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Tito Vagni: “Fabrizio Corona, Mefistofele contemporaneo che non si pente delle sue colpe”

“Fabrizio Corona, Mefistofele contemporaneo che non si pente delle sue colpe”

Per FrancoAngeli “Abitare la TV”, libro dedicato ai reality e a questa figura della società delle apparenze

Primo focus notiziabile di Abitare la TV. Teorie, immaginari, reality show, edito nel 2017 da FrancoAngeli e scritto da Tito Vagni, docente di Sociologia dei media allo ILUM di Milano, è Fabrizio Corona. Paparazzo e millantatore, già in galera, di nuovo alla ribalta delle cronache per la sua love story con Asia Argento, riscuote credito presso le giovani generazioni in quanto “riesce a scorgere e a sfruttare la disperazione sul volto di un’intera generazione che brama un successo che non riesce a raggiungere seguendo le strade istituzionali.” Mefistofele contemporaneo che non si pente delle sue colpe, può essere accostato a Carlos Herrera, un personaggio della Commédie Humaine di Balzac, cosa che fa affondare le origini della società delle apparenze non all’odierna società dei consumi, ma già al farsi delle metropoli moderne, nel XIX secolo.

Ma Abitare la TV, libro imperniato sui reality, non è solo questo: per esempio si parla degli studiosi italiani che, negli anni ’50 e ’60, si sono occupati a livello teorico di televisione (e qui non si allude solo a Eco). Si citano poi i prodromi del reality show individuati nel drive – in e nei silent movies di Andy Warhol in quanto visione distratta di un’immagine in movimento. Si verifica la differenza tra le star del cinema e quelle televisive, individuando specifiche tipologie come quelle dei tronisti di Uomini & Donne o degli amatori di Amici e XFactor. Infine, si “polemizza” con chi considera come generato dal basso solo il Contenuto Generato dagli Utenti tipico dei social, mentre per Vagni i new media sono solo il momento terminale della “presa della parola” della gente comune che ha i suoi prodromi già nel ‘700 con Goethe, che nel romanzo La vocazione teatrale di Wilhelm Meister ha raccontato la figura del dilettante.

Lei mette al centro della sua riflessione “alcuni momenti che rappresentano la “pre – e la post – storia” del reality show, inteso come il momento in cui culminano i presupposti e le speranze della comunicazione televisiva.” Potrebbe chiarirci questo aspetto?

Per quanto mi riguarda, il concetto benjaminiano di “pre – e post-storia” è sia una chiave di lettura per comprendere la storia e i fenomeni sociali sia un disegno metodologico di ricerca di straordinaria precisione. Ho provato a fare mio questo modo di riflettere e analizzare i fenomeni culturali fissando lo sguardo sui reality show dei primi anni Duemila e ricercando la loro gemmazione culturale nelle mode e nei consumi della vita metropolitana dell’Ottocento, e, allo stesso tempo, individuando i suoi sviluppi più attuali nei riflessi dei social network. Benjamin chiamerebbe questa ricostruzione non lineare, basata sullo sguardo del ricercatore, una “costellazione”. McLuhan, in Understandig Media, la definisce una configurazione, con la quale si compie una “transizione dalle connessioni lineari alle configurazioni”.

Il reality è quindi per me il punto di arrivo di una cultura basata sulla primazia dello sguardo, delle apparenze e dell’opinione nata con la metropoli moderna, ed è in egual misura – come scrive Alberto Abruzzese nell’introduzione al mio libro – il portale di accesso alle nuove pratiche negli ambienti digitali come Facebook o Instagram.

Perché il primo capitolo del suo libro è dedicato agli studiosi italiani che negli anni ’50 – ’60 si sono occupati di televisione?

Il primo capitolo è stato scritto dopo un lungo lavoro di recupero di una bibliografia italiana oramai poco utilizzata, a cui mi sono interessato primariamente perché credo che valga la pena dedicarsi a letture intelligenti piuttosto che a novità che rincorrono il presente più estremo senza dire molto, e poi perché mi interessava capire se nelle origini del linguaggio televisivo si potessero rintracciare i prodromi dell’avvento del reality show.

È stato un percorso molto utile perché quegli studiosi stavano vivendo un momento di passaggio dall’era del cinema a quella della televisione e, come ogni transizione, stavano provando a capire con una grande profondità di ragionamento – e con il supporto fondamentale di istituzioni come la RAI – in quale direzione si stesse andando. In questo senso, il dibattito sullo “specifico televisivo” – che all’epoca rappresentava un tema centrale – era rivelatore di una comprensione profonda dei funzionamenti dell’industria culturale e dei fenomeni di rimediazione di cui tanto si è parlato e si parla oggi. Peraltro, nel libro, propongo di definire questi studiosi – Guido Guarda, Renato May, Stefano D’Oglio, Angelo D’Alessandro, Umberto Eco – una vera e propria “Scuola italiana” di studi sulla televisione, molto influenzata dalle ricerche francesi sul cinema, ma sicuramente all’avanguardia nel panorama scientifico internazionale.

