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Giorno: 8 Ottobre 2018

Donatella Capaldi: “Museo elettronico, interazione sinestetica”

“Museo elettronico, interazione sinestetica”

Tradotto e commentato per Meltemi un seminario tenuto da Harley Parker e Marshall McLuhan

Donatella Capaldi

Un anno, il 1909, in cui deflagra l’insofferenza per il museo come istituzione (“museo – cimitero”, “museo mausoleo”), e che vedrà nuovi percorsi nel primo dopoguerra con la Germania di Weimar. Una figura pionieristica, quella di Alexander Dorner, che a cavallo del XX secolo ha indagato su quale “effetto” doveva suscitare l’allestimento museale e su quali modificazioni percettive doveva indurre nel visitatore. Avanguardie, negli anni Sessanta (si veda in primo luogo Andy Warhol), che hanno agito sulla formazione umanistica ed estetica di McLuhan al tempo del suo Understanding Media e delle sue riflessioni sull’istituzione museale. Una concezione del museo, quella di McLuhan e Parker, come luogo di apprendimento della diversità, di superamento della visione lineare gutemberghiana basata sulla vista. Un luogo, il museo, quale concepito da Parker e McLuhan, con al centro il coinvolgimento del pubblico, a partire dal quale creare un percorso di apprendimento fino all’eliminazione dell’organizzazione cronologica dello storyline, tipicamente gutemberghiana. Infine, uno spaesamento, nei giovani, tra la percezione del “vecchio” museo e del “nuovo” museo, dove sono coinvolti tutti i sensi. E, anche nel sistema educativo, stesso spaesamento negli studenti dovuto alla sinestesia che i nuovi media sollecitavano (tra tutti, la TV) e il modo di insegnare ancora basato sulla linearità della stampa.

Queste, in sintesi, le linee portanti descritte da Donatella Capaldi, assegnista di ricerca in Comunicazione dei beni culturali alla Sapienza di Roma, nel commentare la sua traduzione italiana di un seminario tenuto nel 1967 da Marshall McLuhan e Harley Parker al Museum of the City of New York, edita di recente da Meltemi (Il museo elettronico. Un seminario con Marshall McLuhan).

Il museo inteso come esposizione di oggetti disposti secondo un ordinamento tassonomico e temporale nasce intorno agli anni Trenta dell’Ottocento. Quando comincia a frantumarsi questa visione?

Sulla validità delle tassonomie e delle esibizioni museali organizzate in lunghe gallerie e con le teche ricolme di reperti iniziò un fitto dibattito sul finire del XIX secolo. Veniva messa in questione l’architettura, che andrà sempre più differenziandosi dalla visione originaria ottocentesca (capostipite Schinkel nel 1830): corridoi principali e secondari in cui piazzare capolavori e autori “minori”, per celebrare anche spazialmente l’istituzione statale, i traguardi culturali raggiunti dalla Nazione. Una struttura architettonica che all’inizio coincideva con l’idea romantica della unificazione del popolo in una cultura nazionale, ma con il tempo era divenuta una gabbia, una forma di coercizione della produzione artistica, asservita alla autocelebrazione del potere di uno stato e delle sue istituzioni. Occorreva dunque cercare di rendere l’esperienza più inclusiva per il visitatore, favorirne la partecipazione: Wilhelm Bode a Berlino progettava per es. un nuovo tipo di allestimento che, ricostruendo il contesto storico e architettonico in cui sistemare e mettere in relazione opere e arredi, voleva favorire la comprensione del museo da parte del pubblico, secondo una visione certamente “storicista”, condivisa per es. qualche tempo dopo, nel 1909, da Louis Réau, responsabile delle collezioni di Francia. Il 1909 è in effetti un anno cruciale, l’anno in cui deflagra l’insofferenza per il museo come istituzione: ”Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese!” tuonava l’invettiva di Marinetti. E sarà da allora tutto un fiorire di epiteti: dal “museo – cimitero” dei Futuristi al “museo mausoleo” del viennese Tietze (1925), espressione ripresa poi da Adorno, o dalle stracitate mummie museali di Valéry agli spazi immobili e autoriferiti nel Kunsthistorisches Museum di Vienna in Antichi Maestri di Thomas Bernhard. E di contro – musei iperbolici inventati dagli artisti, come la raccolta in teche di scorie metropolitane del Mouse Museum di Claes Oldenburg o il parossismo classificatorio del Museo delle Aquile di Marcel Broodthaers a Bruxelles (1968).  Ma tornando al primo Novecento, già quella prima contestazione della forma-museo ha agito indubbiamente e parallelamente da pungolo per sperimentare soluzioni innovative, che superassero il senso di esclusività dell’esposizione come vetrina di stato e di élite, preclusa ai meno acculturati.  E nel primo dopoguerra, soprattutto la Germania di Weimar ha indicato nuovi percorsi.

