orsetto fucsia di peluche che arriva nella piscina di White. Questo sarebbe solo il racconto di un incidente, ma viene così frammentato nei vari inizi degli episodi della seconda stagione, anche giocando non a metterli in successione, giocando a dislocarli. Lo spettatore è incuriosito, frastornato, non sa di cosa si tratta e viene premiato solo se arriva alla fine della stagione a recuperare l’intero di questo microracconto, che ha a che fare in effetti con il personaggio principale e con la fidanzata di Jesse. La ragazza era figlia di uno dei controllori di volo, e il fatto che Walter White abbia assistito alla sua morte senza fare nulla per aiutarla lo coinvolge indirettamente nell’incidente aereo. Il controllore di volo è infatti il padre della ragazza, dopo la sua morte cade in depressione, e contribuisce all’incidente aereo con la sua distrazione.

Quello che ci permettono di dire questi teaser è che non esistono solo forme di condensazione, ma ci sono anche forme autoriali di espansione e di gioco con lo spettatore.

Riallacciandomi proprio ai recap e ai teaser, nel libro cerchiamo anche di inseguirli attraverso le loro trasformazioni “transmediali”, cioè di andare verso quel mondo del web in cui i fruitori e gli spettatori prendono pezzi della serie e li trasformano. Di solito prendono più facilmente formati brevi come i recap, oppure nel caso di Breaking Bad tutti i teaser della seconda stagione vengono da remixer del web rimontati l’uno di seguito all’altro. Pertanto si prendono solo quei frammenti di qualche minuto di ogni episodio, li si monta l’uno di seguito all’altro, e si riesce così a ricostruire quel racconto che era stato segmentato nel corso della stagione. Questa è una sorta di collection che fanno i remixer del web, fan della serie che riorganizzano il senso di una cosa appena vista e la portano verso nuove direzioni.

Questa per noi è la ricchezza del mondo transmediale. Le serie TV non sono solo dei prodotti seriali con un episodio dopo l’altro come eravamo abituati, ma sono anche dei prodotti che vivono di rielaborazioni, di remix, di rilanci da parte dei fan e degli utenti del web.

A questo punto emerge la contrapposizione tra “crossmediale” e “transmediale”?

In Italia si fa molta confusione tra questi due termini. Seguendo Davidson e altri autori americani la “crossmedialità” viene definita come qualcosa molto più legata agli utenti attivi, ai prosumer del al web, ad esempio alle parodie legate alle webseries fatte dai The Jackal: Gli effetti di Gomorra la serie sulla gente.

Il mondo crossmediale è quindi molto più discontinuo rispetto alle serie perché reinterpreta, manipola, come fanno i bricoleur, o meglio come fanno i remixer, mentre la “transmedialità” appare più legata al mondo testuale della serie, a quello che chiamiamo storyworld. Invece la crossmedialità lo riapre e lo trasforma. Nella transmedialità metterei anche tutte quelle forme che Jenkins chiama transmedia storytelling, cioè il racconto su diverse piattaforme mediali di una storia con una matrice comune.

Quindi il transmedia storytelling, appunto il transmediale, è legato a una storia che si dissemina su diverse piattaforme, mentre il crossmediale, almeno per come lo interpretiamo nel nostro volume (o anche nel mio libro Contromisure), è più aperto, è più ludico, più slegato da un canone e da una catena di coerenze. Con la crossmedialità si rompono le catene e si lavora in modo più creativo. Ad esempio negli ambienti videoludici i giocatori di videogame spesso hanno a che fare con frammenti e rielaborazioni di film, e questo è un momento che viene spesso filmato e messo a disposizione di altri utenti nel web (questo è un modo crossmediale). Invece il transmediale ha a che fare con una produzione più coerente, in qualche modo in continuità con il prodotto e il mondo di partenza.

Breaking Bad, ma anche Lost, propongono ad esempio dei webisodes, cioè dei mini-episodi per il web che fanno da traino tra una stagione e l’altra per lo spettatore. Per non perdere pubblico tra una stagione che chiude e la stagione successiva che riapre dopo l’estate vengono prodotti i webisodes, cioè microracconti che vanno visti nel web o sullo smartphone e che permettono ai produttori di tenere fidelizzati gli spettatori.

