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Giacomo Manzoli: “Film di stato autoreferenziali? Qualche volta sì”

“Film di stato autoreferenziali? Qualche volta sì”

Presentato alla “Sapienza” di Roma un libro a cura di Marco Cucco e Giacomo Manzoli sul finanziamento pubblico del cinema italiano

Giacomo Manzoli

Un’occasione per discutere sulla nuova legge sul cinema, proposta dal ministro del MiBACT Franceschini, che introduce numerose innovazioni nel settore. Una riforma che intende ovviare al circolo vizioso creatosi, nonostante le buone intenzioni, in seguito al cosiddetto “decreto Urbani” del 2004. Di questo si è parlato il 17 ottobre scorso alla Sapienza di Roma in occasione della presentazione del libro, curato da Marco Cucco e Giacomo Manzoli, Il cinema di Stato. Finanziamento pubblico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo, uscito recentemente per Il Mulino.

Il volume, curato da Marco Cucco, docente di Economia del cinema nell’Università della Svizzera italiana, e da Giacomo Manzoli, che insegna Storia del cinema italiano nell’Università di Bologna, è uno state of the art del finanziamento pubblico al cinema italiano dal 2000 al 2015. Tra i saggi, uno di Manzoli e Andrea Minuz, una content analysis, ovvero un’analisi statistica di un campione di cento film italiani prodotti dal 2005 al 2015/2016. Giacomo Manzoli illustra i tratti salienti di questo contributo anticipando per sommi capi anche la riforma Franceschini.

Cos’è emerso nel corso della presentazione del libro?

Essa ha avuto luogo il 17 ottobre scorso alla Sapienza di Roma con alcuni operatori del settore tra cui Nicola Borrelli, Direttore Generale per il Cinema del MiBACT (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo), con il quale abbiamo dialogato assieme anche a uno degli autori del volume, Andrea Minuz, a Federica D’Urso, responsabile del Centro Studi dello stesso MiBACT, e ad altri. Borrelli ha ricordato gli obiettivi strutturali della nuova riforma, quella dell’attuale ministro del MiBACT, Dario Franceschini, ora in attesa della stesura dei decreti attuativi.

Quali sono i tratti più significativi di tale legge del 2016?

Essi consistono nel tentativo di migliorare la situazione del cinema italiano ragionando sull’intero comparto audiovisivo, considerando il cinema parte di questo sistema. Alcuni aspetti sono molto interessanti: uno, quello della formazione, cioè dell’ormai mitico ingresso del cinema nella scuola. Poi, per la prima volta, la legge individua un budget calcolato sulla percentuale rispetto ai biglietti venduti, e questo è importante perché la creazione di un pubblico è uno degli elementi fondamentali per fare cinema. L’altro aspetto riguarda la regolamentazione del ruolo delle TV con una normativa più stringente che nelle ultime settimane è stata anche oggetto di dure polemiche. Si prevede cioè un aumento della quota di investimento nel cinema italiano che i broadcaster nazionali, cioè le televisioni, in primis la Rai, ma anche le reti private compresi Sky, Netflix, ecc., devono realizzare. Sempre i broadcaster nazionali devono garantire una programmazione continuativa dei film italiani da loro prodotti secondo percentuali del loro palinsesto. Questa è un’innovazione: anche se esistevano già le quote, tutti tendevano a evaderle, programmando tali film in tarda serata, quando la possibilità di intercettare il pubblico è limitata. Adesso invece sono previste anche delle quote in prima e seconda serata, e ciò è stato oggetto di polemiche perché soprattutto le TV private lo vedono come un’interferenza sulla loro programmazione. Un po’ è vero, ma questo si inscrive in una situazione in cui esse godono anche di finanziamenti pubblici o di agevolazioni molto forti, e quindi è un do ut des di cui non ci si può lamentare. Rispetto alla Rai mi sembra che sia una cosa positiva, in quanto essa è il primo produttore di film italiani che però tendenzialmente non mandava in onda sulle sue reti: adesso questa nuova situazione la chiama alle sue responsabilità.

In cosa si discosta il modello produttivo cinematografico statunitense da quello italiano?

Quello USA è completamente basato sul rischio d’impresa, cioè sui capitali privati dei produttori stessi, mentre quello italiano, con il finanziamento statale, lo ha quasi cancellato.

Quali sono le linee portanti del finanziamento pubblico al cinema italiano a partire dal “decreto Urbani” del 2004?

