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Giorno: 14 Febbraio 2018

Elisa Mandelli: “Immagini in movimento, musei tra storia e memoria”

“Immagini in movimento, musei tra storia e memoria”

Elisa Mandelli in “Esporre la memoria” illustra il testo audiovisivo nelle istituzioni museali contemporanee

Elisa Mandelli

Un settore ancora quasi inesplorato, quello delle immagini in movimento nelle istituzioni museali. Una tipologia, quella dei testi audiovisivi nei musei, che prende campo soprattutto in quelli di storia contemporanea, dove non c’è più l’oggetto al centro, ma il farsi stesso della memoria e l’atto della sua trasmissione al visitatore. Inoltre, in questo tipo di istituzioni, emozione come elemento focale dell’esperienza del visitatore, coinvolto non più solo dal punto di vista cognitivo.

Infine, un museo, il Laboratorio della Mente di Roma, che racchiude in sintesi tutti gli aspetti di queste nuove tipologie. Sono questi i tratti salienti di cui parla Elisa Mandelli, assegnista di ricerca presso la Link Campus University (Roma), nel suo recente Esporre la memoria. Le immagini in movimento nel museo contemporaneo, edito da Forum.

Quanto c’è di nuovo da parte degli studiosi in un campo, quello delle immagini in movimento in un museo, che è interdisciplinare?

Nell’ambito dei film e media studies quando si parla di immagini in movimento nel museo la prima cosa oggetto d’interesse degli studiosi consiste in tutte quelle forme di utilizzo di queste che hanno a che fare con le videoinstallazioni, con l’arte contemporanea. Invece per quanto riguarda l’immagine in movimento in un contesto non necessariamente artistico ma in alcuni casi anche strumentale, c’è pochissimo. Come si sono studiati oggetti quali schermi urbani, o la penetrazione delle immagini in movimento in vari contesti della vita quotidiana, così invece il museo è stato dimenticato. Nel campo degli studi museologici, invece, c’è un crescente interesse per l’utilizzo non solo delle immagini in movimento, ma anche in generale dei dispositivi mediali all’interno del museo, perché la pratica curatoriale, museografica va sempre più verso quella direzione, e dunque anche le riflessioni accademiche si tengono al passo. C’è tanto di nuovo nella pratica, qualcosa di nuovo nella riflessione teorica, ma c’è ancora molto da fare.

Il suo libro prende in esame in particolare musei di storia contemporanea, ma soprattutto si rivolge a quelli che “mettono in scena” la memoria. È così?

Sì. Il “mettere in scena” ha a che fare con la dimensione performativa che permea molti musei di storia contemporanea, dove non c’è più l’oggetto, il reperto al centro, ma il farsi stesso della memoria e l’atto della sua trasmissione al visitatore. Non a caso uno degli elementi più ricorrenti dei musei storici contemporanei è la videotestimonianza, che va a incarnare questa duplice dimensione: da una parte la memoria stessa nell’atto del suo elaborarsi, la sua messa in discorso, e dall’altra parte l’idea della trasmissione e quindi la necessità della presenza di un destinatario che raccolga ciò che viene raccontato. Per questo la messa in scena della memoria diventa centrale in moltissimi musei contemporanei, dove non c’è più un oggetto che viene lasciato parlare per se stesso o accompagnato da un cartellino che ne dettaglia l’oggettività, ma un discorso più complesso e anche più vivo.

Quanto si distaccano musei come quelli che lei cita da “classici” come i Musei Capitolini che non usano praticamente mai immagini in movimento?

E’ sempre difficile fare un discorso che opponga musei che usano immagini in movimento e quelli che non le usano, perché si tratta di musei molto diversi, che si occupano di periodi storici molto diversi, e che hanno progetti museografici alle spalle molto diversi. In casi come questi rientrano questioni economiche, questioni, mi verrebbe da dire, ideologiche, meglio, di approccio curatoriale. Ci sono infatti curatori che ritengono che un approccio in direzione dell’uso delle immagini in movimento snaturi l’importanza dell’oggetto. Questo è uno dei dibattiti centrali ancora oggi: secondo alcuni l’utilizzo di queste indebolisce il primato dell’oggetto che nel museo dovrebbe stare al centro. Ci sono comunque dei musei di storia antica che fanno un grandissimo uso di video come il Museo di Ercolano, interamente virtuale, in cui la dimensione del reperto, della storia, si sposa con le nuove tecnologie.

