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Giorno: 12 Luglio 2018

Andrea Miconi: “Impero e comunicazioni, prima della fase pop dei mass media”

“Impero e comunicazioni, prima della fase pop dei mass media”

Per Meltemi la riedizione del libro di Harold Innis a cura di Andrea Miconi

Andrea Miconi

Un testo di teoria a cui la storia si presta solo come terreno di dimostrazione, e che presenta vistose incongruenze nella ricostruzione storica. Un libro che si è affermato in Nord America e non, a differenza di quelli di McLuhan, nel mondo. Un lavoro a cui forse va nuociuto il fatto che è uscito troppo presto, quando la fase pop delle comunicazioni di massa non era ancora nel suo momento crescente. Poi, un determinismo tecnologico più asciutto e inteso sul piano del potere, del sistema, della struttura della società. Infine, il concetto di bias, inteso come orientamento e pregiudizio, che hanno informato tutta l’opera.

Sono questi i tratti salienti di Impero e comunicazioni, traduzione italiana di Empire and Communications (1950) di Harold A. Innis, studioso canadese morto nel 1952. Quest’edizione, a cura di Andrea Miconi, docente di Sociologia dei Media allo IULM di Milano, è una ristampa edita per Meltemi.

La sua curatela di Impero e comunicazioni, nella bibliografia, si ferma all’anno 2000. Questa edizione è forse una ristampa?

Esattamente, si tratta di una ristampa dell’edizione – la prima italiana – che curai per Meltemi nel 2001. Di certo gli anni che sono passati hanno aggiunto molto al dibattito sulla forma imperiale di governo del mondo, ma questo è.

Impero e comunicazioni esce nel 1950, quando ancora la Lineare B, cioè il miceneo, non era stata decifrata, e quindi questo per esempio falsa l’interpretazione che Innis fa della civiltà greca. Quanto risente il libro del fatto che è così datato?

Sempre nel testo vi sono svarioni come la battaglia di Maratona fatta risalire al 484 a. C., anziché, come ovvio, al 490 a.C….

Queste sono questioni [o meglio, sono esempi delle questioni] che discutemmo a suo tempo con il padrone di Meltemi – Marco della Lena, un editore di rara sensibilità intellettuale, che purtroppo morì poco dopo. Ce ne sono molti altri, perché da un punto di vista storico il libro di Innis fa acqua da tutte le parti: naturalmente, questo non toglie che qualche refuso o qualche errore sia colpa nostra, sia chiaro, e come curatore diciamo pure che la colpa va data a me. Ma i dettagli non cambiano la sostanza: come tutte le ricostruzioni ad ampio raggio, che si estendono su millenni, Impero e Comunicazioni non funziona come testo di storia. Semmai è un testo di teoria, a cui la storia si presta come terreno di dimostrazione. Ricordo che sul merito della storia egizia, ad esempio, erano saltate fuori altre inconguenze.

Peppino Ortoleva dice che, con Morin, gli studi di McLuhan sono “tuttora tra le principali fonti d’ispirazione per qualsiasi storico della comunicazione.” Perché non si può dire lo stesso di Innis?

Buona questione, che con Ortoleva abbiamo discusso più volte: personalmente sono d’accordo su McLuhan e meno su Morin, che secondo me ha fatto più danni che altro. Resta il fatto che Innis, come autore, si è affermato in Nord America, ma nel resto del mondo non è passato in alcun modo. Diciamo che la sua morte è arrivata prima della fase pop delle comunicazioni di massa, che avrebbe fatto la fortuna di Morin e McLuhan [come di Eco e Barthes, per dire], e infatti la sua ricostruzione si ferma alla radio. L’altra possibile spiegazione è che Innis ha lavorato sulle grandi sfere dell’organizzazione del mondo, senza ragionare sulle conseguenze culturali dei media sul piano del quotidiano, e questo rende meno digeribili, o anche meno interessanti, i suoi concetti. Da ultimo, non possiamo escludere che sia stato banalmente un divulgatore meno bravo di altri.

Come si può definire il cosiddetto determinismo tecnologico di Innis comparato con qullo di McLuhan, che è molto più hard?

Direi che i discorsi di Innis e McLuhan insistono su piani diversi: potere/cultura; spiegazione di sistema/effetti sul quotidiano; struttura della società/percezione individuale. In effetti, credo che McLuhan sia più lontano da Innis di quanto la sua celebre frase [sulla postilla] non lasci credere. Detto questo, mentre McLuhan è un autore contraddittorio [ad esempio, io lo leggo come materialista, mentre Ortoleva e altri considerano come medium, per McLuhan, il campo dell’interazione uomo/tecnologia], Innis è tutto sommato più asciutto. Il suo è un determinismo più puro, in certo modo.

In che modo va visto in Innis il concetto di bias? Come va inteso nel senso di pregiudizio e di orientamento?

Ho sempre pensato che il termine bias, nel caso di Innis, non fosse traducibile: il libro The Bias of Communication fu introdotto in Italia come Le tendenze della comunicazione, ad esempio, ma a prezzo di sacrificare una delle due aree semantiche. Una volta Vincenzo Matera mi disse che l’unica soluzione è tradurre bias come tendenziosità: termine che congiunge i due significati, appunto orientamento e pregiudizio. In Innis ci sono tutti e due: il medium dominante organizza la cultura e impone una percezione dello spazio del tempo, e insieme rende difficile, per chi appartiene ad una cultura, capirne un’altra – una considerazione che in fondo è in linea con tanta antropologia. Ad esempio, Innis considera il ‘900 come un terreno di scontro tra civiltà dominate dalla scrittura e civiltà segnate dall’avvento della radio. Un po’ come rileggere Huntington su base materialista, interpretando lo scontro delle civiltà non in base alle culture (cristiana/islamica, occidentale/confuciana) ma in base ai supporti su cui si sono legittimate.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Andrea Miconi