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Gabriele Balbi e Paolo Magaudda: “Fallimenti digitali, per un’archeologia dei nuovi media”

“Fallimenti digitali, per un’archeologia dei nuovi media”

Non sempre nell’evoluzione mediale vince il migliore

Gabriele Balbi

“Guardando ai media come tecnologie, possiamo anche comprendere quali sono gli strumenti che hanno funzionato e quali, invece, sono stati dei fallimenti.”

“Se l’evoluzione darwiniana ci dice che la specie che resta è quella che si adatta meglio, per quanto riguarda i media le cose sono molto più complesse.”

“La definizione di “archeologia dei media” rimanda ad un recente e specifico campo dello studio sociale dei media che pone l’accento sulla riscoperta di aspetti trascurati dell’evoluzione mediale. Noi abbiamo in qualche modo “stirato” e ampliato questo concetto, focalizzandoci sulla storia dei media digitali, dei “nuovi” media.”

“Il fallimento, così come il successo, è per noi transitorio perché può sempre trasformarsi in un successo. Ma a volte i fallimenti possono essere produttivi, cioè generare altre idee, magari distanti da quella originaria; oppure possono essere talmente clamorosi da bloccare il sistema all’interno di un paradigma.”

Con queste parole Paolo Magaudda, ricercatore in sociologia all’Università di Padova e Gabriele Balbi, docente in media studies presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università della Svizzera italiana, illustrano Fallimenti digitali. Un’archeologia dei ‘nuovi’ media, da loro curato ed edito da UNICOPLI.

Il libro da voi curato si incentra intorno a tre diversi modi di concepire il progresso non lineare dei media digitali, primo tra tutti gli studi sociali su scienza e tecnologia.

Infatti è così. Mentre per molto tempo si è discusso dei media pensando soprattutto ai loro contenuti – per esempio a quali tipi di

Paolo Magaudda

trasmissioni televisive vengono trasmesse o quali rappresentazioni sociali vengono proposte dai media – l’approccio degli studi sociali sulla scienza e la tecnologia ci aiuta a comprendere meglio il ruolo dei mezzi, degli strumenti, dei dispositivi, nel dare forma al panorama mediale. Così, guardando ai media come tecnologie, possiamo anche comprendere quali sono gli strumenti che hanno funzionato e quali invece, come nel caso del nostro libro, sono stati dei fallimenti.

Secondo punto che avete trattato, il modo non lineare e non darwiniano nel processo delle evoluzioni mediali…

Esatto. Guardare allo sviluppo dei media in modo non lineare significa abbandonare l’idea che gli strumenti della comunicazione si evolvano sempre verso il meglio, che diventino sempre più funzionali, e soprattutto, che rispondano in modo più utile ai bisogni delle persone. Lo vediamo oggi con lo scetticismo che circonda l’uso dei social media: sempre più spesso pensiamo che non siano i social media a rispondere meglio ai nostri bisogni di socialità, ma che, al contrario, la nostra vita sia diventata prigioniera e dipendente dalle logiche imposte da piattaforme come Facebook, Instagram o WhatsApp. Insomma, se l’evoluzione darwiniana ci dice che la specie che resta è quella che si adatta meglio, per quanto riguarda i media le cose sono molto più complesse.

Terzo aspetto, l’archeologia dei media: come si può definire, e come si discosta l’archeologia dei media tout court da quella dei “nuovi” media?

La definizione di “archeologia dei media” rimanda ad un recente e specifico campo dello studio sociale dei media che pone l’accento sulla riscoperta di aspetti trascurati dell’evoluzione mediale, in grado di rivelarci qualcosa di interessante anche su cosa succede oggigiorno: è il caso degli usi abbandonati di tecnologie come il grammofono o la radio ad inizio novecento. Noi abbiamo in qualche modo “stirato” e ampliato questo concetto, focalizzandoci non sulla storia di media “antichi”, come per esempio il grammofono, ma sulla storia dei media digitali, dei “nuovi” media, con la loro traiettoria più recente, ma anche per questo più controversa.

Voi avete definito quattro tesi eclettiche sul fallimento digitale. Tra queste, la prima è la transitorietà del fallimento, cioè la possibilità che un fallimento si traduca in un successivo per vari motivi, tra cui mutamenti sociali o anche il cosiddetto oblio del fallimento, per cui idee fallimentari vengono riproposte sul mercato. Ci potreste fare qualche storia di caso basandovi sull’esperienza della televisione?

Il fallimento, così come il successo, è per noi transitorio perché può sempre trasformarsi in un successo. Se consideriamo la televisione possiamo fare almeno due casi interessanti. Il primo è quello della televisione in movimento, un’idea che nasce già nel secondo dopoguerra (e quindi un paradigma che convive con la “classica” visione stanziale della televisione in salotto o più in generale in casa). Nel corso del tempo, ci sono state varie aziende che hanno proposto televisori mobili, ma il mercato è rimasto nella maggior parte dei paesi sostanzialmente di nicchia per svariati decenni – una sorta di fallimento. L’idea di fruire la televisione al di fuori delle mura domestiche, però, non è mai morta ed è anzi riemersa in maniera prepotente negli ultimi anni con la mobile TV o la TV guardata su tablet e smartphone. Un’idea analogica, insomma, è riemersa nell’universo digitale. Un secondo esempio è oggetto del capitolo che Giuseppe Richeri ha scritto per il nostro libro sulla televisione analogica in HD. In questo capitolo si mette infatti in luce come un fallimento possa essere letto sotto molteplici forme: per esempio, la TV HD analogica è anche morta a causa del cambio di paradigma digitale e della conseguente scelta di puntare sulla nuova tecnologia. Anche questo può essere descritto come un fallimento “digitale” semplicemente perché la presenza del digitale ha favorito la sconfitta dell’HD analogico. Richeri lo definisce come un caso di fallimento “esterno” in cui l’idea dell’alta definizione, ancora una volta, sarebbe rinata successivamente. In sostanza, la storia dei media ci permette di descrivere come i fallimenti siano sempre transitori.

