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Andrea Rabbito: “Lo spirito del tempo, ancora vivo tra immaginario e reale”

“Lo spirito del tempo, ancora vivo tra immaginario e reale”

Per Meltemi la riedizione del libro di Edgar Morin a cura di Andrea Rabbito

La lettura antropologica dei media, i concetti di uomo medio o uomo arcaico, di telepartecipazione mentale, di neoarcaismo, di finestre sul reale, nonché l’attenzione sulla cultura del tempo libero e sullo scambio tra immaginazione e reale. Un equilibrio tra nuovo e dato che veniva, nel ’62, preconizzato come caratteristico della cultura di massa, mentre attualmente, con l’ingresso del digitale, la situazione è parzialmente cambiata. Poi, il linguaggio audiovisivo definito come “involucro polifonico”, che proietta lo spettatore entro una dimensione in cui le linee di demarcazione tra reale e immaginario diventano labili. Inoltre, la microtargetizzazione che sembrerebbe datare l’opera perché parlava di uomo medio, mentre questo concetto va visto nell’ottica di un “anthropos universale” insito nella natura umana, che permette di far presente come viva un rapporto arcaico tra uomo e i prodotti di massa. Infine, Maggio 68. La breccia, testo che dialoga con quello del ’62, in cui sono già presenti molti dei fermenti poi espressi in questo ultimo libro.

Queste, in sintesi, le interpretazioni di Andrea Rabbito, docente di Cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli studi di Enna “Kore”, a proposito dello Spirito del tempo di Edgar Morin, testo ritradotto dal francese e da lui curato per Meltemi.

Lo spirito del tempo esce nel 1962, a ridosso di molte altre opere seminali (tra tutte, Miti d’oggi di Roland Barthes, del 1957, e La galassia Gutenberg, sempre del 1962, e Gli strumenti del comunicare (1964), entrambe di Marshall McLuhan). Quanto ancora rimane vivo?

Quello che rimane vivo ne Lo spirito de tempo è molto; è stato, ed è tuttora, un libro imprescindibile per varie aree scientifiche, ed è per questo che con l’editore abbiamo ritenuto importante pubblicare nuovamente lo studio di Morin, proponendolo in una nuova traduzione, realizzata da Claudio Vinti (professore ordinario di Lingua e traduzione francese – Università di Perugia) e Giada Boschi, aggiungendo diverse parti inedite finora mai tradotte, e allegando un saggio introduttivo di Ruggero Eugeni e un mio saggio alla fine del volume. La nuova traduzione permette di gustare con maggiore fedeltà il complesso linguaggio di Morin offrendo del suo pensiero una lettura più completa, mentre i due saggi sono funzionali a far emergere con chiarezza, al lettore contemporaneo, il contributo che ha dato lo studioso francese alla ricerca. Un contributo che, abbiamo voluto specificare, ha dato molto agli studi sulla fotografia, sul cinema, sulla televisione, riuscendo a intercettare in anticipo anche alcuni specifici fenomeni che i new media realizzano, e precorrendo, inoltre, approcci scientifici attuali quali quelli dei visual culture studies (secondo quanto è stato già messo in luce da Macé nel 2001). Proprio per quest’ultimo motivo abbiamo insistito affinché il volume fosse pubblicato nella collana “Estetica e culture visuali” della Meltemi, e non in quella più, apparentemente, consona di sociologia. È lo stesso Morin ha dichiarare che il suo volume è stato posto “nell’«inferno» della sociologia”, mentre è stato molto apprezzato e ha avuto il suo sviluppo all’interno degli studi più propriamente dedicati all’immagine. In particolar modo, il suo metodo e il contenuto sono stati considerati, nell’ambito degli studi sul visuale, di grande innovazione e precursori di modalità di ricerca e di analisi di tematiche più attuali. Più precisamente, il suo metodo, proposto in quella che possiamo considerare una tetralogia sulle nuove immagini (Il cinema o l’uomo immaginario, Lo spirito del tempo, I divi, Lo spirito del tempo 2) diventerà non solo base per lo sviluppo del suo Metodo su cui si focalizzerà nei sui 6 tomi a partire da 1977 (Morin stesso, nella sua prefazione del 2006 a Lo spirito del tempo, scrive che già per la stesura di questo volume praticava ciò che in seguito chiamerà la “conoscenza complessa”), ma sarà anche punto di riferimento per un approccio che intende ibridare vari campi scientifici (antropologia, sociologia, mediologia, filosofia, estetica, psicologia, film studies, studi letterari, storia dell’arte, scienze cognitive) al fine di entrare più in profondità nella questione complessa delle immagini e sugli effetti che queste determinano nella nostra vita. Una lezione, quella di uscire fuori dai territori di ricerca più consolidati, che se da un lato non è sempre stata vista positivamente dalla comunità scientifica, facendo storcere il naso ad alcuni studiosi, dall’altro lato ha permesso a Morin di tracciare con largo anticipo inedite tendenze e individuare nuovi argomenti di ricerca, secondo quanto espresso, ad esempio, nel panorama italiano, da Eco, Casetti e Ortoleva.

