Skip to main content

Paolo Fabbri: “Intervista, spartito musicale che ognuno esegue a modo suo”

“Intervista, spartito musicale che ognuno esegue a modo suo”

Pubblicate da Mimesis una raccolta di interviste fatte al semiologo dal 1998 al 2016

Un’occasione per parlare dell’intervista come teatralizzazione della conversazione, dove nel dialogo tra due si interpone lo spettatore che non è un semplice astante, ma uno che partecipa, stando fuori e guardando. Un libro di interviste, secondo l’autore, con il difetto di non riflettere sullo statuto di queste, ma di farlo al di fuori dell’opera stessa, con un’altra intervista appunto. Inoltre, una buona intervista che per un intervistatore è un po’ come uno spartito musicale che ciascuno esegue a modo proprio. E, infine, il segreto come parte dell’interazione verbale ma anche dell’intervista, in cui spesso emergono cose che si vorrebbero tenere segrete, per cui una smentita è segno che essa è valida. Queste le riflessioni di Paolo Fabbri, docente di Semiotica dell’Arte presso il Master of Arts alla LUISS di Roma, in margine a un suo libro recente, a cura di Gianfranco Marrone, L’efficacia semiotica. Risposte e repliche (Mimesis), che raccoglie varie interviste fattegli dal 1998 al 2016.

Come nasce il suo libro, e quali sue interviste sono state scelte per meglio delineare la sua figura intellettuale?

Non ho una grande passione per la scrittura di trattati, come per esempio Umberto Eco e moltissime altri studiosi. Ciò è dovuto a due ragioni: una, forse è personale, cioè mi interessa più la ricerca che non la divulgazione, mentre quando si costruisce una trattazione ci si deve in qualche misura mettere in un’ottica divulgativa. Se poi mi si chiede qualcosa in proposito, allora sì racconto volentieri, come appunto nelle interviste raccolte qui, dove ho esposto le ricerche che stavo facendo. Si tratta ovviamente di ricerche diverse, perché ci sono interviste molto vecchie, altre recentissime. I tipi di intervista dipendono anche dai periodi e dagli intervistatori: ci sono dei momenti in cui per esempio la semiotica era in auge, e allora le interviste avevano un certo tono, e altre in cui lo era meno, e quindi erano focalizzate su altri punti. Ci sono pertanto interviste un po’ generiche su cos’è la semiotica oggi, qual è la sua attualità o la sua inattualità.

Inoltre, tra le molte interviste che ho dato, le scelte non sono state fatte da me, ma da Gianfranco Marrone, che è l’editore, ed è lui che le ha selezionate in funzione di quello che lui ritiene utile per la ricerca in semiotica oggi, per cui ci sono cose molto diverse.

Un’intervista per parlare di un libro di interviste. Lo ritiene un felice connubio?

Certamente. È chiaro che un semiologo e un linguista non possono praticare l’intervista senza avere un’idea di che cosa sia. Ora, negli anni scorsi si è molto riflettuto sul fatto che il linguaggio è un atto di improvvisazione. Quando noi parliamo, abbiamo dietro di noi una grammatica, un lessico, ecc., ma sempre quando parliamo improvvisiamo. Questo è tanto più improvvisato in quanto la maggior parte dell’uso del linguaggio è conversazionale, nel senso cioè noi nella comunicazione parliamo con qualcuno. Quindi i linguisti hanno cominciato a interessarsi sempre più al fatto che esiste una grammatica della conversazione. Per esempio c’è l’inizio e la chiusa, come quando si parla al telefono e si vorrebbe chiudere si dice “Ciao”, e l’altro dice “Ciao”, altrimenti la conversazione va avanti.

