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Giorno: 18 Novembre 2019

Stefano Calabrese: “Giulio Regeni, storytelling tutto orientale”

“Giulio Regeni, storytelling tutto orientale”

Per Meltemi un libro sulla narrativa araba, fonte anche di questa storia plasmata dall’intelligence

Stefano Calabrese

Uno storytelling, quello islamico, tendente, come tutti quelli orientali ed il fandom moderno, ad un approccio verso il “noi” più che verso l’”io”, tratto tipico delle narrazioni occidentali.

Una narrative, quella relativa a Giulio Regeni, orchestrata senza dubbio dai servizi segreti ma, nel produrre questo voluto disorientamento, fortemente improntata a storie parallele, diaspora degli spazi, segmentazione della temporalità, tutti aspetti della letteratura araba.

Letteratura araba per bambini e analisi di conversazioni adolescenti – genitori di immigrati arabi come prima chiave per capire le origini di un narrare diverso dal nostro, anche in contesti “ibridi” come quello dell’immigrazione. Narrare che fa del messaggio un semplice strumento “schiacciato” tra emittente e destinatario, e dove quest’ultimo ha un ruolo preponderante, mentre l’emittente si trova sempre in posizione di svantaggio.

Infine, una molteplicità di personaggi, di storie sequenziali che li riguardano, il tutto ambientato in unità spaziali limitate: questo il tratto paradigmatico di una tradizione letteraria, quella araba, che contiene questo filo rosso da Le mille e una notte al recente Palazzo Yacoubian dello scrittore egiziano ‘Ala al-Aswani.

Questi, in sintesi, gli aspetti più importanti contenuti in Gli arabi e lo storytelling arabo. Dalle origini a Giulio Regeni, libro scritto di recente per Meltemi da Stefano Calabrese, docente di Comunicazione narrativa nell’Università di Modena e Reggio Emilia.

In Che cos’è una fanfiction, edito da lei e Valentina Conti sempre quest’anno, lei parlava dei contenuti del fandom come più coinvolgenti a livello sociale, come appunto di solito è la narrativa orientale, rispetto a quella occidentale, più orientata verso l’individualismo. Ora lei ritorna a studiare lo storytelling arabo, appunto, orientale. Un approfondimento di temi già trattati?

Considerando l’opposizione dello storytelling individualistico e analitico dell’Occidente, e lo storytelling interpersonale e olistico dell’Estremo Oriente, quello dei Paesi di lingua e cultura araba risulta senza dubbio più prossimo al secondo, ma con una differenza.

Ebbene, è vero che l’intera civiltà islamica induce a consolidare la primazia della collettività rispetto al singolo individuo, però mentre in Estremo Oriente si convalida un’idea di macrocollettività, nei Paesi arabi hanno un ruolo preponderante gli aggregati tribali di medio-piccole dimensioni, oppure piccole isole di interpersonalismo quali le famiglie. Quest’ultimo aspetto si traspone anche a livello diegetico, con caratteristiche differenti rispetto a quelle preponderanti nel format narrativo diffuso in Estremo Oriente.

La narrazione relativa a Giulio Regeni si presenta come una vicenda di “intelligence come fabbrica delle storie, poiché i servizi segreti hanno sempre svolto mansioni assai simili a quelle dei narratori”, come lei ha detto. In che senso si potrebbe affermare ciò, e in che modo tale storia assume i tratti di una narrative orientale?

Con i suoi labirintici entrelacements, la segmentazione della temporalità e la diaspora degli spazi, l’ossessiva tendenza a strumentalizzare le narratives – facendone uno strumento di vita o di morte, uno strumento di coding o più semplicemente un luogo di ebollizione del mendacio –, la tradizione narrativa araba ha favorito sia l’ottimizzazione del mind reading nelle popolazioni arabe, documentata da molteplici studi di psicologia sociale, sia la nascita di sistemi di intelligence iperattivi e interstiziali. Ogni evidenza induce purtroppo a pensare che Giulio Regeni sia rimasto vittima di un disegno politico alimentato e gestito dai servizi segreti militari egiziani, ma è un fatto che il disorientamento indotto da tali servizi prima e dopo la sua morte sia il lontano discendente di uno storytelling plurisecolare. In altri termini, sembrerebbe che il contratto narrativo che contraddistingue l’Islam – il racconto come utensile per ottenere qualcosa – continui a essere siglato dai contraenti arabi.