Tra gli aspetti e le questioni più rilevanti, presenti ne Lo spirito del tempo, e tuttora vivi e pulsanti nella nostra dimensione post-mediale (attentamente analizzata da Eugeni), possiamo individuare nello specifico la sua lettura antropologica dei media e i concetti di uomo medio o uomo fanciullo o, ancora meglio, uomo arcaico, di telepartecipazione mentale (che anticipa quella “quasi-interazione mediata” studiata da Thompson), di neo-arcaismo (che viene, ad esempio, riproposta, da Debray e dagli studi sull’archeologia dei media), di frattura, di finestre sul reale (che sembrano prevedere quel fenomeno di rilocazione e ipertopia, teorizzati da Casetti, e di rimediazione, espresso da Bolter e Grusin), e ovviamente la sua importante attenzione posta sulla cultura del tempo libero e sullo scambio tra immaginario e reale.

Nella produzione della cultura di massa c’è un equilibrio precario tra novità e conformismo, cosa che spinge i suoi creatori a una forte insoddisfazione. Quanto espresso da Morin negli anni Sessanta è valido ancora oggi?

Sì e no. Ovvero: quanto espresso da Morin, riguardo a questo rapporto esistente tra novità e conformismo, non può che risultare tuttora presente all’interno della dimensione della grande industria culturale attuale, la quale accetta la scommessa del nuovo a patto di non creare una frattura profonda nel suo impianto classico. La standardizzazione garantisce una sicurezza economica, ma nello tempo necessita di muoversi in maniera graduale e non traumatica verso l’offerta di qualcosa originale per non perdere l’attenzione del pubblico, continuando a stimolarlo con la novità. È percorso da sapiente equilibrista che deve saper dosare, bilanciare, con acutezza, l’esistente con il nuovo, in quanto, come osserva Morin, “il già noto rischia di stancare e il nuovo di non piacere”. E a riguardo Morin si sofferma su casi noti, come quelli di Welles e Faulkner. Ma nello stesso tempo, sempre Morin, focalizza la sua attenzione verso casi particolari come quelli offerti dalla produzione artistica della Nouvelle Vague, che segnano una attenta rottura con questo sistema dell’industria culturale, in quanto, sempre citando quanto espresso ne Lo spirito del tempo, hanno dato vita ad “un regresso della standardizzazione”, allo stesso modo di opere come quelle di Ėjzenštejn, (Morin cita Aleksandr Nevskij), opere che riescono a giocare con le faglie del grande sistema industriale e statale. Sono opere che si offrono, secondo quanto scrive Morin, come “antidoti”, che intendono problematizzare (riprendendo quanto espresso da Morin in un convegno all’Università di Torino del 2011, organizzato da Simonigh, un concetto che ho analizzato in un mio volume, Il cinema è sogno) la questione “cinema” e la sua tendenza alla “semplificazione” e “standardizzazione”.

È vero però, dall’altro lato, che l’ingresso del digitale e del web 2.0, che determinano un radicale abbassamento dei costi di realizzazione e un’ampia vetrina tra il pubblico di internet, hanno permesso qualcosa che Morin nel 1962 non poteva prevedere: ovvero un affrancamento dalle rigide regole del sistema produttivo, che ha permesso a molti autori di poter sperimentare con molta più facilità e a poter raggiugere lo stesso una propria visibilità ottenendo un rapporto con un pubblico selezionato.

Internet e il digitale possono così essere considerati strumenti funzionali all’antidoto e alla problematizzazione di cui tratta Morin. Ma è anche vero che il fenomeno di standardizzazione persiste, purtroppo, in moltissimi prodotti presenti nella rete, come è stato ben evidenziato da Carr, mostrando come la participatory culture, analizzata ad esempio da Jenkins, non sempre si muove verso un miglioramento della qualità della produzione e dei gusti del pubblico.

L’immagine è ciò che Morin ritiene fondamentale nella società di massa. Ce ne potrebbe parlare?

L’immagine per Morin assume un ruolo centrale in tutto il suo volume, in quanto è quella che permette una maggiore partecipazione dello spettatore attraverso una sua più istintiva e immediata identificazione e proiezione con ciò che vede. Ed in particolare Morin si sofferma proprio sul linguaggio audiovisivo, quello che definisce un “involucro polifonico”, che, con maggiore resa rispetto agli altri linguaggi, sommerge e proietta lo spettatore all’interno di una dimensione in cui le linee di demarcazione tra reale e immaginario diventano labili, portandolo in una condizione simil-ipnotica, come afferma nella prefazione del 2006, per giungere a far prevalere quel lato fanciullesco proprio dell’uomo immaginario, quella sua componente più arcaica e magica (quella che, dal Paradigma perduto, Morin scriverà essere il carattere connotante la natura del demens, insita nel homo sapiens). Proprio per questo Morin scrive che con le immagini audiovisive, che ripropongono “l’universo arcaico dei doppi”, si stabilisce, con più forza rispetto agli altri linguaggi, un “rapporto estetico”, che va inteso come un rapporto che richiama gli stessi processi psicologici insiti nella magia e nella religione, e che permette di far percepire l’immaginario come “più reale del reale”. Una riflessione, questa, che permette a Morin di portare avanti e sviluppare maggiormente quanto aveva già proposto nel precedente Il cinema o l’uomo immaginario, evidenziando come il rapporto magico-religioso, che le immagini, in particolare quelle nuove, mettono in atto, sia un fenomeno del tutto inedito, quello cioè del “neoarcaismo”, che, però, nello stesso tempo, ripropone dinamiche ataviche, arcaiche, per l’appunto, già presenti nel confronto tra la rappresentazione e il primo homo sapiens.