Il cosiddetto “decreto Urbani”, varato dall’allora ministro dei Beni Culturali Giuliano Urbani del secondo governo Berlusconi, era stato un’innovazione importante. Esso infatti introduceva una novità: in Italia il finanziamento pubblico esiste dagli anni venti del ‘900. Quello a fondo perduto, cioè senza il rientro dei capitali investiti, è stato introdotto da Mussolini durante il ventennio e poi è stato reiterato anche nel dopoguerra, basato sul cosiddetto “interesse culturale”, cioè sul finanziamento di film che hanno un valore culturale particolare e che rischierebbero di essere esclusi dal mercato. Col “decreto Urbani” si stabiliva che questo elemento dovesse essere contemperato con lo sviluppo industriale del settore, in vista di un sostegno a tale settore nel suo complesso. Esso cercava di attenuare uno dei paradossi dell’”interesse culturale”, cioè che un film, pur culturalmente validissimo, se non è visto da nessuno in realtà non lo è. Per un po’ il decreto Urbani ha anche funzionato, favorendo l’emergere di figure autoriali importanti come Sorrentino, Garrone e altri poi, piano piano, è andato annacquandosi, e negli ultimi anni, stando anche ai risultati del 2017, le cose davvero non stavano funzionando, per cui si è deciso di intervenire con una nuova legge, quella Franceschini appunto.

Quali sono i principali risultati della sua, per così dire, content analysis di cento film italiani prodotti grazie al finanziamento pubblico?

Questo studio, condotto con Andrea Minuz, docente di Storia del cinema alla Sapienza di Roma, consiste in un’analisi comparata stilistica e contenutistica su circa cento film finanziati dallo Stato prodotti dal 2005, dopo l’entrata in vigore della legge Urbani, al 2015, dieci per anno, circa un terzo del corpus complessivo. Abbiamo scelto questo campione fra i film più rappresentativi perché hanno incassato di più, hanno ottenuto premi ai festival, o per altri riconoscimenti. Li abbiamo analizzati in base a una serie di parametri relativi allo stile e al contenuto tracciando anche una sorta di anagrafica, cioè individuando i loro personaggi, da dove vengono, a che classe sociale appartengono, che lavori fanno, ecc.. Ne è risultata una forte uniformità, sia sul piano contenutistico che stilistico, mentre una delle ragioni dell’interesse culturale dovrebbe essere la promozione della differenza, al contrario del mercato che va verso un pubblico di massa e quindi tende a privilegiare temi di largo consumo. Per esempio di questi cento film quasi il 40% è ambientato a Roma o in zone limitrofe, mentre l’Italia è un paese di 60 milioni di abitanti, con situazioni varie e diversificate. Inoltre i film interpretati da extracomunitari sono molto pochi, e in genere i personaggi non di origine italiana o non comunque occidentale sono pochissimi, e normalmente i ruoli attribuiti a chi proviene da altre culture sono ruoli stereotipati. L’età dei personaggi è abbastanza uniforme, dai trent’anni in su, la loro professione lo è lo stesso, e alcune come quella dell’artista, dell’insegnante o dell’intellettuale predominano. Anche sotto il profilo stilistico prevale un certo tipo di ritmo, di formalismo abbastanza lento, prezioso dal punto di vista visuale, ma tutto sommato anche lì non attento alla sperimentazione.

Dall’analisi quantitativa di questi cento film emerge un destinatario modello, un produttore modello e un autore modello?

Questo è un finanziamento che ha incoraggiato un cinema medio d’autore con figure autoriali abbastanza riconoscibili anche sotto il profilo stilistico e che si rivolge a un tipo di pubblico dai trent’anni in su, che è italiano da generazioni, che ha una scolarizzazione molto marcata per un 26%, media o medio – alta per un 65%, bassa solo per un 9%. Il destinatario ideale di tali film è quello che una volta si chiamava il ceto medio riflessivo, mentre, per quanto riguarda i produttori, si è andati verso il gusto medio delle commissioni ministeriali o dei responsabili di Rai Cinema preposti alla selezione.

Per ciò che concerne il profilo autoriale, permane una forte disparità di genere, dal momento che, su cento registi, solo tredici sono donne.

Un pubblico non di massa…

No: invece, per esempio, il grande successo di Checco Zalone, che non a caso interpreta film realizzati senza finanziamenti pubblici, deriva anche dalla sua capacità di coinvolgere un pubblico composito, sia istruito che di massa.

 

MARIA GRAZIA FALÀ

 

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