La visione distratta di un’immagine in movimento quale quella cinematografica ha dei prodromi nei silent movies di Andy Warhol e nella nascita dei drive – in…

In un passaggio bellissimo della Dialettica dell’Illuminismo, Adorno e Horkeheimer spiegano che il cinema ha una particolare logica formale che impedisce allo spettatore di distrarsi. Il cinema è tecnicamente una successione di immagini statiche che, proiettate con un ritmo rapidissimo, vengono percepite dallo spettatore come un’immagine in movimento. Per comprendere l’ultimo fotogramma e seguire il filo della narrazione, occorre aver visto il frame immediatamente precedente. Per tale ragione il regime scopico del cinema stabilisce con il pubblico un rapporto totalitario, di dipendenza: il pubblico in sala è irrigidito nel suo ruolo di ricevente.

A me pare, al contrario, che la televisione funzioni fin da subito in modo completamente differente, instaurando un regime di distrazione permanente. La fruizione del film nella sala cinematografica è vincolata ad un rigido codice di comportamento, necessario per creare le giuste condizioni di fruizione. La fruizione televisiva avviene, invece, in un luogo domestico, dove per prima cosa il pubblico si appropria dello schermo. Lo può usare senza rispettare alcun galateo. Le parole e le immagini che fuoriescono dallo schermo televisivo come un flusso inesauribile di comunicazione creano un rivestimento dell’ambiente domestico e proiettano il pubblico in una dimensione televisiva. Paddy Scannel definisce questo fenomeno “raddoppiamento dei luoghi”, perché la realtà in situ e la realtà televisiva iniziano a compenetrarsi.

Questa modalità di appropriazione della fruizione attraverso la distrazione mi pare si possa scorgere già nelle prime esperienze del Drive-in, vale a dire in un cinema che prevedeva una fruizione più informale – le auto costituivano un luogo privato incasellato in uno spazio pubblico – durante la quale era possibile mangiare, amoreggiare con la propria compagna, o di parlare con i propri figli.

Mi sembra di poter dire che Andy Wharhol avesse percepito bene queste nuove necessità del pubblico e per tale ragione con i suoi “silent movies” dei primi anni Sessanta, realizzò dei film fuori da ogni tradizione cinematografica – anche se l’estetica di questa opere è molto simile quella dei primi film dei fratelli Lumière – e mettendo lo spettatore che guarda al centro della scena. Una forma di reality ante litteram, ancora mutilato dalle velleità dell’arte sperimentale. Basti osservare uno di questi film intitolato “Sleep” e si penserà subito di essere sintonizzati sul Grande Fratello.

Qual è la differenza tra le star del cinema e quelle televisive? Che ruolo assumono in questo senso figure come quella del tronista di Uomini & Donne o degli amatori di Amici e XFactor?

Quando si pronuncia la parola star vengono in mente i grandi attori cinematografici del passato. Quei corpi anfibi, per metà umani e per metà dei, che hanno monopolizzato l’immaginario collettivo dagli anni Venti del Novecento fino a qualche decennio fa. La loro caratteristica era quella di essere distanti dall’uomo ordinario – sia in termini spaziali sia in termini simbolici – e sulla base di questa distanza incolmabile costruivano la propria aura e il proprio successo. Questo modello divistico nasce e si esaurisce con il cinema. La televisione e, successivamente, blog e social network producono nuove forme divistiche o di celebrità.

Il discorso sarebbe molto lungo, ma provando a sintetizzare si potrebbe dire che la TV, svelando il retroscena dei personaggi pubblici, li umanizza, rendendoli sempre più prossimi all’uomo comune. Del resto, la TV ha la necessità di creare un legame intimo con i telespettatori, perché entra nello spazio domestico e lo fa in ogni momento della giornata. Essa deve quindi mostrarsi un ospite educato e piacevole. È il meccanismo di funzionamento della televisione a produrre, almeno nella mia interpretazione, una nuova forma di celebrità a cui il pubblico si affeziona perché per la prima volta gli viene concessa di accedere alla “fabbricazione del divo”, come nel caso dei Talent, dove lo spettatore accompagna l’ascesa del divo facendone la conoscenza quando è ancora una persona ordinaria. Questo spiega anche il perché l’industria televisiva, attraverso i reality, abbia concesso la ribalta all’uomo comune: la TV ha eroso il prestigio dei divi tradizionali creando le condizioni di possibilità per l’ascesa dell’uomo comune.

Con i social questo meccanismo si potenzia. I blog, agli inizi degli anni Zero, e oggi i social network, consentono un reality show permanente e senza la mediazione del broadcaster, estendendo a tutti la possibilità di mettersi in vetrina, almeno in modo potenziale. A mio avviso oggi si può parlare di una “celebrità diffusa” generata dagli ambienti digitali e dai loro funzionamenti, che non fa scomparire i divi del cinema o della TV, ma li relega a una forma residuale e spesso li costringe a “snaturarsi”, diffondendo la propria immagine anche nella dimensione digitale, seguendo una logica amatoriale.