Ne parliamo nel libro per Lost e per Breaking Bad, ma ormai siamo arrivati a un tipo di consumo che permette di vedere tutto e subito, con Netflix e altre piattaforme OTT (“Over-the-Top”) di streaming video come Amazon Prime Video. Ciò sta trasformando il consumo e anche questi oggetti prodotti per fare da traino tra le stagioni oggi non hanno più molto senso se posso fare binge watching, cioè posso vedere una stagione dopo l’altra senza più avere il tempo di attesa che caratterizzava la serialità TV fino a ieri (un modo che comunque continua ad esistere nelle reti televisive tradizionali).

Tornando a La Casa di Carta, però, anche in questo caso una volta che ho consumato come spettatore Netflix tutte le stagioni disponibili, poi devo aspettare che venga prodotta quella successiva, e anche qui, quindi, si creano nuovi buchi temporali da riempiere.

Ecco, in tutto questo spazio di attesa si inseriscono le proliferazioni che chiamiamo transmediali e crossmediali. Da una parte possono essere dei webisodes prodotti dalla produzione (transmedialità), dall’altra sono invece rilanci, remix, rimontaggi fatti dagli utenti che cercano di mantenere vivo quel mondo a cui si sono affezionati. Ciò avviene chiaramente non solo nei passaggi fra le stagioni, ma anche durante la messa in onda della serie e anche successivamente alla sua ultima stagione, perché ad esempio, sempre per quanto riguarda Breaking Bad, la sua produzione testuale si continua a rimanipolare nel web anche se ormai la quinta stagione è finita da un pezzo.

Tornando a questa serie TV, ne possiamo parlare ormai come di un ecosistema. Questo universo complesso che chiamiamo ecosistema – Lotman lo chiamerebbe come una forma di “semiosfera”, cioè un insieme di racconti che si traducono tra loro, di testi in relazione di interpretazione/traduzione – è un universo complesso in evoluzione. Da una parte ha le sue cinque stagioni con i webisodes prodotti dall’alto, dalla produzione. Su Netflix inoltre si trova adesso una molto fortunata serie TV che è stata prodotta come spin off di Breaking Bad: Better Call Saul, che ha ripreso l’avvocato di Walter White, il simpatico Saul Goodman, ed è andata a ritroso da quando era piccolo e faceva i trucchetti e lo chiamavano “Jimmy Scivolone”, cioè quello che, scivolando faceva finta di farsi male per farsi pagare dai vari clienti sfortunati che venivano raggirati, fino ad arrivare alla costruzione del personaggio di Saul Goodman.

Goodman è interessante perché è un antieroe, sempre molto frustrato, molto alle prese con il mondo che non riesce a dominare, con un fratello che nelle prime stagioni è un avvocato di successo che lo tiene sotto il proprio tallone. Saul farà la scelta, piano piano, di diventare sempre più un avvocato che lavora ai margini della legalità e anzi spesso nell’illegalità, diventando appunto Saul Goodman (e non più Jimmy McGill, che è il suo vero nome). Insomma, questo personaggio viene costruito, riaperto completamente, dopo ben cinque stagioni di Breaking Bad, e diventa in altrettante stagioni una figura a tutto tondo, quasi alla pari di Walter White.

Questi però sono tutti racconti fatti dall’alto, top down, legati alle case di produzione, e siamo quindi nel campo della transmedialità.

C’è poi un sequel cinematografico…

Sì. Vincent Gilligan, lo showrunner di Breaking Bad, ha ben pensato di fare nel 2019 un sequel che si chiama Il Cammino. È la storia di Jesse Pinkman, che avevamo lasciato alla fine della quinta stagione appena liberato da una prigionia dall’ultimo sacrificio di Walter White. Nel film trova la sua strada, la possibilità di darsi una nuova identità, di crearsi una nuova vita. Ribadisco che questi sono tutti prodotti top down, quando invece parliamo di crossmedialità siamo sulle produzioni grassroots, cioè dal basso.