Analogamente, esiste, come tesi, quella sulla transitorietà del successo. Ci sono studi di caso in tal senso? Come ha agito per esempio Netflix?

Il successo può trasformarsi al tempo stesso in fallimento. Non c’è dubbio, per esempio, che negli anni ’90 e inizio anni 2000 Blockbuster sia stata una catena di grande successo nell’affitto di VHS e poi DvD. Anche Netflix era partita con lo stesso modello di business: affittare DvD in rete spedendoli e poi facendoseli riconsegnare via posta. Questo modello, che appunto è stato per lungo tempo di successo, è di fatto collassato (tanto che Blockbuster è fallita) con l’introduzione di un modello “alternativo” di visione: lo streaming. Netflix ha capito con largo anticipo questo cambiamento di prospettiva e oggi è uno dei servizi di visione di contenuti “televisivi” più di successo al mondo. La grande intuizione, in questo caso, è stata quella di immaginarsi un diverso modello di distribuzione dei contenuti: l’utente paga un abbonamento mensile per fruire su smartTV o su altri supporti un portafoglio di contenuti piuttosto ampio. Senza muoversi da casa. Naturalmente questo modello di visione on demand e con contenuti specializzati (alcuni dei quali prodotti dallo stesso Netflix come certe serie TV ormai di culto), sta cambiando anche il modo di intendere e fruire la classica televisione lineare. Netflix, insomma, parte da un modello che a breve si sarebbe rivelato fallimentare (l’affitto di DvD fisici) per approdare a un modello vincente (lo streaming in abbonamento di contenuti esclusivi).

Cosa si intende (terza tesi) per produttività del fallimento? Si può applicare questo concetto allo sviluppo della televisione?

A volte i fallimenti possono essere produttivi, cioè generare altre idee, magari distanti da quella originaria; oppure possono essere talmente clamorosi da bloccare il sistema all’interno di un paradigma. Se pensiamo allo scambio di contenuti audiovisivi in rete (e quindi in senso largo anche alla televisione), in un altro capitolo del nostro libro Simone Arcagni ricorda come il modello di scambio peer-to-peer di contenuti alla Napster sia stato un fallimento nel breve termine: venne infatti chiuso pochi mesi dopo la sua creazione. D’altra parte il caso Napster è stato a tal punto simbolico e noto da generare un modello alternativo che si sarebbe affermato successivamente: invece del possesso di contenuti, la loro condivisione attraverso uno scambio tra pari (peer-to-peer appunto). Conclude nel libro lo stesso Simone Arcagni a pagina 171: “Il caso Napster – così come il successivo caso giuridico Megaupload e Megavideo – seppure si sia risolto con una sconfitta e un fallimento, ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica non solo filosofie e ideali commerciali differenti, ma anche pratiche e strategie di cui lo stesso mercato ha dovuto tenere conto”. Ecco quindi che un fallimento può essere produttivo e generare nuove idee e visioni.

Infine, quarta tesi, la spiegabilità del fallimento. Il progetto Socrate della Telecom Italia, che influì anche sul fallimento della nascita della TV via cavo nel nostro paese, può essere spiegato in quest’ottica?

Il progetto Socrate, cui Paolo Bory dedica un capitolo all’interno di Fallimenti digitali, è un piano che l’allora monopolista SIP (poi Telecom Italia) aveva previsto per cablare il paese con la fibra ottica – la cosiddetta banda larga che di fatto ancora oggi non è uniformemente sviluppata in Italia. Questo avrebbe garantito un trasporto ad alta velocità di dati (quella che poi si sarebbe chiamata internet), ma l’idea originaria fu più quella che dovesse servire per trasportare programmi televisivi via cavo, in particolare favorendo lo sviluppo della televisione interattiva. Questa idea, finanziata da Telecom Italia con una cifra equivalente agli odierni 7 miliardi di euro, fallì per diverse ragioni: tra le altre, la difficoltà di accordarsi con le varie amministrazioni locali per l’impianto e l’interramento dei cavi, un modello verticale di rete che ben si congegnava alla TV ma male ai nuovi modelli di rete e, infine, l’assetto del mercato televisivo italiano, in cui i due grandi competitor RAI-Mediaset non avevano interesse verso il cavo. Ciò non vuol dire che occorre guardare al progetto di Telecom Italia col senno di poi, scorgendone solo le deficienze e il destino inevitabilmente segnato. Al contrario, una buona teoria del fallimento deve a nostro avviso saper spiegare le ragioni che spinsero a intraprendere quel percorso poi rivelatosi fallimentare. Prevedere anche in Italia una “strada ferrata” dell’informazione – come venne definita all’epoca dei vertici Telecom – era un’idea tutt’altro che stupida o fallimentare. Ma poi, per alcune delle contingenze descritte, non è andata a buon fine. Ancora una volta, come già ricordato, il fallimento va spiegato e visto anche nella sua dimensione generativa.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Paolo  Magaudda

Fallimenti digitali