La televisione ha dei prodromi nella società metropolitana e punto di arrivo nei social, dove la produzione di Contenuti Generati dagli Utenti diventa fondamentale. È d’accordo con questa affermazione?

Come avrà capito, faccio fatica a ritenere “fondamentali” dei fenomeni che solo in apparenza sono nuovi, se non li si inserisce in un sistema di pensiero più ampio. Nell’ultimo capitolo del libro mi dedico alle pratiche amatoriali e, in quel caso, il riferimento, con buona pace di chi vede rivoluzioni dappertutto, è antico. La prima riflessione critica sul dilettante si sviluppa alla fine del Settecento. Goethe, per esempio, ha raccontato con enorme interesse la figura del dilettante nel suo romanzo La vocazione teatrale di Wilhelm Meister e ha scritto sull’argomento, insieme a Schiller, pagine ancora decisive. Ripartire almeno da quel momento storico mi sembra indispensabile per capire dove stiamo andando. Quando ero ancora studente, negli anni in cui si iniziava a parlare di “new media”, il dibattito culturale sembrava esaltare la “presa della parola” dell’uomo ordinario, mentre oggi, le stesse persone o la loro progenie, si dispera per le conseguenze nefaste di quella possibilità, per l’oscenità dei contenuti condivisi sui social o per le cosiddette “fake news”. A me pare che questa fragilità di pensiero sia dovuta a un atteggiamento impulsivo e predatorio nei confronti del presente. Per provare a non scivolare sul nuovismo, credo ci si dovrebbe dare obiettivi più ambiziosi, come suggeriva Neil Postman secondo il quale il medium è un’idea mascherata da macchina, e passare dalla macchina all’idea è il compito di chi vuole ragionare in chiave mediologica sulla cultura e sui fenomeni sociali.

Nel libro dedica una paragrafo a Fabrizio Corona facendo dei riferimenti al realismo francese. C’è qualcosa di sociologicamente significativo nella sua love story (già conclusa) con Asia Argento?

Fabrizio Corona è il prodotto e il simbolo della cultura televisiva che ho descritto nel testo. Ciò che mi colpisce di lui è il credito che riscuote presso le giovani generazioni, un credito apparentemente inesauribile se si considera la sua lunga assenza dalle scene dovuta alla reclusione. La spiegazione che ho provato a dare è che Corona riesce a scorgere e a sfruttare la disperazione sul volto di un’intera generazione che brama un successo che non riesce a raggiungere seguendo le strade istituzionali, mentre l’ex paparazzo, evitando questi percorsi ciechi, agisce su quelle menti con l’intento di svelare i meccanismi dello spettacolo, e senza alcuna volontà di eroderli li piega alla propria mercé, con l’ironia che inonda le grandi menti di ogni epoca, di ogni moda. I giovani che seguendo le proprie illusioni e vogliono accedere alla dimensione televisiva si affidano a questo Mefistofele contemporaneo, divenendo soggetti eterodiretti.

In Abitare la TV accosto la sua figura a quella di Carlos Herrera, un personaggio della Commédie Humaine di Honoré de Balzac, grazie al quale mi è divenuto chiarissimo che la cosiddetta società delle apparenze, che secondo molti è figlia della televisione commerciale o dei social network, affonda le sue radici nella vita delle metropoli moderne, in cui, come dice magistralmente Balzac, utilizzando quel diavolaccio di Herrera: “tutto è forma”. Corona mi pare lo abbia capito meglio di tutti, e l’ultima sua liaison con Asia Argento non è che l’ulteriore tassello di una identità in continuo movimento che stimola la curiosità del pubblico. Dopo aver visto le mille forme assunte nel tempo da Corona, stavolta si è presentato al pubblico con l’appendice di Asia Argento, una donna dalla storia troppo succulenta per non essere sacrificata sull’altare del successo personale. Corona è come un articolo di moda che prova a reinventarsi per non essere messo da parte. Questa è per me una forma tutta nuova di “cinismo”, vale a dire la capacità di rispondere in maniera patellare alla sovrastimolazione della vita moderna. Una forma di vita nuova, in cui la coerenza e l’identità lasciano il posto ad un io mutante che non sarebbe in grado di riconoscersi guardandosi allo specchio. La televisione, con i suoi cicli produttivi fulminei e con la sua commercializzazione esasperata, ha accelerato il fenomeno e lo ha fatto espandere, trasformandolo in un modello comportamentale. Per questo, fa sorridere il modo in cui Corona viene trattato nei rotocalchi televisivi, in cui sembra che lo si inviti per redirmerlo. Ma Corona non vuole essere redento, Corona è un corpo desiderante, egli riesce a conferire senso ai suoi comportamenti nell’hic et nunc, nel momento stesso del loro consumo, senza rinviarne il processo di significazione all’infinito. Quella di Fabrizio Corona è una vita intrisa di finitudine in cui trionfa lo splendore della sopravvivenza quotidiana.

MARIA GRAZIA FALÀ

 

Tito Vagni