Parlando di Complex TV, termine che sembra andare al di là delle semplici categorie di brutto/bello, emergono tre concetti fondamentali, quello di intertestualità, intermedialità, transmedialità (di qust’ultimo abbiamo già parlato)…

Se pensiamo alla relazione tra transmediale e crossmediale, possiamo anche tornare a quelle di cui si è sempre occupata la semiotica, cioè a intertestualità e intermedialità. Sono le cose di cui ci occupiamo di più nella seconda parte del volume a partire proprio da Breaking Bad, ma anche da serie come Gomorra, oppure Il nome della rosa. Sono dei testi che trasmigrano a partire da romanzi, nel caso di Gomorra e de Il nome della rosa, quindi passano dalla letteratura al film e poi a serie televisive. Oppure, nel caso di Breaking Bad, troviamo invece giochi intermediali in cui la serie si mette in dialogo con tutto quello che c’era nella cultura cinematografica e audiovisiva precedente. In questo caso si è molto parlato di “western postmoderno”. Vince Gilligan, lo showrunner, ha espressamente ammesso di prendere spunto dai film di Sergio Leone.

Questa è intertestualità…

Sì, la si ha quando riesco a leggere dentro una serie altri testi, come appunti i film di Sergio Leone, oppure ritrovo Il braccio violento della legge di Friedkin, o accenni ai film di Tarantino, di Coppola, dei fratelli Coen, ecc.

Si ha invece “intermedialità” quando c’è il richiamo a più media. I teaser di alcuni episodi di Breaking Bad come quello con i mariachi, sembrano un videoclip, altri sono in stile spot, altri usano la forma del videogioco, insomma la serie si ibrida con altri media.

Spesso però c’è un problema di “cinematograficità” di queste nuove serie TV che abbiamo indicato parlando di serie cinematic. Per dire che sono serie di una qualità tale nel racconto, che molti ammettono che “ormai sono alla pari dei film, sono fatte meglio dei film”. Tuttavia, non è solo questo, è piuttosto che queste nuove serie TV usano l’universo cinematografico come un universo di riferimento costante (assieme certo a quello dei fumetti, a quello musicale, ecc.). Quindi l’intertestualità si complica nell’intermedialità: lo chiameremo con Manovich un “assemblaggio profondo”, cioè un modo di remixare e riprendere da varie fonti, ma anche però di lavorare usando al meglio le nuove tecnologie digitali e i nuovi software di produzione.

Qui siamo nell’ambito dell’intermedialità…

“Intertestuale” sarebbe una relazione tra testi, come quando trovo, in una serie TV, un ammiccamento, una parodia, un accenno a un film, ad esempio quando Breaking Bad in un episodio, riprende Il padrino di Coppola. “Intermediale” diventa invece quando un altro medium viene portato dentro (vedi il caso del videoclip, degli spot). Il modo del remix, anzi della “deep remixability” di Manovich (l’assemblaggio profondo di cui parlavamo) mischia tutto questo anche grazie alle nuove tecnologie digitali.

Nel nostro volume quindi abbiamo cercato di analizzare, non solo in Breaking Bad, ma anche in Gomorra e altre serie, quello che diventa intersemiotico e intermediale. Ad esempio quando il romanzo di Saviano diventa film e poi, dalla prima stagione di Gomorra La serie, diventa un mondo che viene espanso anche nel web con le parodie, con i recap, con i remix, ecc. Quello che ci interessa è che tutto questo non ha più a che fare solo con quello che tradizionalmente chiamavamo “mondo possibile finzionale”, seguendo la semiotica testuale di Umberto Eco in Lector in fabula, ma ha invece a che fare con uno storyworld, con questa parola inglese che vuol dire ancora mondo del racconto, ma va intesa in modo dinamico.

Storyworld e mondi possibili, concetto più dinamico il primo, più stabile invece il secondo…

Esatto. Il termine è usato proprio per uscire dall’idea di mondo possibile narrativo e aprirlo a queste espansioni ad opera di tutti gli altri soggetti, che non sono più solo gli autori, i produttori, i distributori, ma sono anche le audience, i fan. Nello storyworld teniamo insieme, come per gli ecosistemi, sia le produzioni dall’alto che quelle dal basso.

