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Giorno: 26 Marzo 2017

“La violenza è sempre gendered” – intervista a Elisa Giomi

 

Elisa Giomi, docente di Sociologia e di processi culturali e comunicativi all’Unitre di Roma, anticipa i temi del suo prossimo libro

“La violenza è sempre gendered

 

La violenza di genere come filo rosso che collega i suoi studi, compreso l’ultimo libro, in cui si sostiene che la violenza è gendered, nel senso che è sempre agita da un sesso, maschile o femminile. Ma, quando a fare violenza sono le donne, la rappresentazione è effettuata sempre in chiave erotica, come rapporto tra due adulti consenzienti. Invece, la violenza maschile, anche quando clownesca come nei cartoon, agisce sempre e comunque. Poi, la rappresentazione della violenza su stampa, fiction e TG, che sta cambiando, ma ancora in modo schizofrenico. Inoltre, concorrenti sessualmente trasgressivi rappresentati, nei talent show, come tali, spesso secondo pure logiche di marketing. Infine, l’excusatio, come espediente per giustificare la violenza femminile perché il soggetto è stato vittima di stupri, di violenze, ecc., che vale quasi per tutti i testi mediali. Sono questi i tratti salienti di quanto emerge parlando con Elisa Giomi, docente di Sociologia e di processi culturali e comunicativi all’Università di Roma Tre.

Qual è il filo rosso che collega i suoi studi?

Ho avuto sempre uno sguardo attento alle problematiche di genere. Accanto a questo mi sono occupata della contaminazione tra i linguaggi del factual e del fictional nell’ambito mediale, cioè i programmi che si riferiscono all’informazione e alla produzione documentaristica che si ibridano, nei loro linguaggi, con i programmi di fiction basati sull’invenzione. Mi occupo anche della rappresentazione degli attori, dei processi, dei valori della sfera pubblica all’interno dei testi mediali, con particolare riferimento a quelli televisivi. Poi ho questa linea d’indagine sui modelli di genere proposti dalla cultura mediale e, all’interno di questa area, da quasi dieci anni mi focalizzo in modo particolare sulla rappresentazione mediale della violenza di genere.

Lei ha effettuato vari monitoraggi sulla rappresentazione della violenza di genere nella stampa e nella televisione. Ha trovato, nel corso del tempo, dei cambiamenti?

Sì, e sono molto recenti, dal 2013 in poi. Il cambiamento più macroscopico si è verificato con l’inserimento, nel discorso mediale, del termine femminicidio. Quando ho iniziato a occuparmi di questo tema era una parola tabù: nel 2013 l’Accademia della Crusca lo ha riconosciuto come termine a tutti gli effetti e parallelamente il 13 agosto 2013 è stato promulgato il decreto legge noto come “legge anti – femminicidio”. Il termine da desueto è penetrato nel discorso mediale e si è iniziato per la prima volta a rappresentare i moventi dei femminicidi o della violenza grave nei confronti delle donne come questione di un’identità maschile incapace di accettare il rifiuto. Questo è il dato positivo che ho riscontrato nelle cronache giornalistiche e anche nelle rappresentazioni della fiction degli ultimissimi anni. Tuttavia, accanto a queste, ne sussiste una assolutamente fuorviante che continua a usare il frame del delitto passionale e della tendenza mai sopita a colpevolizzare direttamente o indirettamente la vittima, con costruzioni discorsive ormai incancrenite del tipo: “il raptus, la rabbia, uccidere al culmine di un litigio, durante un litigio”. Queste sono forme di distribuzione della responsabilità in cui anche la donna è parte in causa della sua aggressione, perché si litiga sempre in due.

La rappresentazione “fuorviante” della violenza sulle donne è più accentuata sulle reti Rai o Mediaset?

Vi sono state fiction recenti che prendono posizione contro la tendenza a colpevolizzare la vittima, come con le protagoniste di Non uccidere e di L’allieva (entrambe prodotte dalla Rai), che vedono la violenza sulle donne più come prodotto sociale e culturale che come frutto di semplice gelosia. Nei TG ci sono invece ancora delle sacche di resistenza. Non saprei tuttavia fornire una valutazione sulle performance comparative di Rai e Mediaset, anche se, forse, nelle serie TV Rai registro di più la tendenza a stigmatizzare la violenza sulle donne.

Qual è il ruolo della rappresentazione del mondo GLBTQ nei talent show italiani?

Il mio studio, effettuato con Marta Perrotta (The Voice of Queer Italy. The Politics of the Representation of GLBTQ Characters in Italian Talent Shows), contenuto in un’antologia inglese (K. Aveyard et al. (eds), New Patterns in Global Television Formats, Intellect, 2016) verte sul ruolo che un’identità di genere o un orientamento sessuale non normativo hanno nella figura dei concorrenti dei talent show. Questo tratto non normativo addirittura diviene (e questo è il caso più comune) un elemento di marketing della costruzione del personaggio. Tale elemento diventa perciò parte integrante del concorrente inteso come prodotto, e ciò vale per i due talent da noi esaminati, The Voice of Italy e X Factor.

Nel suo contributo a Television Antiheroines, antologia a cura di Milly Buonanno, lei descrive la storia di Nancy Botwin, l’antieroina di Weeds (“Spinelli”, Showtime, 2005 – 2012). Qui l’espediente retorico dell’excusatio, non sembra funzionare. È così anche per altri casi della cultura popolare?

Un’eroina o un’antieroina che vesta i panni di una donna violenta, vuoi perché combattente di mondi fantasy, vuoi perché addirittura criminale, vuoi perché poliziotta, è in forte contraddizione con tutti i valori di cui il femminile sarebbe il nume tutelare. L’excusatio si riferisce a quelle strategie testuali che mitigano la portata destabilizzante della violenza femminile, presentandola come frutto di traumi, violenze, ecc. Nel caso di Nancy Baldwin, spacciatrice di marijuana, essa non funziona, anche se vi sono altre strategie di normalizzazione del personaggio: tuttavia, nella maggior parte dei testi mediali da me analizzati, quando il femminile è violento l’excusatio c’è quasi sempre come forma di compensazione.

Il suo prossimo libro, scritto insieme a Sveva Magaraggia (Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, edito da Il Mulino), dice che ogni forma di violenza ha una natura gendered. Ci potrebbe dire qualcosa in merito?

Il libro nasce dalla constatazione che la violenza dei e nei media è stata studiata moltissimo, ma raramente in relazione al gender. Invece, ogni forma di violenza è gendered, cioè è agita da un soggetto sessuato al maschile, al femminile o in altro modo, ed è diretta contro soggetti sessuati. Persino nei prodotti per l’infanzia come i cartoon (Titti e Silvestro, Tom e Jerry, ecc.), e in una forma di violenza burlesca, gli attori sono animali maschi, con un’implicita legittimazione all’uso della violenza per il maschile. Per quanto concerne altri generi mediali come la pubblicità, essa fa purtroppo abbondantemente ricorso all’immaginario spesso esplicitamente violento, in cui i corpi femminili sono vittime di una violenza erotizzata e spettacolarizzata, addirittura glamour, trasformata in oggetto di contemplazione. La dinamica inversa si trova sempre e solo quando c’è un gioco erotico di natura consensuale. Tutto questo per dire che le rappresentazioni di violenza contengono sempre prescrizione e proscrizioni: prescrivono cioè un certo dover essere che per il maschile include anche l’esercizio di violenza, e proscrivono invece l’uso della violenza per il femminile solo sotto specifiche limitazioni.

MARIA GRAZIA FALÀ