Si può dire che Dorner, attivo dagli anni Venti del Novecento, sia stato antesignano nel contrapporsi alla concezione precedente?

Dorner è stato una figura-  chiave per vari motivi: aver indagato su quale “effetto” doveva suscitare l’allestimento, quali modificazioni percettive doveva indurre nel visitatore per meglio introdurlo nell’ambiente suggerito dall’opera. L’idea era che l’ambiente espositivo fosse una forma plastica, determinata dalle sollecitazioni e dalle provocazioni delle opere. Per esempio, in una sua famosa esposizione l’itinerario di visita veniva tracciato e costruito partendo dai paradigmi fondativi dell’opera di Malevič. Ecco che lo spazio viene distinto da colori diversi, separato da porte e tendaggi, mosso da inserti di legno applicati alle pareti che danno il movimento dal liscio allo scabro. Sono le opere a creare l’ambiente in cui far muovere il visitatore, e non il museo come istituzione normativa; sono i loro elementi stilistici a essere accentuati nell’allestimento e a creare un percorso sensoriale, una scia di punti che instradano il pubblico e lo fanno muovere nella composizione e nelle campiture acromatiche come nelle macchie di colore che costituivano i lavori dei suprematisti russi. Sottotraccia Dorner ha indicato una strategia, quella della esibizione della discontinuità, della diversità, alla quale il museo dovrebbe allenare il visitatore.  Una soluzione che deve superare quella tradizionale della accumulazione degli artefatti.

Che ruolo hanno avuto le avanguardie degli anni Sessanta nella visione che poi sarebbe stata esposta da McLuhan e Parker nel seminario tenuto al Museum of the City of New York il 9 – 10 ottobre del 1967?

Direi che il ruolo delle arti agiva su più piani, innanzitutto trovando un fertile terreno nella formazione umanistica ed estetica di McLuhan, anglista e critico letterario, soprattutto di poesia, e appassionato dell’artista – poeta vorticista Wyndham Lewis, ma anche assiduo frequentatore degli ambienti dell’Avanguardia artistica californiana e newyorkese negli anni ’60. In particolare sono rilevanti i rapporti con Andy Wahrol e la sua Factory, o con la performance art di Kaprow, al tempo del successo di Understanding Media (1964). Dal punto di vista teorico la sua riflessione sul museo nasce grazie alla conversazioni con Harley Parker, artista e suo collaboratore, con il quale rilegge la storia del segno e dello spazio artistico nei secoli, provando a individuare le connessioni con lo sviluppo e l’articolazione dei paradigmi che muovono l’ambiente mediale e la sua rappresentazione (sotto l’evidente influenza di Panofsky). Una disposizione che accende in McLuhan una profonda curiosità e partecipazione, qualche mese prima del seminario di New York, per la Expo mondiale di Montreal, particolarmente attenta all’arte contemporanea. Ma c’è anche un altro livello, forse ancora più interessante: egli si ritrova in forte sintonia con gli artisti perché la sua esplorazione teorica sui media si intreccia con la funzione delle arti, a suo parere essenziale, nell’indagare e sovvertire l’ambiente sensoriale e mediale. Per esempio: già gli Impressionisti, in presenza della progressiva introduzione dei media elettrici, lavoravano su quello che McLuhan definisce il medium “puro”, la luce. La luce elettrica ha rivoluzionato la comunicazione, passando dalla invenzione del telegrafo, continuando con il fonografo, e poi la radio, verso una rivoluzione dell’immagine, dalla stampa al cinema in poi. E ha modellato il nostro sistema percettivo, i nostri parametri mentali. La luce “corrente”, istantanea, induce una vistosa accelerazione nella quotidianità dei rapporti sociali e economici, una eliminazione progressiva delle distanze, una mutata concezione del tempo, come simultaneità e compresenza immediata di elementi eterogenei e frammentari, declinandolo in un eterno presente che tutto ingloba. L’habitat dei media sembra essere autonomo, autoconsistente, difficilmente analizzabile e aggredibile (pensiamo oggi per es. a Google e al problema degli algoritmi), come un sistema neurale che avvolge il pianeta. Ma in quegli anni ’60 gli artisti divengono geniali manipolatori di quella rete. Partono anche loro dal medium puro, la luce, con le instant sculptures di Flavin, tubi fluorescenti che plasmano luoghi virtuali e smaterializzati senza pareti, composti di fasci luminosi; e il mash-up di Fluxus (la fusione, il melting), con Maciunas o Higgins con i suoi Intermedia, che mescolano frammenti di pittura, poesia, grafica, musica e performance; e gli happening di Kaprow, con un corpo – ipostasi che avverte le minime vibrazioni del flusso e lo reinterpreta. Sino alle scorie di schermi televisivi di Nam June Paik e Wolf Vostell. Le arti sono per McLuhan dei radar della percezione, gli artisti sono “esperti in consapevolezza sensoriale”. Essi creano un anti-environment, un controcampo che diviene un “luogo” dove emergono le dinamiche occulte dei media, e dove vengono risvegliate le coscienze, fuoriuscendo dagli automatismi, fermandone il flusso e il bombardamento, rompendo gli stereotipi, e inducendo così alla comprensione dell’intreccio tra media e spazio vivente. Fuori dalla narcosi, dalla stato di torpore e di sogno in cui i media ci spingono, lavorando sui loro modelli, smontandone i meccanismi. Uscendo dal blob, si diventa osservatori e decostruttori dei loro stereotipi. Susan Sontag riconosceva i motivi del fascino teorico esercitato da McLuhan sugli artisti: soprattutto l’aver compreso la New Sensibility, ossia che l’arte contemporanea si basa “sull’analisi e l’estensione delle sensazioni”. E sulla eliminazione delle distinzioni tra alto e basso, tra cultura elitaria e cultura di massa: il Pop come sovversione del consumo, ma anche esplorazione, percorso all’interno dei processi culturali contemporanei. Gli artisti come abitatori degli ambienti costruiti dai media, in cui immergersi per comprenderne e governarne i meccanismi (si pensi a Joseph Beuys con la sua Filz TV del 1970). Più integrato che apocalittico, McLuhan non nascondeva tuttavia il suo persistente disagio, nonostante la scelta di ibridarsi a sua volta con il Pop e con il flusso dei media risalisse al 1951: comprendere l’ambiente per non restare subalterni; compiere, in sostanza, un lavoro simile a quello degli artisti (e utilizzarne le esperienze). Ma un bel problema era trasferire queste teorie e pratiche all’interno di un museo…