Perché, per capire lo storytelling di un popolo, occorre partire dalla letteratura per l’infanzia?

Perché è all’interno del “micro” contesto della letteratura per l’infanzia – così come accade in quello della narrazione familiare – che emergono in modo “semplificato” e al tempo stesso esemplificativo i valori e l’idea del Sé e del mondo diffusi nel macro contesto culturale. Pertanto, uno dei modi migliori per valutare i trend morfologici e le tradizioni tematiche di una tradizione letteraria è senza dubbio partire dal basso, dalla letteratura per l’infanzia, un territorio in cui le semplificazioni indotte dal target fanno emergere forme, topoi, generi e convenzioni narrative con una evidenza preclusa alla letteratura per adulti. In pratica, già nel momento in cui un bambino entra in contatto con la parola scritta la sua attenzione viene indirizzata a una specifica Weltanschauung, culturalmente determinata.

Quanto si comprende, della cultura di una società, dall’interazione adolescente – genitore, e come si struttura questa in contesti “ibridi”, come quelli di una comunità araba immigrata?

Dagli studi che negli ultimi decenni si sono focalizzati sul modo in cui le storie emergono nelle conversazioni quotidiane emerge come queste small stories sembrino essere il luogo “ideale” in cui le identità vengono continuamente esercitate e testate, emergendo attraverso l’assiduità di parole, temi, eventi, protagonisti, personaggi chiave, plot, sub-plot, dell’uso documentato dell’Io nel corso di ogni narrazione e della relazione attraverso cui i temi sono stati presentati, perché anche questo dato aiuta a comprendere il rapporto sussistente tra il narratore e il destinatario.

Lo stesso accade in contesti “ibridi”: i processi migratori contribuiscono a un continuo interscambio tra presente e passato, tra Paese originario e Paese ospitante, tra le condizioni socio-culturali e morali precedenti e quelle attuali, per cui l’analisi di conversazioni genitori-adolescenti appartenenti a una comunità araba immigrata mette in luce che le storie degli adolescenti incorporano una poliedricità di “voci” connesse da un lato alla cultura ospitante, dall’altro lato alla cultura d’origine che permane all’interno del nucleo familiare.

Emittente – messaggio – destinatario: in che modo si delinea, nello storytelling arabo, questo asse semiotico elementare, che nella letteratura occidentale appare piuttosto equilibrato?

Nella tradizione dello storytelling arabo, l’asse semiotico emittente – messaggio – destinatario viene per così dire riformattato, dove la componente del messaggio si prefigura solo da trampolino di lancio per le altre due: il destinatario assume una posizione centrale e preponderante, costituendo altresì il tema veicolato dal messaggio, mentre l’emittente delle storie si trova sempre in una situazione di svantaggio o addirittura in pericolo di vita. Gli argomenti identificati come ostici o perniciosi per il destinatario vengono omessi o rimodulati dall’emittente, come accade ad esempio in Le mille e una notte, Kalila e Dimna, o Il figlio vivente del vigilante di Ibn Tufayl, solo per citarne alcuni.

Le mille e una notte sono paradigmatiche di una tradizione letteraria che fa dell’entrelacement il suo tratto portante. È così anche nella letteratura araba contemporanea?

Assolutamente sì. Sono particolarmente emblematici alcuni romanzi dello scrittore egiziano ‘Ala al-Aswani. Basti pensare a Palazzo Yacoubian in cui tutto è raccontato in un regime narrativo di entrelacement, caratterizzato da una molteplicità di personaggi, storie sequenziali riguardanti questi ultimi, un’unità spaziale limitata e storie che nascono e si alimentino per contagio, seguendo “logica metonimica”.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

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