Lei cita quattro forme di testualità audiovisiva negli allestimenti museali (Immagini di repertorio, documentari, docufiction e videotestimonianze). Ce ne potrebbe parlare?

Quello che ho fatto è stato un tentativo di sistematizzare le forme più ricorrenti di testi audiovisivi che si trovano nei musei, anche se ogni sistematizzazione schematizza dei fenomeni che sono molto più complessi. L’idea è che ci siano queste quattro tipologie. Ci sono i materiali di repertorio, film storici in quanto tali, esposti quasi alla stregua di oggetti, immagini che portano con sé un valore di testimonianza storica, per molti versi, quasi oggettiva, anche se poi l’uso che ne viene fatto non è sempre così trasparente. L’altra forma è quella del documentario, intesa nel suo senso più classico, che prolunga il discorso museale, articolandolo in uno nuovo: si basa sull’utilizzo di materiali di repertorio, di interviste ad esperti e di altri materiali audiovisivi, e fa da continuazione alla proposta di senso che il museo avanza. La docufiction (o ricostruzione finzionale), invece, è una delle forme sempre più presente nei musei, che testimonia come la realtà, l’oggettività si mescolino alla finzione in virtù di un’esigenza di maggior comunicatività, di intelligibilità. Il museo che dovrebbe essere il depositario dell’oggettività, dell’autenticità, si presta a creare delle finzioni per andare incontro al destinatario. Infine le videotestimonianze, come dicevo prima, sono sempre più pervasive, a partire da quelle dei sopravvissuti all’Olocausto, che sono quelle che hanno inaugurato il genere.

Lei ha suddiviso il suo libro in quattro parti, rifacendosi a quattro tipi di istallazioni mobili: una sui testimoni, una sul percorso del visitatore all’interno dello spazio museale, un’altra ancora sulla presenza di veri e propri film entro il museo, infine l’ultima sul tatto (tavoli interattivi). Queste tipologie si autoescludono?

Decisamente no. Come nel caso delle quattro tipologie delle testualità audiovisive esaminate sopra, si tratta di una separazione che ha scopo operativo, descrittivo. Invece queste quattro sono forme copresenti che si intrecciano tra loro e che sottendono una tendenza comune sempre più pervasiva nei musei contemporanei, cioè la spettralizzazione, leitmotiv nel mio libro. Infatti in base alle mie ricerche essa è emersa anche come leitmotiv dei musei contemporanei, dove si ha la tendenza a presentare delle figure in qualche modo spettrali, evanescenti. È qualcosa che si lega all’idea della performatività, quindi della messa in scena della memoria, in cui le figure degli spettri incarnano il riemergere del passato, sono come dei testimoni che ritornano a parlare direttamente allo spettatore creando una sorta di autenticità esperienziale.

Mi potrebbe fare l’esempio di un museo particolarmente significativo che riflette più di ogni altro il concetto dell’immagine in movimento?

Uno dei miei preferiti e che mi sembra che recepisca di più molte delle istanze che percorrono la museologia contemporanea è il Laboratorio della Mente di Roma, che è un museo realizzato da Studio Azzurro, uno studio milanese che si occupa sia di istallazioni di tipo artistico che di allestimenti museali. Esso è istallato all’interno di un ospedale psichiatrico e racconta la storia degli internati all’interno di quel luogo. Si basa completamente su immagini in movimento, che sono in molti casi figure spettrali di questi internati che ritornano a comunicare con il visitatore. Il visitatore, tramite queste, è condotto ad esperire i vari stadi della follia, come se davvero gli internati di un tempo lo guidassero a riscoprire la loro condizione esistenziale.

Una visita dunque che coglie anche l’aspetto emotivo, cosa che con le strutture museali “classiche” non succedeva…

Tramite proiezioni, touch screen, tavoli interattivi, istallazioni interattive, qui l’immagine in movimento guida attraverso un percorso fortemente connotato in senso esperienziale, che coinvolge il visitatore non solo a livello cognitivo, ma anche emotivo.

Oltre all’esempio ora citato, l’immagine in movimento oggi nel museo si collega sempre più a una tendenza più ampia, quella della creazione di un’esperienza, e da lì la sua centralità.

MARIA GRAZIA FALÀ