Qual era la concezione che McLuhan e Parker avevano del museo, inteso come medium che dovrebbe creare ibridazione, intensificazione delle percezioni degli spettatori, e interazione?

Il problema che entrambi si pongono è che nell’era della riproducibilità tecnica e della cultura di massa l’approccio alle opere dovrebbe passare da una sua fruizione mediale – spettacolare. Ma seguendo una “mission” precisa: il museo come luogo di apprendimento della diversità, del dissimile, come creazione e comprensione del conflitto. Dunque occorre incoraggiare uno sguardo ”straniero” anche su un patrimonio conosciuto. Spingere il visitatore a farsi delle domande, a discutere, compiere delle comparazioni, individuare contraddizioni, come base della interattività, di una scoperta ed esplorazione delle collezioni da parte del pubblico, a partire dalle quali sia poi possibile abbozzare e tracciare dei percorsi di apprendimento. Quindi gli allestimenti “tradizionali” dovevano essere completamente rivisti alla luce dei nuovi alfabeti dei media: al centro il coinvolgimento del pubblico, anche lavorando sulla fisicità dell’artefatto, da lasciar manipolare facendo entrare nel circuito espositivo copie e riproduzioni degli oggetti; fondamentale presentare i modelli percettivi e spazio-temporali espressi da un’epoca, piuttosto che soffermarsi monograficamente sui singoli artisti. Anzi, le opere anche di uno stesso periodo devono essere fatte stridere, creando conflitti per mettere in luce i parametri culturali che le hanno generate, in contraddizione spesso con lo stesso periodo storico in cui sono state realizzate. Fino a un ulteriore passo: la eliminazione della organizzazione cronologica dell’allestimento: lo storyline ci reimmetterebbe in quell’apparato “gutenberghiano” della consequenzialità e della linearità temporale causa-effetto che la simultaneità e la non linearità del tempo dei media di massa hanno messo largamente in crisi. La scelta di lavorare sulle collisioni tra le opere, un’idea che anche oggi suscita polemiche (pensiamo al nuovo allestimento della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma), si intonava nei rivoluzionari anni ’60 con l’impeto a rompere con gli schemi precostituiti, allargare la platea del museo, renderlo un luogo della “vita”. Come Renato Barilli, rielaborando le idee di McLuhan, avrebbe sperimentato con Opera e Comportamento al Padiglione Italia della Biennale di Venezia nel 1972.