Quanto risulta ormai datato in Lo spirito del tempo? Per esempio, la microtargetizzazione attuale va contro l’uomo standard, medio, di cui parlava il sociologo francese…

Anche in questo caso, vanno soppesati gli aspetti di grande lungimiranza e profondità presenti nel testo di Morin, con quelli che inevitabilmente devono scontrarsi con le innovazioni che l’epoca postmediale mette in campo, per giungere alla conclusione che la definizione di “datato” poco si addice a quanto espresso da Morin. Lo abbiamo appena visto riguardo al suo pensiero in merito alla negoziazione tra novità e conformismo proposta dall’industria culturale. Persiste, infatti, una validità profonda in quanto Morin esprime, che permette a molte sue riflessioni di essere fruibili e adattabili anche nell’analisi di fenomeni più contemporanei, sebbene quest’ultimi offrano anche delle situazioni che aggiungono tasselli inediti non contemplati da Morin.

Riguardo l’uomo medio, ad esempio, ha ragione da un lato Lei quando mette in luce l’aspetto della microtargettizzazione, però se si pensa a come lo concettualizza Morin e a come lo descrive, si scopre la profonda attualità di questo concetto. Per Morin infatti, l’uomo medio è, come lui scrive, un “anthropos universale” insito nella natura umana, che permette di far presente come viva un rapporto arcaico tra uomo e i prodotti di massa.

Un rapporto che permette allo spettatore di entrare dentro l’immagine, di viverla e di farla vivere, attraverso le sue emozioni e il suo pensiero, stabilendo una tele-partecipazione con la realtà rappresentata, che per magia diviene presentata e presente ai suoi occhi e al suo corpo, come hanno messo ben in evidenzia attualmente gli studi di neuroscienza, vedi ad esempio nel panorama italiano, quelli di Ruggeri-D’Aloia, di Gallese-Guerra e, più recentemente di Carocci.

Quanto ha contato il maggio francese per una revisione di quanto affermato da Morin nel 1962? E quanto rimane viva la lezione di un altro suo libro, Maggio 68. La breccia, del 1988?

Parto dalla sua ultima domanda. La complessità del pensiero di Morin e la sua caratteristica di innovarsi continuamente e trovare sempre nuove aree di studio da analizzare, impone a chi si avvicina ai suoi volumi di tener sempre conto di tutta la sua produzione (è quello che cerco di fare nell’ultima parte del mio saggio), la quale è composta da studi che dialogano fra loro, che creano una rete, mostrando una continuità, una persistenza, una costanza nell’indagine e nel metodo che si rafforzano e ravvivano ad ogni suo volume. Per questo motivo è giusto, come Lei fa, interrogarsi sui legami tra la sua tetralogia sull’immagine nuova e con, ad esempio, Maggio 68. Penso che il pensiero e l’atteggiamento presenti in quest’ultimo libro, animino anche Lo spirito del tempo, e in generale tutta la sua produzione, proprio perché Morin esula da una questione di cultura alta e cultura bassa, mostra un felice apprezzamento verso le varie forme che caratterizzano la cultura di massa, ma nello stesso tempo, da questa posizione, assume anche un atteggiamento critico verso la società delle immagini e dello spettacolo; si pone, infatti, il fine di trovare delle strategie per contrastare alcuni fenomeni, quali il bovarismo, l’impoverimento delle comunicazioni tra uomini, lo spostamento verso una sempre maggiore partecipazione mentale e voyeuristica con il fattuale, e la “conversione ipnotica” della vita. E sono proprio queste strategie e problematiche ad essere portate avanti, ad esempio, da Debord, e sono proprio queste che hanno animato lo spirito del 68, e che possiamo anche rintracciare nell’ultima produzione di Morin.  Ed è per questo che rispondo alla sua prima domanda dicendo che, non solo, molte delle questioni del maggio francese erano già insite nel pensiero di Morin espresso ne Lo spirito del tempo, ma aggiungo, anche, che molte analisi presenti in questo volume si dimostrano strumenti ancora validi per la lettura e comprensione dei fenomeni messi in atto dall’attuale “diluvio di immagini”.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Andrea Rabbito