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Giorno: 19 Ottobre 2017

Jason Mittell: “Golden age o quality television? Meglio complex TV”

“Golden age o quality television? Meglio complex TV”

Dall’accademia anglosassone per minimum fax una serie di testi sull’audiovisivo, tra cui quello di Jason Mittell

Luca Barra

Una collana, SuperTele, di minimum fax, aperta agli studi di accademici anglosassoni dedicati alla televisione e ai media audiovisivi. Un autore, Jason Mittell, che ha cercato di andare oltre rispetto ai concetti di golden age e di quality television per coniare la definizione di complex TV. Inoltre, l’applicazione alle serie televisive, da parte di questo studioso, di concetti come poetica storica ed estetica funzionale. Di questo e di altro parla Luca Barra, ricercatore di Storia della radio e della televisione presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, che insieme a Fabio Guarnaccia dirige la collana.

La traduzione di Complex TV, di Jason Mittell, docente di Film and Media Culture al Middlebury College, nel New England, inaugura SuperTele, collana di minimum fax. Il testo, del 2015, è curato da lei e da Fabio Guarnaccia, ed è incentrato sulla serialità tv americana. In cosa si discosta dagli altri volumi che avete pubblicato nella stessa serie?

SuperTele è una collana di minimum fax che dirigo con Fabio Guarnaccia, e che nel 2017 si compone di quattro volumi, mentre altri quattro usciranno l’anno prossimo. Attualmente comprende il testo di Mittell e altri due già pubblicati, Post Network di Amanda D. Lotz e Cultura on demand di Chuck Tryon, mentre è previsto un quarto volume, L’era dei format, dedicato all’intrattenimento e firmato da Jean K. Chalaby, studioso francofono che insegna a Londra. L’idea alla base delle nostre scelte è stata quella di selezionare alcuni titoli che ritenevamo interessanti anche per il dibattito italiano, sia accademico che giornalistico e culturale, e per gli appassionati di televisione. Questi libri sono traduzioni di importanti lavori scientifici o più divulgativi pubblicati all’estero, spesso nel contesto americano e inglese, e sono specificamente dedicati alla TV e ai media audiovisivi, un settore non molto frequentato dall’editoria italiana.

Complex TV si incentra su alcune parole chiave come poetica storica, concetto che Mittell ha ripreso da David Bordwell, ed estetica funzionale, mutuato da Neil Harris. Ce ne può spiegare l’applicazione e l’originalità nel loro uso per le serie televisive?

Mittell, nel suo Complex TV, fa un’ampia sistematizzazione di un sapere che si è sviluppato attorno alle serie televisive nel corso di anni e di decenni. Da questo punto di vista, il testo funziona molto bene anche come manuale per capire le serie TV contemporanee. Da qui poi la riflessione di Mittell parte per diventare originale. Tra i concetti che l’autore recupera dalla riflessione accademica precedente, spesso di ambito letterario e cinematografico, ci sono quelli di poetica storica e di estetica funzionale. L’idea di poetica storica è una delle leve con cui Mittell inserisce le serie TV e la loro analisi in un sistema più ampio, che affronti non solo i testi in sé ma il loro sviluppo temporale, a volte molto lungo, seriale appunto, i contesti della produzione e della distribuzione, e i modi in cui il pubblico affronta, decodifica, si affeziona, diventa fan di una serie. L’idea di estetica funzionale va in questa direzione: si può fare un ragionamento sull’estetica delle serie televisive, sui loro aspetti formali, stilistici, artistici, ma non bisogna dimenticare che sono sempre legate a funzioni e obiettivi specifici richiesti dai contesti di produzione televisiva. L’idea di applicare uno sguardo sistemico alle serie TV non è solo di Mittell, è il risultato di un processo lungo che ha attraversato i television studies. Si è arrivati a una sorta di maturità negli studi sulle serie televisive, che fanno capire bene come queste siano un sistema dove tutto si tiene.

Nel suo libro Mittell scrive che l’estetica funzionale consiste nell’“apprezzare il risultato di un meccanismo e al contempo meravigliarsi per il modo in cui funziona”, cioè pone l’accento sul come avviene qualcosa. Non è quello che capita, come affermano i filologi classici, nella tragedia greca, quando gli spettatori andavano a vederla per sapere come veniva narrata la storia, dal momento che sapevano già come andava a finire?