Invece il mondo possibile è qualcosa di più top down

Sì, potremmo dire che è una costruzione di programmazione autoriale, mentre gli storyworld sono mondi possibili che vengono realizzati ed espansi, come una fisarmonica o un bandoneon argentino. Negli storyworld si può anche decidere di uscire dal canone e passare a una seconda logica, che è quella del What if, cioè una logica del “Come se”, e questo ci ha permesso di capire meglio cosa è stato fatto per la serie tv Il nome della rosa, perché in questo caso molti spettatori che conoscevano il film sono rimasti delusi dalla proposta della RAI. Invece, ragionandoci in termini di storyworld, si capisce meglio l’operazione proposta da Giacomo Battiato, che è il regista ma anche il responsabile principale della sceneggiatura definitiva. Battiato ha garantito una coerenza autoriale al progetto, fino da quando gli è stato messo in mano come prima sceneggiatura dalla Rai, riscrivendolo, passando a dirigere le riprese, poi seguendo il montaggio e la postproduzione, quindi possiamo parlare di lui come un autore, non solo di uno showrunner.

La serie tv quindi, non solo ha ripreso la narrazione de Il nome della rosa romanzo e de Il nome della rosa film, esplorando meglio il mondo possibile del romanzo, ma è andato anche a chiedersi appunto “What if?”, ed ha così aperto una narrazione diversa, non più legata in modo “centripeto” allo storyworld, o al mondo possibile iniziale. Nei termini di Mittell e del suo Complex Tv, l’abbiamo chiamata uno storyworld centrifugo. Il racconto “centripeto” continua ad approfondire dentro un canone stabilito i personaggi, come fanno ad esempio quei webisode di Breaking Bad di cui parlavamo prima, quando vanno al fondo nelle storie dei personaggi dando loro delle backstories. Il racconto “centrifugo” apre alle nuove logiche dei fan, quelle del What if.

La serie Il nome della rosa ci permette così di ragionare sulla costruzione degli storyworld, cioè quei mondi possibili dinamici che possono restare nel canone dettato (in questo caso) dal romanzo e poi dal film, oppure possono uscire dal canone e sono allora costruiti da storytelling centrifughi, che usano una logica del What if, del “Come se”. E nel “Come se” la scrittura di Battiato (insieme agli altri sceneggiatori) propone nella serie Il Nome della rosa un nuovo personaggio, quello di Anna la figlia di Dolcino, cioè quell’eretico che nel romanzo di Eco veniva solo accennato (e di cui si sa solo che è finito sul rogo: nel romanzo e nel film non si è mai parlato di suoi figli). La serie TV presenta allora Anna come un nuovo personaggio d’invenzione. Questo personaggio permette alla serie di entrare in un filone di racconto sulle eresie medievali, presente nel romanzo di Eco, che il film non sapeva riaprire. Non è un caso che Giacomo Battiato sia un esperto di eresie medievali: le ha studiato a fondo, e ha portato queste sue competenze dentro la scrittura della serie. Ecco allora lo storytelling del personaggio di Anna, la figlia di Dolcino, che è una ragazza guerriera, assetata di vendetta, che cerca di vendicare il padre, ma è anche una profuga occitana in Italia. Anna cerca le ultime lettere del padre, che sono conservate all’abbazia, e infine si sacrifica per salvare la ragazza del popolo, quella di cui si è innamorato il giovane Adso da Melk, cioè il narratore del libro, del film e della serie.

Il personaggio di Anna allora ci permette di esplorare nuovi percorsi di senso. E la serie Rai fa in tal modo un lavoro di ibridazione tra almeno due pratiche, quella transmediale di approfondimento dei personaggi con le loro backstories che chiamiamo storytelling centripeto (molti personaggi hanno delle aperture sul loro passato), e la pratica invece del What if, che permette di raccontare l’eresia e questo personaggio alternativo. Sono modi delle serie TV contemporanee di prendere dentro la loro costruzione le strategie degli utenti del web, crossmediali e transmediali, e quindi di rinnovarsi, di trasformarsi seguendo nuove strategie di storytelling.

MARIA GRAZIA FALÀ