Tuttavia, al di là di questa grammatica della conversazione, resta il fatto fondamentale che le conversazioni sono improvvisate. Nell’improvvisazione vengono fuori cose che magari in quel momento non avevi pensato e che non rispondono esattamente a quello che avevi magari pianificato di dire. Io non credo che ciò sia un difetto, ma una qualità. Certo, alla fine di una conversazione, come capita spesso, c’è quello che i francesi chiamano l’esprit d’escalier, cioè che ti viene in mente dopo la cosa che avresti dovuto dire in quel momento e non hai detto, e questo è vero per tutte le interviste, però è anche vero che quello che non c’è, quello che è venuto fuori e che non doveva venire fuori, molto spesso invece è proprio la cosa interessante. Quindi occorre fare un elogio dell’intervista e dire che, se dovessimo fare un commento a L’efficacia semiotica, direi che quello che manca al libro è il fatto di non aver riflettuto, in esso, raccolta di interviste, abbastanza sull’intervista.

È d’accordo con l’assunto per cui l’intervistatore si rivela capace quando “fa parlare” al meglio l’intervistato e tira fuori da lui delle novità rispetto a quanto si aspettava dicesse?

Senza dubbio sì, ed è per questo che dimentichiamo però che le interviste rispetto alla conversazione che è, diciamo, aperta, sono in parte pianificate, in parte sui contenuti, ma in parte anche nel senso che un buon intervistatore è un programmatore, in qualche modo da Opera aperta, in quanto sa benissimo che forse quello che sarà più interessante non è la risposta che l’intervistato fa alla domanda, ma sarà quella che lui non si aspettava. Questa è la ragione per cui esistono tante smentite, che però, come sappiamo tutti, non sono ascoltate da nessuno. Tutto sommato è un bene, perché prima di tutto una smentita è la negazione di quello che ti ha intervistato, che non è certamente una cosa carina, e soprattutto perché “Voce dal sen fuggita più ritornar non può”.

Quindi credo che c’è una programmazione, ma aperta, come d’altra parte il linguaggio. Una buona intervista per un buon intervistatore è un po’ come uno spartito musicale che ciascuno esegue a modo proprio.

Esistono, poi, delle interviste “chiuse”, quantitative, dove si tratta di rispondere con un sì o con un no…

Ci sono delle interviste come per esempio quelle dei sondaggi di opinione che chiedono di rispondere con un sì o un no, e non sono interviste, ma sondaggi d’opinione. È vero che questi hanno delle forme più praticate, e sono esattamente il contrario delle interviste di cui abbiamo parlato, che sono qualitative.

In ogni caso, nelle interviste la gente racconta bugie. Ciò non è importante in un’intervista aperta, perché l’intervistatore può sempre tornare su e correggere e richiedere, e l’altro può tornare indietro dicendo “Non volevo dire questo”. Tuttavia, nel caso dei sondaggi d’opinione, specie su delle cose che riguardano temi delicati come la sessualità, si raccontano balle in funzione di quello che uno vuole far pensare di sé. In questo frangente oggi gli istituti demoscopici stanno confidando sempre di più in Google, cioè dalle preferenze che uno ha e di cui Google porta delle tracce, come per esempio la visione dei siti porno su Internet. Saltano quindi l’intervista demoscopica e vanno a guardare invece i dati, i Big Data, che la gente ormai lascia come traccia.

Questa è la ragione per cui le interviste quantitative sono il luogo molto spesso delle bugie. Non sono bugie, la gente semplicemente racconta quello che vuole che si pensi di lei.

Esiste la bugia nelle interviste qualitative?

Lì la bugia non c’è, perché ci sono le domande di controllo, cioè un buon intervistatore prima fa una domanda, poi l’altro risponde, poi più tardi fa la stessa domanda per vedere se uno risponde la stessa cosa. L’intervista è un luogo strategico, non è solo uno scambio di parole e di informazioni.

Nei suoi studi emergono temi che direttamente o indirettamente hanno a che fare con l’intervista?