Infine: entravano in area espositiva le tecnologie (allora quelle audiovisive), ma con una forte consapevolezza, che queste non fossero automaticamente garanzia di una attivazione del pubblico. McLuhan e Parker notavano che a un orientamento performativo multimediale del museo corrispondeva spesso un atteggiamento del pubblico ancora (tele)“visivo”, passivo. Spettacolarità senza un vero intervento del visitatore che rimane solo fruitore, non viene coinvolto, non diventa “attivo” neanche in senso transmediale, ossia in una relazione che lo accompagni anche fuori dal museo. Quindi tecnologie sì, ma usate per coinvolgere, per stimolare domande, per aiutare le persone a cercare risposte.

Che ruolo aveva in tutto questo la ri – tribalizzazione creata da nuovi media come radio, cinema e televisione? E perché McLuhan considerava la TV come un medium freddo, che “viene incontro” allo spettatore, e che sollecita il tatto?

Rispondo alla seconda domanda per arrivare poi al problema della ritribalizzazione. Di solito si associano i mass media alla superfetazione di immagini, e si ritiene un tratto distintivo del nostro tempo il continuo bombardamento di immagini a cui siamo sottoposti nella giornata.  In realtà la definizione è parziale. Si potrebbe parlare di società dell’immagine e dello spettacolo già per il Barocco. Secondo McLuhan con la nascita e l’affermazione della prospettiva e la coeva invenzione e diffusione della stampa si accentua il dominio del senso della “vista” nel nostro apparato percettivo. La linearità e il distanziamento, con il movimento di lettura sinistra – destra ha plasmato il nostro apparato percettivo in senso astratto e concettuale e intensificato la catena logico -consequenziale che plasma il discorso; parallelamente, la divisione dello spazio prospettico rinascimentale mette fine al senso del “continuo” per rendere il soggetto osservatore della scena rappresentata, secondo una percezione che raccoglie i punti di fuga e costruisce “visivamente” l’ambiente. Ma quello che succede con i media di massa, soprattutto la tv, è che sono attivati anche gli altri sensi che con la vista collaborano alla costruzione dell’immagine. Ecco perché McLuhan definisce come audiotattile l’esperienza televisiva, cosa che può parere eccentrica. Oltre la vista, viene particolarmente messo in gioco l’udito, e soprattutto il tatto, poiché sono state eliminate le distanze con l’oggetto rappresentato, che si pone praticamente accanto a noi, quasi seduto nel nostro salotto: l’ambiente televisivo in maniera dinamica colpisce simultaneamente lo spettatore, coinvolgendolo e avvolgendolo in un flusso di sollecitazioni sensoriali. Per capire meglio questo assunto pensiamo alla famosa scena di Videodrome di David Cronenberg, un film del 1983 ispirato alle teorie di McLuhan, https://www.youtube.com/watch?v=P0XwWXgISXI: lo schermo del televisore diviene una ”pelle” che si dispiega sulla voce e il respiro dell’immagine femminile trasmessa in video. L’idea della tv come medium “freddo”, a bassa risoluzione, non è basata solo sulla scarsa definizione degli apparati degli anni ’60: il punto è che la televisione richiede la partecipazione e il completamento dello spettatore, lo coinvolge, “massaggia” il suo apparato percettivo senza distanziarlo. La tv rende esperienza quotidiana e continua quella che al cinema è una esperienza “eccezionale”, e d’altronde il cinema è “caldo” perché sovrasta lo spettatore: la storia a cui assistiamo è conchiusa, lo spettatore non è chiamato a completarla.

Con la tv, secondo McLuhan, si era entrati in piena fase di ri -tribalizzazione, di obsolescenza dei fondamenti razionalistici della cultura. Seguiranno, di lì a poco, le ondate delle teorie sulla post-modernità, sulla fine delle grandi narrazioni, e poi il movimento di ritorno delle derive identitarie, la rivendicazione di essere nel flusso un gruppo coeso, che resiste nelle proprie tradizioni e convinzioni, come argine. Pensiamo al sovranismo politico e al tentativo di “governare” o “fermare” i flussi globali cristallizzandoli nel singolo stato – fortilizio e autoriferito. O ben prima allo “stile di consumo” che agisce da collante e rinforza la sensazione di essere gruppo, tribù appunto. I linguaggi della rete accentuano la natura fluida della comunicazione televisiva, senza un prima e un dopo, secondo modalità di lettura senza più la scansione regolare della pagina, e rendendo obsolescenti i rapporti di causa-effetto. Nel flusso va perso il sistema di pensiero astratto, consequenziale e “visivo” gutenberghiano. Il surriscaldamento del nostro intero sensorio arriva a rovesciarsi in saturazione comunicativa, secondo continue e violente oscillazioni. E induce a “tribalizzarsi”, non tanto su spinte ideologiche, ma soprattutto trovando stabilità in forme comunitarie che passano dalla condivisione di stili di vita e soprattutto di consumo, spesso configurati come fortezze auto – riferite. Per questo McLuhan e Parker arrivano a pensare nel 1967 che la funzione centrale del museo possa consistere al contrario nell’allenarci alla diversità. Un ambiente per il cortocircuito mentale, una scuola dello “spaesamento”; qualcosa di analogo a quell’esercizio “xenologico” che in tempi a noi più vicini avrebbe teorizzato Sloterdijk.

Quanto contano i giovani nella definizione di nuovo museo quale preconizzata da Parker e McLuhan?

Conta la maniera in cui i media hanno plasmato il loro sistema percettivo, l’ambiente mediale in cui i giovani si sono formati: McLuhan negli anni ‘60 si trovava di fronte a nativi televisivi. Una generazione che rispetto alla precedente, ancora legata a una cultura gutenberghiana, anche se avvertita come problematica, era in grado di “sentire” e di pensare in modo non astratto, non consequenziale, ma a “mosaico”. Una sensibilità con radici nell’800, nel giornalismo che mescola insieme notizie, annunci  e fonti eterogenee, amplificata con i media elettrici e ipostatizzata dalla tv, dove la narrazione viene continuamente interrotta, lo storyline è sacrificato al frammento, il pubblico è continuamente sollecitato. Questo è un punto fondamentale per McLuhan, che anticipa quanto accadrà nel mondo delle reti, e ai nostri nativi digitali (del 1965 è la teoria dell’ipertesto di Ted Nelson, primo nucleo teorico sulla cultura connettiva). Si spiega così, secondo McLuhan, la frattura generazionale di quegli anni ’60, tra giovani abituati alla sinestesia, alla discontinuità, al frammento, alla polisensorialità, alla multimedialità e alla riscoperta del corpo (simbolicamente i movimenti hippies, per es.), e l’ambiente scolastico, ancorato a una organizzazione astratta e concettuale dei saperi, alla linearità e categorizzazione, al primato della vista sugli altri sensi. La cultura rischia di guardare i processi in corso “dallo specchietto retrovisore”, perché non si è riusciti a trarre vantaggio nella formazione dai nuovi media elettronici. Come è evidente, anche in questo senso sono diagnosi profetiche… Mondo esterno e mondo dell’educazione formale non si ibridano, come – e il problema si porrà a lungo – non si ibridano mondo esterno e mondo dei musei. Non a caso in quel periodo McLuhan si dedicherà all’aspetto pedagogico dei media scrivendo La città come aula, dove propone l’ambiente spaziale e mediale come luogo fondamentale dell’apprendimento (1968). Lo stesso ragionamento lo applica nel seminario del 1967 al museo: superando una sterile concettualizzazione tassonomica, e una frequente carenza di contestualizzazione degli oggetti, il museo deve essere costruito come un ambiente percettivo che ricrei il “sentire” di una cultura o di un periodo, immergendovi il visitatore perché possa ricavarne i modelli, i paradigmi fondativi, ed eccitando una partecipazione coinvolgente ed esperienziale. In questo contesto la “collisione” delle opere, per es. un Guido Reni opposto a un El Greco, richiede allo spettatore di riconoscere un modello, portandolo a comprendere che ne esiste contemporaneamente uno opposto. Il valore dell’esperienza è dato non tanto dalle informazioni, ma dai modelli e dalle differenze che possiamo ricavarne. La diversità come destinazione del museo: una terapia d’urto, che spiazzi continuamente il soggetto e incrini i suoi stereotipi, anche per un pubblico privo di riferimenti storico -artistici o culturali, ma prevalentemente allenato alla polisensorialità e alla simultaneità. Mostrare le lacerazioni e i conflitti nascosti dalla narcosi indotta dalla saturazione sensoriale, dalla maschera della assuefazione. Rompere i cliché. Recuperare la dimensione performativa…

MARIA GRAZIA FALÀ

Il Museo elettronico