Sono due livelli di lettura probabilmente presenti in tutte le forme artistiche. Da un lato si ha una fruizione più legata al contenuto, alla narrazione, e dall’altro uno sguardo più attento allo stile, al modo in cui un’opera ci racconta quello che racconta. Si tratta di una lente, di una chiave rispetto a cui potremmo analizzare la letteratura, il teatro, la poesia, il cinema. Quello che ci dice Mittell, ed è legato alla sua idea di una televisione complessa, è il fatto che nella serialità contemporanea spesso questa lettura di secondo grado diventa spesso l’aspetto più importante. Nel momento in cui si gioca con la narrazione, con i piani temporali, con l’evoluzione dei personaggi, con le modalità attraverso cui lo spettatore raccoglie i pezzetti di questa narrazione seriale e li mette assieme, la serialità diventa arte del meccanismo, qualcosa di fronte a cui essere ammirati. Tradizionalmente la tv tradizionalmente è stata considerata, credo a torto, un mezzo banale, leggero, forse perché si rivolge in modo costitutivo a un pubblico di massa. Quello che fanno le serie complesse degli ultimi 20 anni è mettere in primo piano invece la laboriosità dei meccanismi con cui le narrazioni seriali riescono a coinvolgerci.

Mittell critica le due definizioni di golden age della serie TV e di quality television. Secondo lei ha ragione?

Sì. Sono due definizioni che hanno avuto, e hanno tuttora, un ruolo importante per riconoscere l’importanza della serialità televisiva a livello di discorso pubblico, collettivo. Anche le pagine culturali dei giornali si sono interessate sempre di più a questa serialità grazie alle idee di TV di qualità e di età dell’oro della produzione seriale americana recente. Queste definizioni però presentano anche dei limiti che Jason Mittell cerca di superare coniando l’idea di una televisione complessa. Il concetto di golden age ha il problema di non tenere conto fino in fondo dell’evoluzione storica della serialità televisiva, dei fattori contestuali che cambiano nel tempo: è un’etichetta che isola momenti particolarmente felici, ma che si dimentica del fatto che a essi si è arrivati anche grazie a un insieme di elementi che affondano nel periodo precedente o che proseguono in quello successivo. Allo stesso modo, l’idea di quality television sembra quasi implicare che ci sia una televisione di qualità e una che invece la qualità non la vede neanche con il binocolo, cosa molto presente nel discorso comune, ma che è meno accettabile dal punto di vista accademico. Molto spesso la qualità è un’etichetta attribuita per giustificare i propri gusti o che le reti usano per promuovere meglio i loro contenuti. Mittell si premura di dirci che la TV complessa non vuol necessariamente dire migliore. Si tratta di spostare il piano dal giudizio di valore a uno sguardo invece attento alle modalità narrative, produttive, alle forme di fruizione e di ricezione. Ci possono essere serie TV valide ma non complesse, penso a The Big Bang Theory o NCIS, mentre alcune serie complesse di Netflix o di HBO non funzionano bene.

Dopo tanto tempo Mittell introduce il giudizio di valore nel valutare un prodotto seriale. Come giudica tutto questo? Siamo ritornati, mutatis mutandis, a Croce?

Domanda impegnativa. Non credo che Mittell introduca di nuovo un giudizio di valore, perché questo nella valutazione del prodotto seriale non se ne è mai andato. Anzi, semmai, proprio dichiarando quello che gli piace di più o di meno, Mittell prova a fare uno scarto, andando oltre i criteri della cinefilia o della telefilia, evitando di considerare il bello e il brutto come categorie attraverso cui analizzare la serialità televisiva. Mittell dice che Mad Men non gli è piaciuta, e io dissento, ma lo fa anche perché, nel capitolo dedicato proprio alla valutazione, intende distinguere tra il discorso critico e quello scientifico-accademico, e cerca di trovare nella cassetta degli attrezzi di analisi della TV complessa anche alcuni strumenti che consentano di andare oltre, di articolare un discorso più oggettivo sulle serie.

La parte più debole di Complex TV, secondo lei, è quella sul melodramma, che per Mittell prevale in molti generi della TV complessa, indipendentemente dalla sua presenza nelle soap. Quanto affermato è applicabile a un contesto italiano?

Faccio un rapido accenno a questo aspetto nella mia postfazione proprio perché credo che il ragionamento di Mittell, che distingue in modo netto tra soap opera ed elemento di “melodramma seriale”, è molto radicato nel sistema televisivo Usa, ma non si trasferisce facilmente ad altri contesti, come quello italiano. Negli Usa la separazione tra la daytime soap, articolata quotidianamente nel del palinsesto pomeridiano, e la “componente emotiva legata al melodramma seriale” presente nelle serie complesse di prima serata è netta: e quest’ultima consente alle narrazioni complesse di articolarsi lungo tanti episodi e tanti anni, di dare loro un sapore differente che, al di là dei rispettivi generi, accomuna titoli diversissimi come Lost, The Good Wife, The Wire. Nel contesto italiano questa distinzione non è così netta e radicale, soprattutto nelle serie di importazione: abbiamo abitualmente delle soap opera trasmesse in prime time, come Il segreto, spagnola, su Canale 5, e magari con più successo rispetto a quello che le serie complesse riscuotono all’interno dei nostri palinsesti. Dal nostro punto di vista, la distinzione tra soap e melodramma seriale, come ingredienti che ibridano la serialità sia drama sia comedy, è molto più sfumata.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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