Si tratta delle riflessioni sul segreto, che mi sono sembrate molto interessanti, e un’altra sul camouflage, sul travestimento. Perché mi interessano? Perché noi abbiamo l’abitudine di pensare, e ciò ha a che fare con quanto detto, che il linguaggio trasmetta la verità, cioè io dico una cosa e tu ne dici un’altra, cioè c’è tutta una problematica sul fake, sulle menzogne, ecc.. Il linguaggio non è fatto per quello, è fatto per tantissime altre cose, e una di queste non è dire, ma nascondere. Nel linguaggio noi usiamo molte allusioni, ci sono molti segreti a cui facciamo allusione. Il linguaggio serve anche per conservare dei segreti, basti pensare alle rimozioni. L’altro aspetto è il camouflage, che è un esempio del travestimento. I segni servono anche per travestirsi, non solo per vestirsi: se io posso vestirmi da uomo posso anche camuffarmi da animale o da donna. Quindi ho l’impressione che la semiotica serve anche a studiare forme di segni non diretti, letterali, referenziali, ma cose come i segreti, i travestimenti, i camouflage, di qui la problematica della moda, e così via.

Molto spesso negli interrogatori la gente racconta anche delle bugie, si nasconde, e quindi esiste il problema del segreto. Anche l’intervista è un luogo in cui a volte emergono cose che uno vorrebbe conservare segrete. Per esempio Trump, tutte le volte che gli fanno un’intervista, dice certe cose e poi il giorno dopo fa la smentita, segno che l’intervista era buona.

Si può dire che l’intervista è un particolare tipo di interazione comunicativa? Quali caratteristiche ha rispetto ad altri confronti face – to – face?

È la questione della conversazione, dato che noi tutti conversiamo. Per esempio un tema su cui gli studiosi hanno lavorato molto e che oggi è diventato alla moda è quello degli insulti e della gente che li proferisce. Io ho scritto un articolo su questo, ma ho visto che anche Tullio De Mauro, in un libro che uscirà postumo, dal titolo Parole per ferire, ha scritto sulle parole che fanno del male. Ora, gli insulti sono spesso faccia a faccia, nel senso che certo, si può anche scrivere degli insulti, e oggi su Internet la gente si insulta, ecc., però insomma, diciamo, essi sono una forma estrema di conversazione. Tra l’altro bisognerebbe che parlassimo anche del pettegolezzo, che è fondamentale secondo me, dei rumour, ecc..

In realtà l’intervista non è face – to – face, questo volevo precisare, in quanto sempre mediata dal lettore o dallo spettatore che ne fruisce…

Certo, però è un testo che viene comunicato ad uno spettatore che però non è un semplice astante, ma qualcuno che invece partecipa, non alla conversazione, ma un po’ come a teatro, stando fuori e guardando. Però si potrebbe ricordare che a teatro c’è l’a parte, il momento in cui, mentre i personaggi stanno discutendo, all’improvviso uno dei due si volta e, come se non continuasse a parlare, si rivolge verso il pubblico. In qualche modo l’intervista è una teatralizzazione della conversazione, perché c’è un astante, cioè uno spettatore verso cui certe volte si fanno anche degli a parte. Curiosamente le interviste stanno proliferando. Ci sono delle ragioni a tutto ciò: oggi la gente vuole meno informazioni obiettive, più coinvolgimento soggettivo. Le persone raccontano storie proprie, la loro autobiografia: un numero recente della rivista Il Verri di cui faccio parte è sull’autofiction, cioè sul fatto che la gente si racconta, ha molta voglia di farlo. Evidentemente di questa autofiction fa parte l’idea che la gente non va a leggere per esempio un libro, ma va a sentire colui che l’ha scritto e che racconta come. Di fatto sono così i festival di letteratura: tutti vanno a vedere l’autore che racconta come ha fatto il libro, ma nessuno lo legge.

MARIA GRAZIA FALÀ

Link correlati:

Paolo Fabbri

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *